Decreto Crescita 2019 e durata dei contratti a canone concordato
Roberta Nardone
04 Marzo 2020
Sul supplemento ordinario n. 26/L alla Gazzetta ufficiale n. 151 del 29 giugno 2019, è stata pubblicata la l. 28 giugno 2019, n. 58, recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, recante misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi”, unitamente al testo coordinato del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (c.d. decreto crescita). Tra le principali misure introdotte per il rilancio dell'edilizia in campo immobiliare spicca, per gli operatori del settore immobiliare, l'art. 19 bis di interpretazione autentica dell'art. 2, comma 5, l. n.431/98 sulla rinnovazione e durata dei contratti c.d. a canone concordato.
Inquadramento
I contratti c.d. a contenuto parzialmente eterodeterminato o a canone concordato sono stati introdotti dal legislatore - accanto al contratto di locazione c.d. libero in cui è stata restituita ampia autonomia alle parti - al fine di garantire adeguata tutela a quei contraenti che, economicamente, non fossero in grado di sopportare un canone di locazione del tutto rimesso alla libera contrattazione. Sicchè, per incoraggiare anche i locatori a scegliere tale tipologia contrattuale, venivano attribuiti al locatore una serie di vantaggi: una durata minima (3 anni), inferiore rispetto ai contratti liberi, nonché delle agevolazioni tributarie (indicate all'art.8, l.n.431/1998 in sede di tassazione del reddito imponibile).
Il contenuto del contratto risulta determinato da fonti esterne a scapito dell'autonomia contrattuale delle parti. Infatti, l'approvazione dei contratti tipo - per effetto della modifica introdotta dalla l. 8 gennaio 2002, n.2 - viene attribuita per ragioni di uniformità alla convenzione nazionale, mentre spetta ai Comuni l'iniziativa per la promozione degli accordi in sede locale e per quanto concerne la definizione dei livelli dei canoni.
La convenzione prevede essenzialmente che, in ogni Comune, si individuino aree con caratteristiche omogenee, per valore di mercato, tipologie costruttive, dotazioni di infrastrutture e che per ognuna di esse vengano fissati dei canoni minimi e massimi determinati in base alla tipologia dell'immobile, alle pertinenze, ai servizi tecnici, alla dotazione di mobilio.
Alle parti sarà consentito unicamente determinare l'entità del canone all'interno di fasce di oscillazione comprese tra un valore minimo e uno massimo e, in ogni caso, mai in misura superiore al canone massimo, pena la nullità ai sensi dell'art. 13, comma 4, l. n.431/1998 e la riconduzione del canone a condizioni conformi.
La durata dei contratti c.d. “3+2”
Quanto alla durata, l'art.2, comma 5, l. n.431/1998 stabilisce che non possa essere inferiore ai tre anni.
La norma prevede, poi, una “proroga di diritto di due anni” alla prima scadenza ove le parti non concordino sul rinnovo del medesimo (per questo si parla comunemente di contratti 3+2).
Dopo la proroga biennale (quindi, dopo i primi cinque anni) in difetto di comunicazione da inviare da ciascuna delle parti sei mesi prima della scadenza il contratto - così recitava il comma 5 dell'art. 2 della l. n.431/1998 - “il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni”.
Quanto alla prima proroga di due anni, dal testo normativo e dalle considerazioni di Cass.civ., sez.II, 17 febbraio 2016, n.16279, si ricava che la proroga si verifica solo a condizione che vi sia un interesse del conduttore ad usufruirne (in tali termini, v. anche Trib. Roma, 26 marzo 2019, n. 6323); in difetto di detto interesse, la proroga non scatta perché stabilita in favore del solo conduttore al quale si consente una sorta di dilazione dei tempi di uscita dall'immobile nel caso in cui, pur volendolo mantenere, non abbia potuto accettare le condizioni fissate dal locatore per il rinnovo.
In difetto di interesse del conduttore a rimanere nell'immobile, egli potrà tranquillamente recedere dal contratto alla (prima) scadenza triennale.
