I proventi della continuità, come qualsiasi surplus concordatario, non sono liberamente distribuibili

Danilo Galletti
16 Marzo 2020

Di recente, e dopo che un'elaborata pronunzia della Corte distrettuale torinese aveva preso energicamente posizione a favore della tesi restrittiva sul tema della distribuibilità dei flussi della continuità nel concordato preventivo, una sentenza della Corte di Appello veneziana ha ritenuto di tornare in argomento, aderendo alla tesi “libertaria”; ha davvero voluto farlo, perché il procedimento, introdotto ai sensi dell'art. 18 l.f. si è chiuso comunque con la conferma della sentenza di fallimento; ma la Corte ha statuito anche sul punto in questione, che ben avrebbe potuto altrimenti restare “assorbito”.
Premessa

Di recente, e dopo che un'elaborata pronunzia della Corte distrettuale torinese aveva preso energicamente posizione a favore della tesi restrittiva sul tema della distribuibilità dei flussi della continuità nel concordato preventivo (cfr. App. Torino, 31 agosto 2018, Milano, 2019, p. 377), una sentenza della Corte di Appello veneziana (App. Venezia, 19 luglio 2019, Fall.to D'Amante) ha ritenuto di tornare in argomento, aderendo alla tesi “libertaria”; ha davvero voluto farlo, perché il procedimento, introdotto ai sensi dell'art. 18 l.f., si è chiuso comunque con la conferma della sentenza di fallimento; ma la Corte ha statuito anche sul punto in questione, che ben avrebbe potuto altrimenti restare “assorbito”.

Mi sono già occupato poco tempo fa di tale tematica (il rinvio è a Il miglior soddisfacimento dei creditori: brevi note sui principi generali e sugli interessi tutelati, in www.ilfallimentarista.it, 28 febbraio e 15 marzo 2019, studio, ove taluni problemi “generali” sono trattati in modo più analitico, e col quale dunque questo scritto è destinato “naturalmente” ad integrarsi), nell'ambito di una riflessione più generale sul concetto di “miglior soddisfacimento dei creditori”.

Nel frattempo anche il “battaglione” degli scrittori che sostengono da tempo, non solo nella sede della pubblicistica, la ammissibilità di tale prassi, ha fatto nuove “sortite”, assai determinate (cfr. Greggio- Vidal, Continuità aziendale e finanza esterna nel concordato preventivo, in www.fallimentiesocieta.it, 2019; Guiotto, Destinazione dei flussi di cassa e gestione dei conflitti d'interessi nel concordato preventivo con continuità aziendale, Milano, 2019; Terenghi, “Finanza esterna”, ordine delle cause di prelazione e flussi di cassa nel concordato con continuità, ivi, pp. 380 ss.).

Anche un libro recente affronta il tema, cercando una difficile sistematizzazione di alcune “spinte” concettuali oggi molto à la page (Fabiani, La struttura finanziaria del concordato preventivo, Bologna, 2019, pp. 206 ss.).

Proprio tali scritti, peraltro molto ben argomentati e documentati, insieme alle due sentenze di cui sopra, hanno costituito l'occasio per questo pamphlet.

Gli argomenti spesi per la verità non paiono esser cambiati, ed appartengono praticamente tutti all'armamentario, in grandissima parte preconcettuale, tipico dei fautori della “continuità ad ogni costo”, come se il concordato preventivo con continuità aziendale fosse divenuto un “emulo un po' emaciato” dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi (ma caratterizzato dalla forte peculiarità per cui i soci originari possono restare titolari dei diritti “residuali” senza pagare alcunché, e beneficiando della c.d. plusvalenza da falcidia, che misura il sacrificio accettato dai creditori a maggioranza).

Si registra solo un aggiornamento dell'apparato simbolico, rinnovato in apparenza, come fa un virus che cerca di modificare le proprie catene di nucleotidi per sfuggire ai nuovi vaccini, senza tuttavia poter smarrire il suo nucleo identificativo essenziale.

