Corona Virus e Responsabilità (medica e sociale)

Maurizio Hazan
10 Marzo 2020

La lezione della l. 24/2017 (cd. legge Gelli), rivela adesso una attualità disarmante, nella sua dichiarata intenzione di spostare il baricentro dal concetto accusatorio di responsabilità sanitaria, che divide e ci schiera in fazioni, a quello solidale di sanità responsabile, che al contrario dovrebbe unirci.
Introduzione

Nel ritmico e concitato succedersi di bollettini nosografici, percentuali di contagio e notizie sulla diffusione del virus, si aprono agli occhi, con prepotente evidenza, le linee rosse di una nuova geografia, spezzata, disgiunta ma parimenti ferita; un sentimento strano e contradditorio, fatto di smarrimento, dubbio, paura, incredulità e finanche distacco, si addensa intorno alle nostre corde, affollandole di immagini e suggestioni, un po' a stringerci la gola ed inquietarci, un po' ad aprirci la mente e lo sguardo.

Di fronte a questo scenario che ci porta indietro nel tempo, a (ri)prendere coscienza e memoria della nostra fragilità, abbiamo, in fondo, una segreta ed intima speranza, che poggia sui saldi pilastri della nostra consapevolezza di cittadini di uno Stato sociale: le strutture sanitarie, i medici e tutto il personale che ne costituiscono il corpo e l'anima, ci cureranno e faranno l'impossibile per salvarci.

È a loro, a questi rinnovati eroi del nuovo millennio, che dovremmo tornare a guardare con speranza, affidando gran parte della nostra urgente richiesta di aiuto. A loro che, impegnati in prima linea, mettono in gioco le loro stesse vite, e le risorse scarse di cui dispongono, per provare ad arginare un fenomeno tanto infido quanto restio a rivelare le esatte coordinate di sé.

Ed è per loro, e con loro, che tutti i cittadini dovrebbero unirsi in un solo afflato solidale, assumendo l'impegno ad imbastire la trama, nelle rispettive possibilità di ciascuno, di una “responsabile” resistenza al “nemico” comune.

E chissà che, spingendo il cuore oltre l'ostacolo, l'emergenza non sia capace di risvegliare le coscienze, anche al di là della contingenza di questa grave crisi, riportando il concetto sacro di “salute” entro un perimetro meno egoistico, sviluppato non solo lungo le direttrici di tutele e diritti assoluti ma anche di doveri inderogabili di cooperazione e mutuo e reciproco sostegno.

Il naturale senso di soffocamento che abita in molti, a seguito delle recentissime misure costrittive governative, deve lasciar posto a quella rotonda maturità che nel terzo millennio è, dopotutto, lecito attendersi, e che antepone l'impegno del “noi” alla logica dell'”io”.

Forse così la geografia delle nuove responsabilità, potrà finalmente trovar, da questa crisi, nuova linfa e il giusto pretesto per riportare in assetto quella alleanza terapeutica di cui si sono perse da troppo tempo le tracce, dietro le conflittualità di una blame culture che mostra oggi tutti i limiti del proprio paradosso. Il paradosso della messa in scacco sistematica di coloro i quali dovrebbero invece esser sostenuti, nella loro nobile attività di cura.

In questo senso, la lezione della l. 24/2017 (cd. legge Gelli), rivela adesso una attualità disarmante, nella sua dichiarata intenzione di spostare il baricentro dal concetto accusatorio di responsabilità sanitaria, che divide e ci schiera in fazioni, a quello solidale di sanità responsabile, che al contrario dovrebbe unirci.

Innanzi a tali premesse ideali, difficilmente refutabili, almeno a livello di principio, chi scrive si trova disorientato, quando incoccia nella notizia di indagini già avviate da alcune procure, (ad es. Padova, Lodi), tese a comprendere se taluni decessi o se, peggio, la propagazione di taluni focolai possano essere ascritti a responsabilità omissive delle strutture che hanno accolto i primi pazienti colpiti dal contagio.

L'intempestività di iniziative di questo tipo pare evidente e ci mette ancor più con le spalle al muro, di fronte all'esigenza dicapire quanto sia importante porre - e saper difendere - le basi che consentono al sistema di funzionare, di accoglierci e di guarirci.

