Casco protettivo: quello a “scodella”, in luogo dell'integrale omologato, impedisce il risarcimento

11 Marzo 2020

Negato il risarcimento dei danni subìti da una donna, trasportata a bordo di un motoveicolo, a seguito della caduta dovuta ad un improvviso attraversamento di cani sulla carreggiata: la donna indossava un casco a “scodella” anziché il casco protettivo integrale omologato.

La l. 29 luglio 2010, n. 120, all'art. 28, ha reso illegittimo l'impiego del casco a scodella (ovvero quello con omologazione di DGM) finanche per i ciclomotori, mentre per gli ulteriori veicoli, come i motocicli, la sospensione delle omologazioni era già intercorsa in epoca anteriore, per il tramite di un decreto del 2000.

I fatti. Una donna veniva trasportata a bordo di un motociclo condotto da un uomo, indossando il casco di protezione cd. a scodella. Il conducente, non avvertendo la presenza di alcuni cani sulla carreggiata, perdeva il controllo del mezzo: la trasportata urtava il viso contro il casco indossato dal conducente, così subendo lesioni al volto e ai denti, un trauma alla spalla destra e al ginocchio destro.

La vicenda nei gradi di merito. Il Giudice di Pace dichiarava il conducente e il proprietario del veicolo responsabili delle lesioni subite dalla donna nella misura del 50%, nel contempo dichiarando l'inammissibilità dell'azione proposta nei confronti della compagnia di assicurazione del veicolo. La donna ricorreva in appello, il quale veniva accolto parzialmente, dichiarando ammissibile l'azione diretta nei confronti della società di assicurazione, ai sensi dell'art. 141 cod. ass., altresì confermando la responsabilità degli appellati in misura pari al 50%.

L'accoglimento della doglianza relativa alle spese di lite. La questione approda presso la Corte di Cassazione, che accoglie il ricorso formulato dalla donna limitatamente alle spese di lite, così decidendo nel merito. Nella specie, la donna deduceva la violazione del principio dell'effetto espansivo interno della pronuncia riformata, invocando la conseguente nullità della decisione. Più in dettaglio, secondo la tesi difensiva, il giudice di seconde cure, prescindendo dall'accoglimento del gravame, non avrebbe provveduto a rinnovare il regolamento delle spese di lite del giudizio di primo grado, già poste da quel giudice, in misura della metà, a carico dei due convenuti. Per l'effetto, ritenuta fondata l'azione diretta ai sensi dell'art. 141 cod. ass., le spese di lite del giudizio di primo grado avrebbero dovute essere poste a carico della compagnia di assicurazione. Il collegio di legittimità, aderendo all'esposta tesi difensiva, ha osservato che il giudice di seconde cure avrebbe dovuto regolare le spese di lite di primo grado ponendole a carico anche della compagnia e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell'art. 384 c.c., ha deciso nel merito, così condannando la compagnia al pagamento delle spese del giudizio di primo grado, in via solidale, col conducente e col proprietario del veicolo.

La prova sulla tipologia di casco indossato. Ulteriormente, secondo la donna, il giudice di merito avrebbe dovuto ritenere non allegata e, per l'effetto, non provata, la circostanza che la stessa, al momento dell'incidente, non avesse indossato il casco integrale. Il collegio di legittimità, nel ritenere la censura infondata, evidenzia che tale rilievo non rappresenta l'esito dell' applicazione del principio di non contestazione di cui all'art. 115 c.c., in quanto la non contestazione dell'impiego del casco integrale presuppone che detta circostanza fosse stata allegata e quindi dedotta dalla ricorrente che, al contrario, si era limitata a una deduzione dissimile e, più precisamente: “indossava il casco regolamentare di protezione omologato regolarmente allacciato”.

La disciplina applicabile all'impiego dei caschi di protezione a bordo di “motocicli” e “ciclomotori”. Il collegio richiama la decisione resa dallo stesso collegio di legittimità (Sez. VI-3, ord. 30 luglio 2019, n. 20558), nella quale si era osservato che la l. 29 luglio 2010, numero 120, all'art. 28, ha reso illegittimo l'impiego del casco a scodella ovvero quello con omologazione di DGM finanche per i ciclomotori, mentre per gli ulteriori veicoli, come i motocicli, la sospensione delle omologazioni era già intercorsa in epoca anteriore, per il tramite di un decreto del 2000. Ulteriormente, viene osservato che il caso a scodella risulta differente rispetto al casco aperto cd. “Jet”, in quanto privo della copertura della zona corrispondente al collo ed alle orecchie. Consegue che la ricorrente avrebbe dovuto specificamente dedurre, ex art. 366, n. 6, c.c., che la vicenda asseriva alla circolazione di un “ciclomotore”, e quindi di un veicolo a due ruote di cilindrata non maggiore di 50 cc e velocità massima di 45 km/h. Il collegio ulteriormente ha osservato che nel ricorso non ricorre il richiamato elemento e che, all'opposto, si riferisce ad un sinistro avvenuto a bordo di un “motoveicolo” e cioè un motociclo avente cilindrata e velocità superiori rispetto al “ciclomotore”, e rispetto al quale il divieto di utilizzo del casco a scodella risultava addirittura precedente alla data di verificazione del sinistro che, nella specie, occorse nell'ottobre dell'anno 2009.

La contestazione della prova sulla tipologia di casco indossato. Per il collegio della Cassazione la doglianza formulata dalla donna risulta ulteriormente infondata in quanto, dall'analisi della pronuncia resa in primo grado, emerge che il Giudice di Pace avesse appreso dell'impiego del casco a scodella in sede di prova testimoniale. Più in particolare, è stato precisato che l'esito della prova costituenda deve ritenersi prevalente rispetto a un'ipotesi di non contestazione circa l'utilizzo di un casco omologato, seppure aperto (come il “Jet”), e ciò sulla base di due argomenti: in prima battuta, in quanto l'attore avrebbe dovuto evidenziare, al giudice di primo grado, che l'impiego specifico di un casco differente da quello a scodella non avrebbe dovuto essere provato poiché non contestato, ovvero avrebbe dovuto richiedere la revoca della prova testimoniale in ordine alla tipologia del casco impiegato. Una volta espletata la prova testimoniale e non contrastata, secondo quanto illustrato dalla stessa Corte di Cassazione, non risulta censurabile l'argomentazione del Giudice di Pace che abbia ricostruito il fatto sulla base delle dichiarazioni rese dai testimoni; in secondo luogo il collegio ha ribadito (Cass. civ., Sez. VI-3, ord. 30 luglio 2019 n. 20558) che “il principio di non contestazione è evocato a torto, dato che si fa riferimento non alla mancata contestazione di un fatto, bensì all'omessa contestazione di una qualificazione di liceità dell'uso del casco a scodella, che, inerendo ad un problema di individuazione del diritto applicabile ai fatti doverosamente il Tribunale ha fatto, applicando il principio”.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

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