Cenni sulla gerarchia fra interessi

Così si può dire tranquillamente che il “Codice della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza” (nel prosieguo solo il “CCII”), la stessa Direttiva europea in materia di ristrutturazioni (n. 1023/2019: di seguito solo “Direttiva”), prediligono la continuità in senso “oggettivo”, od anche “aziendalistico” (come se si volesse sfuggire alle maglie del diritto, per ripararsi in quelle avvertite come più tranquillizzanti dell'economia aziendale).

Peccato però che un tale asserto venga poi “flesso” in termini tali da mistificarne il senso: il CCII e la Direttiva non sono certo “ostili” alla continuità ed all'idea della ristrutturazione dell'azienda, ma solo nella misura in cui ciò possa produrre un maggior tasso di recovery per i creditori, e soltanto se questi ultimi siano compensati del maggior rischio che ne consegue con una previsione più che solida, fondata su dati oggettivi, di maggior recupero.

La gerarchia fra interessi colloca adesso esplicitamente in prima posizione i creditori nell'art. 84 CCII.

Non è possibile elevare a “principi di sistema” gli slogan, le disposizioni declamatorie, ed ignorare semplicemente il dato normativo, che pone in primo piano semmai la cautela, la rischiosità di questi tentativi, e fornisce poi strumenti agevolativi della ristrutturazione non per perseguire l'ideale della continuità in sé, ma solo per diminuire il rischio di insuccesso e di pregiudizio per i creditori.

Se la continuità programmata non consente di prevedere, e su basi più che ragionevoli, solidamente attestate e riscontrabili dal Tribunale, di attribuire al ceto creditorio più dello scenario liquidatorio, è a quest'ultimo che bisogna volgersi, e “sollecitamente”.

Questo tanto nel diritto vigente, quanto nel CCII (tanto per la continuità “incentivata” di cui all'art. 84, quanto per ogni ipotesi di prosecuzione dell'attività aziendale, a prescindere dalla idea della prevalenza), oppure nella Direttiva (che è più che esplicita sul punto, ripetendo svariate volte il concetto di “sostenibilità economica”, ma in passi che non vengono citati mai …); per non parlare degli ordinamenti nazionali nordeuropei, sul cui modello la Direttiva è forgiata.

Ben vengano allora assetti normativi che consentano a tutti gli attori della crisi (imprenditori, advisors, creditori) di tentare la ristrutturazione in modo tempestivo, quando la soluzione in continuità è ancora sostenibile, od addirittura (auspicabilmente) quando la crisi è ancora evitabile. Ma ciò non può comunque avvenire a spese ed a rischio dei creditori.

La Direttiva spinge l'acceleratore sulla ristrutturazione perché assume che normalmente ciò corrisponda all'interesse dei creditori ad un maggior soddisfo, nella consapevolezza della realtà del tessuto economico predominante nel territorio europeo, innervato da piccole e medie imprese, ove spesso la estrazione del soggetto economico dall'impresa, in condizioni ove l'avviamento è quasi interamente “soggettivo” (o se si preferisce self made generated), rischierebbe di annichilire il valore dell'attivo disponibile.

L'unica concessione che la Direttiva sembra fare all'idea della ristrutturazione “in sé” è a livello empirico, nel progetto di condizionare nella normalità dei casi l'intervento del Giudice al fatto che i creditori che si reputano danneggiati dalla soluzione proposta chiedano espressamente di essere tutelati. Su questo punto nel prossimo futuro occorrerà forse verificare se il diritto interno sia ancora conforme agli intendimenti di quello comunitario.4

Non basta nemmeno la neutralità per l'interesse creditorio: la continuità, per legittimarsi, deve dimostrare di essere in grado di dare di più. Perché? Perché la continuità amplifica il rischio, ed allora occorre compensare i creditori per gli effetti di tale scelta, da un lato potenziando i controlli “oggettivi”, e dall'altro selezionando i casi ammissibili per la loro attitudine ad amplificare l'aspettativa di recupero, in una logica (questa sì) ricercatamente Pareto- efficiente.

La conformità all'interesse dei creditori si legittima allora solo se tale paradigma è dimostrabile ex ante, ed in modo evidente: e ciò perché per fortuna l'ordinamento concorsuale “comune” persegue saldamente e direttamente (non in modo “mediato”) l'interesse dei creditori.