Così non è per il locatore che, ove voglia far cessare il contratto alla prima scadenza triennale, potrà ricorrere solo al diniego motivato di cui all'art.3, l. n.431/1998.
La rinnovazione “alle medesime condizioni” in difetto di disdetta e le interpretazioni giurisprudenziali
Dopo i primi 5 anni (3+2) di rapporto, in difetto di disdetta (anche non motivata) da inviare sei mesi prima della scadenza, il contratto, così recitava testualmente il comma 5 dell'art.2, l. n.431/1998, si rinnovava tacitamente alle “medesime condizioni”.
Tale ultimo inciso ha da sempre creato discussioni e differenti decisioni anche a livello giurisprudenziale, in ordine al rinnovo trascorsi i primi cinque anni, ossia il primo triennio e il successivo biennio. Il punto controverso concerneva, quindi, la durata dell'eventuale secondo rinnovo: secondo alcuni il contratto si intendeva rinnovato di altri 3 anni (quindi 3+2+3+3+3…); per altri la rinnovazione tacita dava vita a un contratto di durata 3+2+2+2+2.…
Il Tribunale di Roma (sez. VI) ha, sino ad ora, ritenuto, come già ilTribunale di Torino (sent. 28 giugno 2008, n. 4655), che la proroga biennale operasse eccezionalmente e unicamente alla scadenza del primo triennio, proprio per favorire il conduttore. Successivamente, dovendosi il contratto rinnovare tacitamente alle medesime condizioni, la rinnovazione avveniva per i successivi 3 anni, ovvero per quella che sarebbe stata la durata ordinaria (non essendo ipotizzabile la reiterazione della eccezionale proroga di due anni).
Si osservava, infatti, che nei due modelli contrattuali previsti dalla legge, vale a dire il contratto c.d. 4+4 a canone libero e il contratto c.d. 3+2 a canone concertato, la ratio era quella di garantire un congruo periodo iniziale di godimento dell'immobile a favore del conduttore che, infatti, poteva fare affidamento su un termine di otto o di cinque anni, fatte salve le ipotesi eccezionali di diniego di rinnovo ex art. 3, l. n. 431/1998.
Superato il periodo iniziale, il contratto si rinnovava in base alla sua durata originaria che nei contratti di libero mercato è “non inferiore a quattro anni” (comma 1) e in quelli a canone concordato è non “inferiore ai tre anni” (comma 5). Infatti, lo stesso comma 5 dell'articolo in esame prevede esplicitamente che la proroga di diritto di due anni si verifica “alla prima scadenza del contratto”; da ciò si ricavava che il contratto scadeva con il triennio, quindi la sua durata era di tre anni, e solo alla prima scadenza operava la proroga di diritto biennale. Peraltro, la proroga “di diritto per due anni” si verificava solo “ove le parti non concordino sul rinnovo”; il che confermava ulteriormente che la durata del contratto era quella originariamente pattuita dalle parti le quali, manifestato un espresso dissenso al rinnovo del contratto potevano escludere totalmente il meccanismo della proroga ex lege. Inoltre, ritenere che il contratto si rinnovi secondo il modello di tre anni più due, comporterebbe, che al termine di ogni nuovo triennio il locatore potrebbe disdettare il contratto solo ricorrendo le condizioni previste dall'art. 3, l. n. 431/1998; ma tale conclusione è sicuramente esclusa dalla chiara formulazione del citato art. 3 per il quale “alla prima scadenza dei contratti stipulati ai sensi del comma 1 dell'art. 2 e ... del comma 3 del medesimo articolo, il locatore può avvalersi della facoltà di diniego del contratto”. Infine, appare di dubbia ragionevolezza un modello contrattuale secondo il quale, da un lato, i rinnovi si succedano con durata differente ed alternata, e, dall'altro lato, la disdetta possa essere libera alle scadenze biennali, ma debba essere titolata alle scadenze triennali; non si coglie, infatti, quale potrebbe essere la ratio di una disciplina così differenziata.