La sicurezza delle cure, tra sostenibilità e alleanza terapeutica: dalla legge “Gelli” alle nuove coordinate della sanità responsabile

La crisi ai tempi del “Covid 19” diviene, dunque, emblema di una rinnovata consapevolezza: la logica del crucifige, dell'obbligazione di risultato, non può condurci lontano, ma ci inchioda lì dove siamo, lasciandoci soli ed indifesi di fronte ai mali che minacciano la nostra salute.

La fragilità messa a nudo dal virus ci dice che è la prevenzione a dover essereprincipio fondante ed autentico fuoco prospettico che deve assorbire e rimodulare anchei criteri cardine della responsabilità. E che, tanto più in un contesto privo di coordinate certe, il più grande sforzo sta nel lavorare sull'alea, per trasformarla in esperienza utile, prima, e poi in regola. Il tutto è qui complicato da un'emergenza che anticipa i “tempi di gioco”, obbligando a rincorrere ciò che non si riesce a prevenire.

La drammaticità di questi ultimi eventi ci ricorda dunque, con una gravità che non avremmo voluto conoscere, che la chimerica prospettiva di un sicuro dominio delle situazioni, e la correlata aspettativa di guarigione, non sonoun dogma né un diritto acquisito. E ci costringe a pensare che chi esercita la sacra professione di cura deve, ora più che mai, meritare il rispetto del suo impegno a prendere in carico, a suo stesso rischio, le situazioni più difficili. Quelle che sarebbe ben più comodo evitare, se non si fosse animati dall'etico impegno di una professione che si intinge nella vocazione che la precede.

E ciò a maggior ragione laddove gli esercenti le professioni sanitarie assumono, per così dire,il ruolo di parti di unità complessa, come soggetti “eterodiretti” la cui azione annega, si completa, si colora e si struttura nella sinergia e nell'intreccio di un facere collettivo e di una responsabilità condivisa

Ben si spiega e giustifica dunque, nello spirito della l. 24/2017, quella inversione di rotta, quel moto contrario che, spostando l'attenzione dal danno oramai avvenuto (e dalla sua monetizzazione), risale all'indietro alla ricerca delle cause , sollecitando nel contempo la piena collaborazione degli operatori, in un'ottica di trasparenza e apertura al dialogo, scevra dalle logiche della “blame culture (art. 1, art. 16 l. n. 24).

Un disegno nuovo, che si colloca nel solco della Raccomandazione del Consiglio d'Europa del 9 Giugno 2009 (2009/C151/ che 01)e che, finalmente, “libera” il medico da quella spada di Damocle che la giurisprudenza più rigorosa aveva posto sopra alla sua testa, trasformandolo da “genius loci ad ambita preda risarcitoria”.

Si pensi all'articolo 7 comma 3 della legge “Gelli”, che ricolloca la responsabilità degli esercenti “strutturati” entro le maglie dell'art. 2043 cc., segnando la fine del “contatto sociale” e, con esso, l'inversione di marcia rispetto ad alcune derive colpevolizzanti talvolta sostenute da una giurisprudenza non adeguatamente bilanciata. Ciò al dichiarato finedi riportare in asse il sistema e rimediare ad alcuni effetti distorsivi,tra cui in primis la cd. medicina difensiva, la crisi del dialogo con il paziente, la fuga delle Compagnie della r.c. dal mercato. Perché, sì, anche la moderna assicurazionepotrebbe vincere la sua sfida, consentendo al sistema di mettersi in miglior sicurezza contando su tutele che contribuiscano anch'esse, oltre che a reggere l'urto di eventuali ricadute risarcitorie, a identificare e gestire al meglioi fattori di rischio, consentendone la copertura a condizioni più sostenibili.

E non è dunque un caso se, sull'onda di tale processo di rimeditazione, avviato dal decreto Balduzzi e stigmatizzato dalla legge 24/2017, anche la Cassazione ha in qualche modo sentito la necessità di rendersi interprete di un approccio più equilibrato, in termini generali, ed allineato alla ratio di fondo della Legge 24/2017: il tutto rivedendo il proprio orientamento in punto onere della prova del nesso causale (Cass. civ., n. 18392/2017) econfermando detto mutamento di indirizzo anche nelle recentissime sentenze di San Martino 2019, in seno alle quali viene icasticamente - e con eloquenza - affermato che «(..) nelle obbligazioni di diligenza professionale, la prestazione oggetto dell'obbligazione non è la guarigione dalla malattia o la vittoria della causa, ma il perseguimento delle legesartis nella cura dell'interesse del creditore» (Cass. civ., Sez. III, 11 novembre 2019 n. 28891 e n. 28892).

