I termini decadenziali nel caso di più contratti illegittimi succedutisi continuativamente
09 Marzo 2020
Massima
Ai fini del termine di decadenza dell'azione giudiziaria ex l. n. 183 del 2010, in presenza di pluralità di contratti a progetto o qualificati di consulenza, stipulati tra le parti senza soluzione di continuità, nel caso in cui il primo contratto sia dichiarato nullo e convertito automaticamente in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (nel caso di specie in base al regime sanzionatorio previsto dall'art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, nel testo applicabile ratione temporis), il solo termine che assume rilievo è quello decorrente dal recesso del datore di lavoro dal rapporto in essere, in relazione all'ultimo contratto, da qualificarsi come licenziamento, in quanto l'unico onere del lavoratore è quello di impugnare l'atto espulsivo materialmente dal rapporto e non anche ciascuno dei contratti di lavoro.
La conversione del primo contratto in contratto subordinato a tempo indeterminato determina l'unicità del rapporto di lavoro intercorso tra le Parti, così che la stipulazione dei successivi contratti non può incidere sulla già intervenuta trasformazione del rapporto, salva la prova di una novazione ovvero di una risoluzione tacita del rapporto. Il caso
Un lavoratore agiva in giudizio, con il rito speciale Fornero, nei confronti della società datrice di lavoro, chiedendo, previamente, in via incidentale, l'accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la stessa, dal 3 settembre 2007 al 3 febbraio 2015, il quale era stato invece formalizzato con un contratto a progetto e, successivamente, con contratti di consulenza, tutti succedutisi senza soluzione di continuità, nonché chiedendo che fosse riconosciuta l'illegittimità del licenziamento di fatto intimatogli dalla Società, recedendo dall'ultimo di questi contratti, con conseguenti richieste reintegratorie e risarcitorie ex art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, ovvero, in subordine, risarcitorie ex comma 5 dello stesso articolo o, in via ulteriormente subordinata, solo quelle risarcitorie ex comma 6 stesso articolo. Nel resistere, la Società avanzava, in via preliminare, eccezione di decadenza dell'impugnazione giudiziale ex art. 32 l. 183 del 2010, per non aver il lavoratore impugnato ciascuno dei contratti contestati.
Il Tribunale di Arezzo respingeva il ricorso del lavoratore, il quale impugnava la relativa pronuncia innanzi alla Corte di Appello di Firenze, che, in riforma della stessa e in parziale accoglimento del reclamo, dichiarava l'inefficacia del licenziamento ex art. 2, l. n. 604 del 1966, nonché risolto il rapporto di lavoro intercorso alla data del recesso e condannava la Società al pagamento dell'indennità risarcitoria, di cui al comma 6 dell'art. 18, l. n. 300 del 1970. La Corte giudicava infondata l'eccezione di decadenza e, sulla base dell'interpretazione letterale dell'art. 32, l. n. 183 del 2010, evidenziava che, nel caso di specie, il lavoratore avesse, quale unico termine da osservare, quello decorrente dal recesso datoriale, pacificamente adempiuto. La Corte giudicava, inoltre, di natura subordinata il rapporto di lavoro intercorso tra le Parti, così che tale natura rendeva qualificabile come licenziamento il recesso intimato dalla formale committente, che veniva ritenuto illegittimo per mancanza di motivazione, con diritto all'indennità risarcitoria, ex art. 18, comma 6, l. n.. 300 del 1970, a seguito della declaratoria di risoluzione del rapporto.
La Corte di cassazione rigettava i ricorsi principale ed incidentale proposti dalle Parti, confermando la sentenza impugnata. Le questioni giuridiche
Le questioni giuridiche, affrontate dalla Corte di cassazione, che assumono maggior rilievo nella vicenda in esame, sono quelle relative alla decadenza di cui all'art. 32, l. n. 183 del 2010, ovvero quale termine occorra considerare ai fini dell'impugnazione diretta ad impedire la decadenza sancita dalla norma e se, inoltre, sia necessario, in caso di pluralità di rapporti succedutisi nel tempo senza soluzione di continuità, impugnare ogni singolo contratto, con termini decadenziali dalla data di scadenza di ognuno.