Col risultato che, facendo buon governo delle norme, si dovrebbe poter dormire sonni tranquilli, liberi da incubi “Mercatone”, incubi tipici di scenari normativi alieni, ove l'interesse creditorio è recessivo, mentre proprio quello “oggettivo” dell'impresa è posto in primo piano.

È tanto evidente come sia strutturata la gerarchia ordinamentale fra interessi (cfr. per tutti De Matteis, L'emersione anticipata della crisi di impresa, Milano, 2017, pp. 62 ss.), che un concordato con continuità, se risulti pre-valente (nell'ottica dell'interesse dei creditori) la soluzione liquidatoria, non si può fare (ed i creditori non saranno nemmeno chiamati a votarlo); mentre un concordato liquidatorio, se anche la soluzione proposta fosse sub-valente rispetto all'alternativa con continuità, si può fare (e saranno solo i creditori a decidere se votarla o meno).

La presa d'atto infine del ruolo essenziale del Giudice

La “corrente ideologica” di cui stiamo parlando aveva d'altro canto sostenuto, per più di un decennio, come il Giudice dovesse essere estromesso da ogni valutazione del “merito” della ristrutturazione; ed aveva altresì declamato, con molta (troppa) enfasi, la “modernità” di quest'impostazione, l'armonia con (assai poco precisati) principi “economici”; ne è nata la distinzione compromissoria, di ambiguità imbarazzante, fra fattibilità “giuridica” ed “economica”, che ha costretto per anni i Tribunali a fare il proprio lavoro muovendosi come se si trovassero in una cristalleria. Salvo talvolta sentirsi poi dire che la funzione giurisdizionale non avrebbe mostrato la capacità di selezionare i concordati buoni da quelli “cattivi”, dimenticando che quella selezione prima si chiedeva a gran voce che la facesse solo il “mercato”, ove i primi gatekeepers avrebbero dovuto essere proprio i professionisti advisors della crisi (sull'atteggiamento del sistema e della giurisprudenza verso gli advisors cfr. Fabiani, Il delicato ruolo del professionista del debitore in crisi fra incerta prededuzione e rischio di inadempimento, in Giur. comm., 2017, I, pp. 727 ss.), per ritrovarsi a posteriori con una situazione di clamorosa ed endemica inefficienza, con gli effetti di una potente selezione avversa che disincentiva proprio i concordati “virtuosi”, ed il Legislatore costretto ad intervenire nel 2015, operando lui una selezione alla fonte, stavolta drastica.

Perché il mercato ha già fallito, e non poteva essere diversamente.

E non è certo un caso se oggi tanto la Direttiva, quanto il CCII, restaurano quei poteri del Giudice prima tanto temuti ed avversati: essi sono l'unico argine davvero “oggettivo” per bloccare i tentativi di ristrutturazione prevedibilmente destinati all'insuccesso, a spese dei creditori; quali possono essere altrimenti i gatekeepers? Il debitore, invariabilmente preda dell'azzardo morale? I creditori, bloccati da mille problemi di azione collettiva (ogni citazione sarebbe superflua)? I professionisti, quasi sempre in chiaro conflitto di interesse, così fiduciosi nel risultato del proprio lavoro da reclamare a gran voce ad ogni cambio di stagione il beneficio della prededuzione “stabile e definitivo” per le proprie spettanze, non bastando nemmeno a rassicurarli il privilegio di cui all'art. 2751bis n. 2, rango comunque di cui il piano deve promettere ed assicurare il pagamento integrale (salvi propri i casi di “finanza terza” e/o “esterna”: v. infra)?

Ma l'aspetto forse più surreale della tesi qua criticata, che si salda come abbiamo detto su posizioni ideologiche assai “liberiste”, ed ostili all'idea stessa del controllo del Tribunale sul contenuto della soluzione regolatoria proposta dal debitore, è che, in un sistema come quello italiano, ove il Giudice è chiamato a verificare d'ufficio in ordine alla integrazione del “miglior soddisfacimento dei creditori” nel concordato con continuità, essa vorrebbe basare sullo stesso concetto la legittimazione della distribuzione “asimmetrica” del surplus, così consegnando in sostanza la decisione … proprio al Giudice, anche al di là dell'espressione del voto da parte dei creditori; creditori d'altro canto che nella distribuzione asimmetrica vengono “frantumati” e “atomizzati”, rendendo così insufficiente qualsiasi forma di autotutela basata sull'idea della loro natura di “gruppo omogeneo”.