Questo cambiamento di prospettiva, in una visione oggi amplificata dagli eventi, riflette una consapevolezza che è bene imprimersi nella mente: quella per cui la logica oscurantista della “minaccia latente di condanna” conduce, inevitabilmente, ad un recesso e si traduce in un antinomico barrage che, oltre a comportare una dispersione di risorse economiche non infinite, arresta il progresso, la ricerca, lo sviluppo di tecniche, terapie e procedure più efficaci, e compromette la stessa salute del paziente.Ma soprattutto alimenta la fiamma di un reciproco sospetto, che inquina la comunicazionee compromette un rapporto – quello tra medici e pazienti –che, mai come nelle odierne difficoltà, dovrebbe nutrirsi di reciproco sostegno e solidale comprensione.

Ciò non significa voler abbassare la guardia, od aprire la strada ad una insidiosa deresponsabilizzazione del sistema: significa, al contrario, guardare alla responsabilitàcome parametro dell'impegno diligente di cura, la cui seria assunzione merita tutela, specie se da parte di professionistiche si mettono in gioco per curare chi dovrebbe rivolgersi a loro con fiducia e non con pregiudizio. Il tutto in accordo con quanto, già nel 2018, la lucida motivazione di una importante sentenza di merito capitolina (Trib. Roma, 1 febbraio 2018, dott. Cons. Moriconi), aveva statuito mettendo in rilievo la necessità di recuperare il senso sostanziale di una norma di centrale importanza, nel sistema del Codice Civile: quell'art. 2236 a cui «anche nello spirito riequilibratore operato dalla recente legge 24/2017» occorre «dare il corretto significato….» valorizzando il principio per il quale «non può ritenersi in colpa (da intendersi grave e quindi giuridicamente significativa) il medico che, in presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà si sia attenuto alle linee guida o esse mancando, alle buone pratiche cliniche-assistenziali, quali che siano stati i risultati dell'intervento dal medesimo effettuato».

E si tratta di una norma, e di un principio ai quali, calati nel contesto emergenziale e assai aleatorio che stiamo vivendo, occorre serbare un rispetto oggi irrinunciabile.

La sanità responsabile - e la responsabilità sanitaria - ai tempi del Covid 19: spunti, forse “impressionistici”, di riflessione

Ciò a cui, chi scrive, non vorrebbe assistere, in questi momenti di drammatica crisi, è la possibile ripresa di scenari accusatori, o la caccia ai responsabili tra coloro i quali - medici, altri professionisti della sanità od organizzazioni complesse – sono oggi ridotti allo stremo pur di provare ad arginare un fenomeno di portata epocale, che resterà gravemente inciso nella pagine del futuro racconto della storia moderna.

In attesa che, tra la congerie di norme emergenziali che si stanno succedendo, il legislatore valuti se e come intervenire per prevenirli o comunque inibirli - quei foschi scenari – riteniamo che vi siano alcuni elementi che, in punto di diritto, meritino di esser valorizzati per evitare che la battaglia al Covid 19 sia intralciata da percorsi risarcitori nella maggior parte dei casi inopportuni, se non disdicevoli, quando speculativi.

È il concetto stesso di emergenza, mai come adesso invocabile, a marcare la “differenza”.