Inoltre, la sentenza in commento offre un'ulteriore questione meritevole di approfondimento, ossia quale debba essere, nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione, la norma sanzionatoria applicabile, ossia se quella esclusivamente risarcitoria ex art. 18, comma 6, l. n. 300 del 1970, o quelle reintegratorie e risarcitorie dei commi 4 e 7 dello stesso articolo. La pronuncia ribadisce un principio affermato in giurisprudenza a seguito della riforma ex . n. 92 del 2012, la quale ha riorientato il tema, già dibattuto in giurisprudenza e dottrina, avendo previsto la contestualità delle motivazioni alla comunicazione del licenziamento, nonché un nuovo regime di tutele per l'art. 18, l. n. 300 del 1970, sancendo, quanto all'inefficacia del licenziamento per assenza di specifica motivazione, una sanzione di natura meramente indennitaria. Il principio, che ha avuto corso con Cass., sez. lav., 5 settembre 2016, n. 17589, è così enunciabile: nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione ex art. 2, comma 2, l. n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 1, comma 37, l. n. 92 del 2012, trova applicazione l'art. 8 della medesima legge, in virtù di un'interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche l'art. 18, l. n. 300 del 1970, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria. Dunque, nei rapporti contrattuali rientranti nella disciplina di carattere obbligatorio per limiti dimensionali del datore di lavoro, le conseguenze del recesso inefficace per vizio di motivazione non si rinvengono più negli effetti di diritto comune dell'accertata persistenza del rapporto di lavoro (ossia nel ripristino del rapporto di lavoro medesimo e nell'integrale risarcimento dei danni subiti), “ma solo nella corresponsione di un importo pari a quanto previsto dall'art. 8, l. n. 604 del 1966, per la diversa ipotesi di licenziamento ingiustificato”. Le soluzioni giuridiche
La vicenda oggetto della pronuncia in commento investe l'istituto contrattuale del contratto a progetto, oggi non più previsto nel nostro Ordinamento, così come disciplinato originariamente, secondo la formulazione della norma di cui all'art. 69, comma 1, l d.lgs. n. 276 del 2003, nel testo ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche apportatevi dalla l. n. 92 del 2012.
Rileva anche la disciplina sulla decadenza, di cui all'art. 32, l. n. 183 del 2010, sollevata dalla società resistente per contrastare la pretesa del lavoratore in ordine ai pregressi contratti di lavoro, non impugnati nel termine prescritto dalla norma.
L'eccezione di decadenza trovava inizialmente accoglimento, sia nella fase sommaria che in quella di opposizione, svoltesi innanzi al Tribunale di Arezzo, il quale, aderendo alla tesi della resistente, concludeva che il termine decadenziale dovesse ritenersi applicabile non solo in caso di impugnazione del recesso, ma “anche qualora, dopo la scadenza, si intende discutere la natura subordinata del rapporto”.
La Corte d'appello di Firenze ha manifestato tutt'altro orientamento, poi condiviso pienamente dalla Corte di Cassazione, che lo ha posto a fondamento della decisione in commento. La Corte territoriale, seguendo un iter argomentativo che ha preso le mosse dalla lettera della norma, ha affermato che l'art. 32 l. n. 183 del 2010, nel prevedere i termini decadenziali di cui al primo comma, modificativo dell'art. 6, l. n. 604 del 1966, è inequivoco nel sottoporre a decadenza – per ciò che di interesse nel caso di specie - esclusivamente l'azione di impugnazione del licenziamento, comunque qualificato, proveniente dal ritenuto datore di lavoro, nonché del recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa anche nella modalità a progetto, di cui all'art. 409, numero 3), del codice di procedura civile(lett. b, comma 3 del citato articolo).