L'ipocrisia è troppo evidente per non essere disvelata.

L'esigenza di un'analisi economica, non solo aziendalistica

C'è da domandarsi subito, però, se qualcuno abbia mai seriamente riflettuto, in tempi recenti, sull'analisi economica delle norme sulla continuità, e sugli effetti ex ante delle stesse in ordine al costo del finanziamento, che un'applicazione “distorta” può produrre. La letteratura non fa certo difetto, ma ha matrice economica, non aziendalistica: qualcuno nel passato non troppo lontano ha del resto persino conseguito un Nobel per l'economia proprio studiando questi fenomeni (Stiglitz, Akerlof).

Basterebbe forse chiederlo agli stakeholders (formula asettica dietro la quale si è soliti occultare una realtà fatta da un lato di lacrime, sangue, di ossa e di persone; dall'altro di risorse pubbliche erogate “a fondo perduto”) di Mercatone, o a tutti quei creditori che hanno scoperto ex post che “finanziare” (anche col credito commerciale) un'impresa che prosegue (gestita lì nell'ambito di una procedura di amministrazione straordinaria) vuol dire inaspettatamente non solo rischiare, ma anche perdere quasi certamente tutto, poiché alla prededuzione non corrisponde affatto una sorta di “garanzia statuale” di rimborso, almeno non esplicita (ma l'effetto “implicito” invece sappiamo che c'è, almeno fino a quando la “storia” di questi disastri non ne avrà annullato del tutto gli effetti per il futuro, grazie ancora ai potenti disincentivi provenienti dalla selezione avversa: chiedete oggi ad un fornitore se somministrerebbe di nuovo merci o servizi ad un'azienda- Mercatone, di nuovo in regime di amministrazione straordinaria).

E c'è allora da chiedersi come in futuro il “disastro” generato da queste ristrutturazioni “forzate” modificherà i comportamenti generali dei finanziatori; la risposta non è disagevole per un economista, e si chiama selezione avversa: le imprese più virtuose prenderanno ancora (forse) fondi a tassi esagerati, mentre quelle non virtuose troveranno (forse) denaro a tassi che non meriterebbero.

Forse non è un caso che le analisi sulla continuità di cui abbiamo fatto cenno, che omettono sistematicamente di esaminare questi effetti, siano svolte da aziendalisti, laddove gli strumenti concettuali che occorrerebbero sono appannaggio degli economisti…

Cui prodest?

Forse agli aziendalisti che si occupano di ristrutturazioni? Anche questo è in fondo un mercato, ma dubito davvero che agevolandone il funzionamento si possano produrre apprezzabili effetti anticiclici, tantopiù in periodi di crisi sistemica.

Forse ai loro clienti che, sfruttando la “generosità” della disciplina italiana, attraverso l'esercizio della opzione- ristrutturazione, possono sperare di mantenere almeno in parte il controllo dell'azienda, senza aumentare in alcun modo il proprio investimento?

La suggestione del “surplus” concordatario

Su questo scenario si è lentamente innestata, sempre come un retrovirus, addirittura la prospettiva per cui quella previsione di “surplus” derivante dall'esecuzione del concordato con continuità potrebbe essere liberamente, direi arbitrariamente, destinata da chi formula la proposta concordataria; senza dunque “passare” per le forche caudine degli artt. 2740 e 2741 c.c., “versione italiana” della anglosassone Absolute Priority Rule (APR).

In questo contesto si colloca, mi pare, il provvedimento veneziano che si citava poc'anzi, il quale espressamente recepisce taluni degli orientamenti criticati.

Quali gli argomenti ermeneutici utilizzati? Mi piace sintetizzarli come segue.