Ci viene in soccorso, al riguardo, la Cassazione, con una sentenza che, non troppo risalente, illumina la via. Ci riferiamo alla sentenza del 10.06.2014 n. 24528 (Cass. pen. est. Blaiotta)la quale, facendo riferimento all'art. 2236 cc. ( e alla questione della sua applicabilità nel diritto penale) si occupa a chiare lettere della necessità di valutare, proprio al filtro di quella norma, la particolare “temperie” nella quale un determinato intervento sanitario viene effettuato, specie se in un contesto di “pressante emergenza”. «Sul tema – si legge nella sentenza -questa Corte si è ripetutamente espressa..----la disciplina di cui all'art. 2236, …. indipendentemente dalla sua discussa, diretta applicabilità all'ambito penale, esprime un criterio di razionalità del giudizio. Si è così affermato (Sez. 4, n. 39592 del 21 giugno 2007, Buggè, Rv. 237875) che la norma civilistica può trovare considerazione anche in tema di colpa professionale del medico…..come regola di esperienza cui il giudice può attenersi nel valutare l'addebito di imperizia sia quando si versa in una situazione emergenziale, sia quando il caso implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Questa rivisitazione della normativa civilistica appare importante, non solo perchè recupera le ragioni profonde che stanno alla base del tradizionale criterio normativo di attenuazione dell'imputazione soggettiva, ma anche perchè, in un breve passaggio, la sentenza pone in luce i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione benevola del comportamento del sanitario: da un lato le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche; e dall'altro (aspetto mai prima enucleato esplicitamente) le situazioni nelle quali il medico si trovi ad operare in emergenza e quindi in quella temperie intossicata dall'impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili. Quest'ultima notazione, valorizzata come si deve, apre alla considerazione delle contingenze del caso concreto che dischiudono le valutazioni sul profilo soggettivo della colpa, sulla concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa».

Abbiamo voluto lasciar parlare la motivazione, che con la sua bella eloquenza ha descritto l'emergenza come quell'impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili, ponendo in perfetta connessione la colpa grave e l'urgenza terapeutica e rimarcando l'esigenza di cogliere le contingenze nelle quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi e della cura, sovente accresciuta dall'urgenza «da questo punto di vista, si è concluso,

l'art. 2236 cod. civ.

non è che la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell'ordine stesso delle cose. In breve, quindi, la colpa del terapeuta ed in genere dell'esercente una professione di elevata qualificazione va parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell'intervento richiestogli ed al contesto in cui esso si è svolto».

Ora, se il presente momento storico emergenziale consente, da un lato, di ridar forza a tali principi (valorizzando l'insegnamento della legge Gelli ed il rispetto dell'impegno professionale, quando assunto responsabilmente) impone, dall'altro, di assegnare proprio all'art. 2236 c.c. il ruolo essenziale di barrage naturale ad una nuova deriva accusatoria che sembra iniziare ad affacciarsi edi cui, di questi tempi, proprio non si sente il bisogno.

La misura dell'impegno medico è già fin troppo colma, oggi, nell'affannosa ricerca di coordinate o rimedi ancora empirici, a fronte di un mostro virale la cui attitudine patogena non è stata ancora ben compresa, prima ancora che dominata, dalla scienza («noi cosa fa il corona virus non lo sappiamo», intervista al prof. Burioni, in corriere.it 8 marzo 2020).

L'esplorazione dei sintomi, in un contesto facilmente confondibile, sconta peraltro i limiti di protocolli ancora in via di definizione, tra le contrapposte esigenze della segregazione - indotte dalla necessità di contenere il rischio correlato all'esposizione in ambienti saturi - e quelle del ricorso ad analisi preventive e massive delle fattispecie in odore di contagio. Il tutto nell'ambito di risorse, umane e strumentali,limitate e scarse.

E se ciò vale per tutto quel che attiene ai problemi correlati alle difficoltà di diagnosi,o meglio, di effettiva intercettazione dei casi patologici, altre riflessioni meritano di esser svolte di fronte alla probabile esplosione di richieste risarcitorie relative a contagi (asseritamente) contratti proprio all'interno del nosocomio

Ragionando in termini generali può essere opportuno ricordare come, di per loro, le infezioni nosocomiali rappresentino un fenomeno sì controllabile e prevenibile, ma non completamente eliminabile; il rischio di un contagio all'interno degli ambienti di cura può essere ridimensionato attraverso una serie di misure, ma non è, ontologicamente, azzerabile. Esiste insomma “un'alea” che è irriducibile, al di là dello sforzo diligente esigibile.

La giurisprudenza si è mossa, tradizionalmente, in un'ottica di tutela del paziente ed ha fatto ampio ricorso, ai fini della prova del nesso causale, alle presunzioni. Così, per es., in molte pronunzie, gli elementi valorizzatiper predicare la sussistenza del collegamento eziologico tra la condotta della struttura (in termini di mancata adozione degli accorgimenti necessari per garantire la sepsi delle camere operatorie, degli strumenti ecc.) e l'evento sono stati: la natura nosocomiale dell'infezione (all'esito dell'indagine condotta dal CTU, ove si accerti che la tipologia del batterio è tipicamente ospedaliera), la manifestazione entro una “finestra temporale” compatibile con quella tipica della malattia, la localizzazione ossia l'insorgenza del problema proprio nel sito chirurgico, e la inesistenza di patologie preesistenti (es. Trib. Roma, 22 novembre 2016 n. 21481 in Pluris; Trib. Agrigento 2 marzo 2016 n. 370 in Ridare; Trib. Bologna 05 ottobre 2011 in Pluris).;fattori, questi, che possono anche essere rafforzati da altre circostanze, come l'avvenuto contagio di più persone ricoverate negli stessi giorni nel medesimo reparto.