Dunque, muovendo da queste premesse e considerando la fattispecie esaminata, caratterizzata da una serie di contratti qualificati a progetto e di consulenza, stipulati tra le parti in via continuativa senza soluzione di continuità, la Corte di Appello, prima, nonché la Corte di Cassazione, successivamente, hanno sancito il principio che l'unico termine che il lavoratore avrebbe dovuto osservare, rilevante ai fini della decadenza de qua, sarebbe stato quello decorrente dal recesso contrattuale, adempiuto pacificamente.
Questo ragionamento si è inserito nell'ambito dell'accertamento della natura subordinata a tempo indeterminato del rapporto di lavoro intercorso- azione che non trova impedimenti preclusivi nell'Ordinamento, né è soggetta a prescrizione. A norma dell'allora vigente art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, ratione temporis vigente, è stato ritenuto applicabile il regime sanzionatorio dell'automatica conversione del primo contratto in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con il riconoscimento al lavoratore di tutte le relative garanzie, per assenza di specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso.
I Giudici di legittimità hanno, in tal modo, inteso dare seguito al proprio orientamento interpretativo dell'art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, fondato sul principio che, in tema di lavoro a progetto, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia stato instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo a verifiche volte ad accertare se il contratto sia stato eseguito secondo i criteri propri del rapporto di lavoro autonomo o di quello subordinato, ma si procede alla sua automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso; il controllo giudiziale è limitato esclusivamente all'accertamento del progetto, programma di lavoro o fase di esso (Cass., sez. lav., 17 agosto 2016, n. 17127; ribadito da Cass., sez. lav., ord. 6 febbraio 2020, n. 2854).
Convertito ab origine il contratto di lavoro, per effetto appunto dell'illegittimità del primo contratto a progetto; sussistente, dunque, un unico rapporto lavorativo, dalla sua costituzione fino alla sua risoluzione, ne è conseguita l'affermazione del principio che gli altri contratti di consulenza, stipulati successivamente tra le Parti in via continuativa, non abbiano avuto alcuna incidenza giuridica sul rapporto di lavoro, già di natura subordinata e a tempo indeterminato, andando ad infrangersi sulla ormai avvenuta conversione automatica del contratto. La natura dichiarativa e non costitutiva della sentenza, che accerta la costituzione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dalla sua origine, rafforza la tesi.
In linea con la propria costante giurisprudenza, la Suprema Corte ha affermato che l'effettività e la continuità della natura subordinata del rapporto di lavoro viene meno solo nel caso di estinzione del vincolo di subordinazione per effetto di intervenuta novazione o di risoluzione tacita (Cass., sez. lav., 9 marzo 2018, n. 5714, resa in tema di pluralità di contratti a termine il cui primo sia stato dichiarato nullo), ipotesi non riscontrabile nella fattispecie esaminata. Osservazioni
Il tema della decorrenza del termine di impugnazione, ex art. 32, l. n. 183 del 2010, in caso di successione di contratti ritenuti illegittimi, è stato affrontato in maniera ricorrente dalla giurisprudenza, con orientamenti sviluppatisi lungo il crinale della sussistenza o meno dell'unicità del rapporto lavorativo intercorso.
In particolare, uno degli aspetti maggiormente dibattuti – oggetto anche della pronuncia in commento – è quello rappresentato dalla forza espansiva dell'impugnazione dell'ultimo contratto della serie, ossia se essa si estenda o meno ai precedenti, ovvero quale sia la sua rilevanza nell'ambito di un unico rapporto lavorativo, a tempo indeterminato ab origine, tale per effetto di automatica conversione per illegittimità del primo contratto.
La questione si è posta per più tipologie contrattuali, ossia per i contratti a tempo determinato, anche di somministrazione, oltre che per i contratti a progetto e di collaborazione coordinata e continuativa, con prospettazioni e soluzioni tra di loro differenti.