Appariva, quindi, preferibile ritenere che il contratto di locazione delineato dai commi 3-5 dell'art. 2, l. n. 431/1998 ha durata triennale, o comunque “non inferiore ai tre anni”; alla scadenza del primo triennio, o comunque del primo periodo, le parti possono concordare un rinnovo contrattuale per la stessa durata (ipotesi ammessa dalla presenza dell'inciso “ove le parti non concordino sul rinnovo”); salva la facoltà per il locatore di esercitare il diniego di rinnovo alle condizioni dell'art. 3; qualora le parti non concordino sul rinnovo ovvero il locatore non eserciti il diniego di rinnovo, opera la proroga biennale che, quindi, si configura quale meccanismo di tutela a favore del conduttore, il quale in tal modo, da un lato, è avvertito del fatto che il locatore presumibilmente non intenderà “rinnovare” il contratto alla scadenza biennale e, dall'altro lato, ha un congruo periodo di tempo (due anni) per ricercare una nuova soluzione abitativa.
Al termine del biennio di proroga, le parti possono attivare “la procedura per il rinnovo a nuove condizioni” o “la rinuncia al rinnovo del contratto”, vale a dire la disdetta dello stesso: in assenza di una delle due predette iniziative, che sono vincolate alla forma scritta (“lettera raccomandata da inviare all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza”), il contratto “è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni”, vale a dire uguale canone e durata pari a quella originariamente pattuita, ovvero, nella misura “non inferiore ai tre anni”.
Il decreto crescita e l'interpretazione autentica del legislatore
Su tale questione, è intervenuto il legislatore con l'art.19-bis, d.l. n. 34/2019 con una norma dichiaratamente di interpretazione autentica.
In generale, la natura interpretativa di una disposizione normativa, comportando una deroga al principio della irretroattività della legge (art.11 disp. prel c.c.), nel senso di determinare l'applicazione della nuova disposizione anche al passato, deve risultare chiaramente dal suo contenuto, il quale deve non solo enunciare il significato da attribuire ad una norma precedente, ma anche la volontà del legislatore di imporre questa interpretazione, escludendone ogni altra (Cass civ., sez.II, 21 dicembre 2012, n. 23827).
Nel caso che ci occupa, il legislatore ha precisato che l'art.2, l. n.431/1998, al comma 5, va interpretato nel senso che, in mancanza di comunicazione ivi prevista, il contratto si intende tacitamente rinnovato, a ciascuna scadenza, di due anni (creando, quindi, la possibilità di un contratto di anni 3+2+2+2+2…), e così ponendo fine al dibattuto interpretativo.
In conclusione
Trattandosi, quindi, di interpretazione autentica di una norma esistente e non di una innovazione normativa, l'efficacia di tale novità opera ex tunc, quindi fin dall'entrata in vigore della norma cui si riferisce, con la conseguenza che essa va ritenuta applicabile anche ai contratti 3+2 già stipulati e rinnovati (quindi anche quelli già giunti in passato al rinnovo al quinto anno) a partire dal 30 dicembre 1998 (data di entrata in vigore della l. n.431/1998), quindi anche ai giudizi in corso, con l'unico limite dell'eventuale giudicato formatosi nelle singole controversie.
Potremo trovarci allora di fronte a casi in cui le parti, convinte della durata triennale del rinnovo, non applichino correttamente i meccanismi contrattuali (con particolare riguardo al locatore che intendesse inviare la propria disdetta). In particolare, il locatore, contando sulla proroga triennale, potrebbe trovarsi a non avere inviato con il giusto anticipo la disdetta, confidando nel precedente orientamento giurisprudenziale, incorrendo nella rinnovazione tacita del rapporto (per ulteriori due anni).
Guida all'approfondimento
Di Marzio, La locazione, Torino, 2010
S. Rezzonico - M. Rezzonico, Manuale delle locazioni abitative e commerciali, Rimini, 2019
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Sommario
La durata dei contratti c.d. “3+2”
La rinnovazione “alle medesime condizioni” in difetto di disdetta e le interpretazioni giurisprudenziali
Il decreto crescita e l'interpretazione autentica del legislatore