Per quanto concerne il criterio di imputazione, una volta accertata (sulla base dei parametri sopra accennati) la riferibilità dell'evento alla struttura, le strade, come noto, possono essere due: se si segue una impostazione di tipo oggettivo, l'ospedale non può, di fatto, liberarsi (se non dimostrando, per es. attraverso pregressi esami di laboratorio, che il paziente aveva già contratto l'infezione altrove).

In una prospettiva ancorata alla colpa, invece, la responsabilità dovrebbe essere esclusa allorquando il debitore provi di aver adottato una condotta conforme ai parametri di cui all'art. 1176 cc., per aver applicato misure preventive (di profilassi, igiene, comportamentali, ecc.) indicate e raccomandate a livello scientifico.

Nel senso di un chiaro ripudio di un modello “oggettivo” in punto infezioni nosocomiali si è mossa la giurisprudenza più recente , che richiede, ai fini liberatori, la dimostrazione di aver adottato tutte le misure organizzative utili e necessarie per prevenire e contenere il fenomeno, attraverso la attuazione di specifici protocolli diretti all'applicazione, al monitoraggio, all'aggiornamento e verifica delle pratiche a ciò finalizzate. Dall'assolvimento di tale onere viene così ricavata una prova «che non può che essere indiziaria che l'evento dannoso (contagio da batterio nosocomiale) era sì possibile e prevedibile, ma non prevenibile , rientrando in quella percentuale di casi che la scienza medica ha enucleato come eventi che possono sfuggire ai controllo di sicurezza apprestabili e di fatto apprestati dalla struttura sanitaria»(Trib. Roma, 22 giugno 2015). La Legge Gelli sembra recepire anch'essa questa impostazione rifiutando l'idea di una responsabilità senza colpa (si pensi alriferimento alla colpa nella formulazione testuale dell'art. 7; all'individuazione delle buone pratiche ex art. 5 come oggetto della obbligazione del medico, chiamato a “fare bene” e non necessariamente a guarire) . Ma, a differenza di quanto previsto in altri sistemi (per es. in Francia), essa non prevede – per il caso delle infezioni nosocomiali - alcun meccanismo indennitario, con ciò sollevando le perplessità della dottrina più sensibile alle istanze di protezione del paziente. Ed in proposito può essere interessante riportare quanto affermato, in un inciso di una propria pronuncia (Trib. Bologna, 5 ottobre 2011 in Pluris), dalla corte territoriale : « (..) questo giudicante si permette una breve digressione per sottolineare come il fenomeno delle infezioni nosocomiali , notoriamente di cospicue dimensioni e di approccio complesso, non possa essere adeguatamente affrontato utilizzando le regole della responsabilità civile conseguenti alla contrattualizzazione della responsabilità medica e all'affermazione del principio della vicinanza alla prova, in una condivisibile ottica di tutela del paziente quale soggetto debole; appare così auspicabile, quantomeno in questo settore della responsabilità medica, la tutela indennitaria già introdotta in altri ordinamenti (..)».