Un aspetto accomuna le varie ipotesi delineabili, riscontrabile nella fattispecie oggetto della sentenza in commento, che è certamente un punto cardine nello scenario della pluralità di contratti, postisi in sequenza continuativa tra di loro, ossia il principio che l'illegittimità del primo contratto, con l'effetto conseguenziale della trasformazione o conversione del contratto di lavoro a termine o a progetto in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, determina l'irrilevanza giuridica della contratti successivamente stipulati. Non incidono sul rapporto subordinato a tempo indeterminato ormai intercorrente tra le parti, a meno che non si provi l'effetto novativo prodotto da uno di essi o l'intervenuta risoluzione tacita del rapporto.
Il principio, sancito già in relazione alla L. n. 230/1963, è stato esteso anche alle discipline successive sul contratto a tempo determinato, consolidandosi in un orientamento giurisprudenziale tenuto costante dalla Cassazione (Cass., sez. lav., n. 6017 del 2005; n. 17328 del 2012; n. 903 del 2014; n. 15211 e 17765 del 2015; n. 5714 del 2018), ripreso, da ultimo, dalla sentenza in commento.
Vi è poi il tema della forza espansiva dell'impugnazione ex art. 32, l. n. 183 del 2010, dell'ultimo contratto della sequenza: si arresta all'ultimo o investe i precedenti? La sentenza lo analizza in ordine alla disciplina del contratto a progetto, offrendo una interpretazione rigorosamente letterale della norma, che orienta la problematica nella corretta prospettiva di valutazione. Prima di porsi il problema dell'eventuale forza espansiva dell'impugnazione dell'ultimo contratto, occorre soffermarsi su cosa sia sottoposto a decadenza, ovvero cosa la norma richieda di impugnare nel termine, per scongiurarla. Questo è il procedimento esegetico che la sentenza suggerisce, che i Giudici di Legittimità hanno adottato, rilevando correttamente che il meccanismo della decadenza pone a carico del lavoratore – per il contratto a progetto- l'onere di impugnare solo il recesso del committente, ossia il provvedimento espulsivo dal lavoro, da cui decorre il termine decadenziale previsto dalla norma. Come affermato in sentenza, quanto previsto dall'art. 32, comma 3, lett. b), l. n. 183 del 2010 è inequivoco: “Le disposizioni di cui all' articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre: (…) b) al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all'articolo 409, numero 3), del codice di procedura civile”. Tale impugnazione tempestiva supera lo sbarramento processuale e consente l'accesso all'azione giudiziaria sull'illegittimità del recesso del committente, ovvero del licenziamento di fatto dell'affermato datore di lavoro.
Differente è il caso dei contratti a tempo determinato, giacché la disposizione – dapprima riformata ex art. 1, comma 11, lett. a), l. n. 92 del 2012; successivamente, dai d.lgs. n. 81 del 2015- aveva ad oggetto, nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 87 del 2018, l'impugnazione del termine di durata del rapporto, decorrente dalla cessazione del medesimo.
La questione della decorrenza del termine di impugnazione nel caso di successione di contratti a termine, comprendendovi anche quelli in somministrazione, si è posta in maniera stringente nel caso di sequenza di contratti succedutisi tra di loro con un intervallo di tempo inferiore al termine prescritto per l'impugnativa. L'interrogativo che è sorto è se sia necessario impugnare ogni singolo contratto, ossia se il termine decadenziale decorra dalla scadenza di ognuno di essi, oppure se il termine decadenziale investa soltanto l'ultimo contratto della sequenza, con effetto espansivo sui precedenti in caso di sua tempestiva impugnativa. Il dibattito che ne è conseguito si è incentrato, comprensibilmente, sulla condizione di debolezza che si riversa sul lavoratore alla cessazione di un rapporto a termine, sospinto tra attesa e speranza di un nuovo contratto alle dipendenze del medesimo datore di lavoro e timore che ogni azione a propria tutela possa essere controproducente, vanificando ogni possibile aspettativa. Condizione di debolezza che è proiezione della precarietà che connota il rapporto contrattuale, che il lavoratore aspira a rendere stabile, così da evitare normalmente di impugnare il singolo contratto a termine, nel caso in cui sia rinnovato prima della scadenza del termine decadenziale di impugnazione, confidando evidentemente di poter conseguire l'ambita stabilità contrattuale attraverso quel rinnovo.