A livello “di principio”:

  • Il principio della responsabilità patrimoniale del debitore, con tutti i suoi beni presenti e futuri, avrebbe perso la “centralità sistematica” di un tempo, e comunque esso sarebbe derogato in subiecta materia non solo dall'art. 186bis l.f., come in fondo il comma 2° dell'art. 2740 c.c. consentirebbe;
  • Il vero principio generale sarebbe costituito oggi dal “miglior soddisfacimento dei creditori”, divenuto ormai requisito di legittimità generale per ogni azione concordataria;
  • Non avrebbe senso imporre di attribuire ai creditori concorsuali i vantaggi della soluzione concordataria rispetto all'alternativa fallimentare, che non vi sarebbero, se non fosse adottata la prospettiva concordataria;
  • Realizzare un piano concordatario con continuità sarebbe virtualmente impossibile, ove i proventi della continuità dovessero essere obbligatoriamente attribuiti ai creditori secondo l'ordine legale, almeno in assenza di vera e propria finanza “terza”.

Su un piano più tecnico:

  • Il patrimonio del debitore, quale esso si presenta al momento dell'ingresso in procedura, sarebbe “fotografato” e “cristallizzato”, così che esso (ma esso solo) verrebbe a costituire un patrimonio separato, sul quale (solo) si potrebbero soddisfare i creditori concorsuali.
  • Il sistema si sarebbe evoluto anche quanto alle norme di diritto positivo, introducendo, soprattutto dopo le riforme del 2012 e del 2015, previsioni (art. 182-quinquies l.f.) che de-enfatizzerebbero l'esigenza di “neutralità” per il patrimonio del debitore delle risorse costituenti “finanza terza”.
  • Il Legislatore del CCII d'altro canto ha previsto la finanza “terza” per i concordati liquidatori, non per quelli con continuità.

L'approdo finale di questa analisi dovrebbe essere, secondo la sentenza veneziana, il principio di diritto per cui il concordato dovrebbe attribuire ai creditori concorsuali, secondo le regole tipiche, (almeno) tutto quel valore che corrisponde alla prospettiva liquidatoria; tutto il “di più” (il c.d. surplus) invece potrebbe essere liberamente destinato.

Conferma di ciò si dovrebbe trovare fra l'altro nel comma 2° dell'art. 160 l.f., ove si impone di attribuire al creditore privilegiato almeno il valore di liquidazione del bene su cui insiste la garanzia.

Di altri argomenti talvolta spesi dalle impostazioni qua criticate si è invero già detto in passato (mi sia consentito ancora il rinvio a Il miglior soddisfacimento dei creditori: brevi note sui principi generali e sugli interessi tutelati, loc. cit.): ad es. per la prospettazione per cui l'omologazione “noverebbe” l'obbligazione, causando l'estinzione delle garanzie, argomento ora ripreso i taluno degli scritti citati; ma in realtà l'effetto “conformativo” di cui all'art. 184 l.f. non è mai stato davvero riconosciuto come novativo; e sarebbe “singolare” che il decreto che deve “attuare” la responsabilità patrimoniale invece la dissolvesse; senza considerare che, se così davvero fosse, in caso di risoluzione del concordato i creditori diverrebbero tutti chirografari … e non credo vi sia bisogno di aggiungere alcunché. Quello che è assurdo semplicemente … è sbagliato.

Il “dogma” della responsabilità patrimoniale: le forme di attuazione della stessa

Dunque, si assume, le norme in tema di responsabilità patrimoniale si troverebbero derogate in subiecta materia (in letteratura cfr. sul tema, in vario senso, almeno Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, absolute priority rule e new value exception, in Riv. dir. comm., 2014, pp. 331 ss.; Ant. Rossi, Le proposte “indecenti” nel concordato preventivo, in Giur. comm., 2015, I, pp. 331 ss.; D'Attorre, Concordato preventivo e responsabilità patrimoniale del debitore, in Riv. dir. comm., 2014; Id., La finanza esterna tra vincoli all'utilizzo e diritti di voto dei creditori, in www.ilcaso.it, 20 maggio 2014; e Id., Concordato con continuità e ordine delle cause di prelazione, in Giur. comm., 2017, I, pp. 39 ss.; cfr. poi Fabiani, La rimodulazione del dogma della responsabilità patrimoniale e la de- concorsualizzazione del concordato preventivo, in www.ilcaso.it., 2016).