Nel caso del Covid 19, peraltro, pur in un contesto in via di continua evoluzione, può sostenersi, certamente, che l'infezione sia a matrice prevalentemente non ospedaliera, avendo carattere per così dire tipicamente esogeno e non endogeno (e cioè tale da essere stata presuntivamente contratta al di fuori del nosocomio). Rimane tuttavia il problema di comprendere se, e in che termini, possano oggi ritenersi esistenti specifiche misure organizzative per impedire che l'infezione, pur tipicamente esogena, si diffonda nell'ospedale. Nella cruda realtàin cui gli stessi medici e gli altri esercenti contraggono l'infezione con disarmante facilità, i protocolli di prevenzione normalmente in uso dimostrano di non esser sufficienti, specie in situazioni di emergenza come quella attuale, in cui tra l'altro ben poco si sa di questa malattia. E se poi è vero che questo virus, tanto diffuso, è molto più contagioso di quanto era lecito attendersi, l'accertamento del nesso di causa oltrepassa, spesso, i limiti della probatio diabolica: Tizio potrebbe averlo contratto al supermercato o in stazione o in piazza o in coda dal giornalaio mezz'ora prima o il giorno prima di incontrare Caio… E se poi Sempronio - incurante, distratto o forse sciatto e irresponsabile - si fosse volutamente tolto la mascherina, con un semplice respiro potrebbe aver contaminato chi lo assisteva, chi gli stava vicino e, con loro, l'intero reparto, e così via..Si pongono qui, problemi teorici che non si possono indagare, in questa sede, a di là di una semplice enunciazione: siamo di fronte ad una interruzione del nesso? E come potrebbe la struttura impedire al singolo paziente di togliersi la mascherina? Gesto repentino, che si esaurisce in un attimo. Cosa è davvero esigibile dalla struttura? Deve forse “piantonare” i pazienti”???

Nell'emergenza conclamata di questi giorni, tutti questi interrogativi non trovano neppure il tempo di esser posti. Nulla ci si può permettere di sottovalutare, certo. Ma il controllo del singolo gesto altrui, in questi contesti, risulta chimerico e neppur lontanamente richiedibile a chi, con risorse limitate, si trova addirittura a dover fare i conti con la selezione dei pazienti, per capire chi poter direttamente accogliere e chi invece dirottare altrove. Ciò senza voler considerare eventuali responsabilità superiori, di chi non ha forse per tempo considerato l'allarme lanciato qualche settimana fa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, che aveva ammonito gli Stati affermando:

" «

Un virus può creare più sconvolgimenti politici economici e sociali di qualsiasi attacco terroristico: il mondo si deve svegliare e considerare questo virus come il nemico numero uno"».

Ma ci interessa, piuttosto, tratteggiare un diverso ed ulteriore profilo di indagine.

L'argomento, infatti, ci porta dritti dritti, e di suggestione in suggestione, a considerare la diversa responsabilità etica, morale e civile, del cittadino: di ciascuno di noi.

La crisi che stiamo vivendo sollecita anche una più attenta riflessione su quei «doveri sociali» a cui ognuno di noi è chiamato, a quel senso “civico”, se vogliamo definirlo così, che costituisce il risvolto della medaglia e che, mai come ora, dovrebbe risvegliarsi e riemergere dai reconditi spazi della nostra, forse un poco intorpidita e ristretta, coscienza di cittadini e uomini del mondo. Ci riferiamo a quell'obbligo che non è più solo di solidarietà, ma di aderenza ed ossequio alle prescrizioni normative “restrittive” che tracciano confini, linee rosse, che ci impongono di non uscire di casa se siamo malati, o che più in generale limitano le nostre libertà in funzione della tutela del diritto alla salute di tutti.

E l'impegno all'osservanza di quelle regole, paradossalmente di “non” convivenza, date le circostanze,assume – oggi – un significato ancora più pieno e rotondo perchè, pur imponendo quel che sembra il suo esatto contrario, ossia la distanza tra le persone, sollecita e “richiama alla vita” il senso etico del legame e dell'appartenenza ad una comunità.

Il rispetto per l'altro, quell'antico precetto che campeggia anche sul fronte del Palazzo di Giustizia di Milano (alterum non laedere) è e torna ad essere principio fondante, tanto più al tempo dell'emergenza nella società del terzo millennio. Emerge dunque l'esigenza di ribaltare l'angolo visuale, eprendere in considerazione le potenziali responsabilità connesse alla violazione delle regole di prudente condotta oggi imposte dal nostro governo. Specie da parte di chi sia consapevole di essere malato o sia portatore di sintomi che dovrebbero indurlo a considerare con serietà la possibilità di esser stato raggiunto dal virus. Tra le pieghe della colpa cosciente, del dolo eventuale e, soprattutto, della violazione dei più recenti precetti imperativisi possono annidare nuove conflittualità. Che potranno riguardare anche tutti coloro i quali gestiscano spazi e luoghi senza rispettare i canoni di sicurezza imposti dal Governo.

Ma non è un tema che si vuole affrontare, qui ed ora.

Questo è il tempo della responsabilità. Intesa come missione e non come rimedio.

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