Si sono delineati in giurisprudenza due orientamenti intorno a queste valutazioni, uno che valorizza e tende a proteggere le incertezze del lavoratore, invero minoritario e sviluppatosi solo tra i giudici di merito, secondo un principio recentemente riproposto da Tribunale di Siena, sez. lav., 11 gennaio 2019, n. 63: “In caso di successione di rapporti dilavoro a termine, prima della cessazione dell'ultimo contratto, l'imposizione di termini decadenziali per l'impugnazione del licenziamento di ogni singola frazione di lavoro a termine alle dipendenze del medesimo datore di lavoro non può legittimamente attagliarsi al lavoratore, indotto assai ragionevolmente a non impugnare nell'attesa di un possibile rinnovo contrattuale, magari a tempo indeterminato. Quei termini possono applicarsi, secondo una lettura costituzionalmente orientata, a rapporti di lavoro cessati, non a rapporti di lavoro a termine reiterati senza apprezzabile soluzione di continuità” (in tema di rapporti di somministrazione, Tribunale di Brescia, sez. lav., 18 giugno 2015, n. 391).
Il secondo orientamento, che è prevalente, trova piena espressione nella giurisprudenza di legittimità, che l'ha imperniato sul principio che, in caso di plurimi contratti a tempo determinato in somministrazione, l'impugnazione dell'ultimo di essi non si espande ai precedenti, neanche nel caso in cui tra un contratto e l'altro sia decorso un termine inferiore a quello prescritto per l'impugnativa, dovendo il lavoratore impugnare ogni singolo contratto, con termine decorrente dalle relative singole scadenze. La tesi si fonda sul fatto che l'inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro – il quale potrà determinarsi solo “ex post”, a seguito dell'eventuale accertamento dell'illegittimità del termine apposto- fa sì che per ogni singolo contratto si debba osservare la disciplina sulle impugnazioni e decadenze.
L'orientamento, da ultimo ripreso da Cass., sez. lav., ord,. 30 settembre 2019, n. 24356, in linea con una lunga serie di recenti pronunce della Cassazione (sentenze nn. 30134, 30135, 30136, 32702 del 2018 e nn. 422 e 2283 del 2019; in precedenza n. 2420 del 2016), si fonda sul rilievo che, per i contratti di somministrazione, “l'ipotesi del rinnovo del contratto è una mera aspettativa (anche se di plausibile realizzazione), non potendosi escludere che sia inviato dall'agenzia di somministrazione all'utilizzatore un lavoratore diverso dal precedente, e comunque non è dato conoscere all'interessato preventivamente se e quando un nuovo contratto di somministrazione verrà concluso”. Invero è un'argomentazione, seppur posta a fondamento di una linea giurisprudenziale uniforme e tesa a garantire stabilità e certezza ai rapporti giuridici nell'ambito di un settore economico importante per il mercato del lavoro, com'è quello della somministrazione, che non convince del tutto. Se possibile, nell'ambito di questi rapporti la condizione del lavoratore è di maggiore debolezza, trovandosi egli a soggiacere al sistema del lavoro interinale, rimanendone condizionato e limitato nell'esercizio delle proprie tutele, avendo – nell'agenzia per il lavoro – l'interlocutore a volte unico a cui rivolgersi per riuscire a trovare un'occupazione, così che il piano degli equilibri e della forza contrattuale è nettamente a suo svantaggio.
Ad ogni modo, oggi la questione può dirsi superata per l'intervento del legislatore, che, evidentemente prendendo posizione apposita, con il d.l. n. 87 del 2018, come convertito, con modificazioni, dalla l. n. 96 del 2018, ha previsto che il termine di impugnazione del contratto a tempo determinato debba decorrere dalla cessazione del singolo contratto, avvalorando così la linea giurisprudenziale più rigorosa affermatasi negli anni. |