In realtà i vizi di fondo di questo ragionamento non sembrano poter reggere alla critica: da un lato enumerare le norme che derogano ad un principio generale non implica che il principio abbia smesso di essere tale, anzi sono proprie le deroghe a provare il contrario.

Inoltre è per lo meno singolare in tale prospettiva, anche se non viene quasi mai rilevato, come la dottrina civilistica specializzata non abbia affatto abbandonato la visione per cui l'art. 2740 c.c. ha una rilevanza sistematica generale, anche se ha ammesso limitate deroghe convenzionali (deroghe negoziali e dunque “autonome”, non assunte a maggioranza, e dunque “eteronome”) a singoli aspetti del suo contenuto (cfr. Barbiera, Responsabilità patrimoniale, in Codice civile. Commentario a cura di Schlesinger, Milano, 1992, pp. 73 ss.; conf. Roselli, Responsabilità patrimoniale. I mezzi di conservazione, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, IX.3, Torino, 2005, pp. 30 e 39. Per una visione più elastica, che enfatizza la capacità del patto derogatorio di soddisfare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c., v. invece Sicchiero, La responsabilità patrimoniale, in Tratt. dir. civ. diretto da Sacco, 2, Torino, 2011, pp. 43 ss.).

E sorprende che non si veda che le deroghe enumerate attengono tutte ad istituti non propri del diritto concorsuale (che al limite possono essere “utilizzati” a tali scopi: gli strumenti di segregazione patrimoniale): di conseguenza, partendo da questa strada, ed al solo fine di pervenire ad un risultato ermeneutico che è specifico del diritto concorsuale, si vorrebbe sostenere che è la regola generale a dover essere messa in discussione, e non le sue applicazioni nel settore specifico.

Ancora una volta si conferma che l'applicazione delle norme, tesa a conseguire un obiettivo pratico che si crede “utile” è una cosa, ma la ricostruzione sistematica è altro.

La deroga ad una norma poi può di certo essere tanto esplicita (e non è sicuramente il nostro caso), quanto implicita, ma essa deve pur essere ricavabile con certezza da norme, non da “tendenze” più o meno generali, fra l'altro ricostruite in modo abbastanza vago.

Se anche fosse vero che il Legislatore vede “di buon occhio” le ristrutturazioni aziendali, per motivi anche di “legittimazione politica” in senso spiccio, resta il fatto che l'interesse tutelato al vertice della gerarchia è indiscutibilmente quello dei creditori, non quello “oggettivo” dell'impresa; dunque quel supposto “favor” andrà ricostruito in un contesto sistematico che è (e non può non essere) consapevole di quella gerarchia di valori: e non si vede proprio come possa ipotizzarsi che un generico “favor” legislativo, posto a tutela di un interesse sempre sottoordinato a quello dei creditori, possa implicare deroghe inespresse a norme (addirittura, espressive di principi generali dell'ordinamento) poste a tutela dell'interesse sovraordinato al primo.

In sostanza voler ricondurre semplicemente alla riserva di cui al comma 2° dell'art. 2740 c.c., sulla base degli argomenti sopra citati, una supposta “deroga” all'art. 2740 c.c. nel nostro settore è come dire: “quel principio generale, non è mica generale”. E ciò nemmeno basterebbe per legittimare la conclusione della deroga implicita.

Ancora, lavorare a questi fini sul comma 2° dell'art. 2740 c.c. significa in realtà, forse inconsapevolmente, ammettere l'esistenza di una verità importante: che l'art. 2740 c.c. si applica anche nel diritto concordatario; la conclusione per chi scrive dovrebbe essere ovvia (ed anche per la giurisprudenza è tale: si vedano le sentenze della S.C. sulla impossibilità di escludere dalla cessione ai creditori singoli assets, o sulla impossibilità di confondere masse attive e passive nelle procedure di gruppo: per tutti, solo di recente, Cass., 17 ottobre 2018, n. 26005- 26006), ma per chi afferma la validità di interpretazioni palesemente dissonanti con la portata precettiva del disposto, evidentemente non dovrebbe esserlo poi tanto.

Le procedure concorsuali sono strumenti per la realizzazione della garanzia patrimoniale, come è universamente riconosciuto dalla letteratura specializzata e dalla giurisprudenza (in tal senso, per tutti, autorevolmente Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, in Tratt. Bessone, XXV, Torino, 2012, pp. 147 s.): anche il concordato con continuità lo è, perché solo tale visione si armonizza con la seriazione degli interessi tutelati in modo primario dal Legislatore; strumento di realizzazione della garanzia, e strumento di attuazione della responsabilità; non strumento per la ristrutturazione delle imprese; e sorprendente, per chi afferma il contrario, è la frequente inversione logica fra scopo immediato e mediato.

Anche la frequente, ma a ben vedere apodittica, affermazione per cui l'art. 186bis l.f. conterrebbe una “deroga” all'art. 2740 c.c., poggia in realtà, mi pare, su di un equivoco concettuale.

L'assunto non è di poco momento, atteso che si tratterebbe dell'unica deroga all'art. 2740 c.c. che i fautori della tesi qui avversata riconoscono come esplicita.

La deroga dovrebbe risiedere nel fatto che gli assets aziendali destinati alla continuità (molto ci sarebbe da discutere anche sulla legittimazione a decidere cosa debba essere e cosa non possa essere funzionale alla prosecuzione dell'attività, ma questa non è la sede) non vengono per definizione liquidati al fine di destinare il ricavato alla Massa concorsuale.

In realtà, come avevamo già cercato di argomentare in altra sede (Il miglior soddisfacimento dei creditori: brevi note sui principi generali e sugli interessi tutelati, 15 marzo 2019, §2), l'asserto si basa su una premessa fallace: cioè che l'applicazione dell'art. 2740 c.c. presupponga comunque e sempre la vendita dei beni vincolati alla garanzia.

Certo la responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c. corrisponde, nella sua più “classica” teorizzazione (per tutti v. Nicolò, Tutela dei diritti, in Comm. del cod. civ. diretto da Scialoja e Branca, Bologna- Roma, 1953, sub art. 2740), alla soggezione dei beni del debitore alle azioni esecutive dei creditori, volte alla vendita forzata.

Ma nemmeno nel paradigma “classico” tale effetto è imprescindibile ed indefettibile: ci possono essere infatti forme di attuazione della responsabilità patrimoniale, e di realizzazione della garanzia, che prescindono dalla vendita dei beni sottoposti a vincolo: si pensi solo al bene immobile che sia posto in executivis in amministrazione giudiziaria, ed i canoni locatizi riscossi si rivelino capienti per coprire le spese ed il credito dell'esecutante.

Il vincolo imposto sul bene alla garanzia patrimoniale altrui, di norma, conduce alla liquidazione ed al realizzo del ricavato, ma nel suo nucleo “essenziale” impone prima di tutto (e solo) che l'asset sia “destinato” al servizio del credito.

Stupisce ancora che le ricostruzioni qua criticate, che enfatizzano in modo talvolta “estremistico” (e spesso mistificatorio) la portata “innovativa” di certe interpolazioni legislative, poi si ostinino ad assumere una nozione di responsabilità patrimoniale ancorata a schemi datati, che paiono ignorare proprio il mutato contesto ordinamentale in tema di regolazione della crisi.

Contesto sistematico ove la responsabilità patrimoniale si trova arricchita di nuovi strumenti, e di nuove funzioni, pur in coerenza con l'obiettivo valoriale di fondo.

Questo è quello che avviene appunto nel concordato preventivo con continuità, ove i beni “strumentali” sono pur destinati al servizio della Massa mediante la conservazione del compendio aziendale, strumentalmente alla sua ricollocazione futura, e dunque pur sempre al loro valore di realizzo, oppure alla produzione di flussi economici positivi (che dunque sarebbe semplicemente surreale pensare di sottrarre a quella destinazione “originaria”), od ancora a coadiuvare altri processi economici, comunque funzionali a consentire il soddisfacimento prevalente delle ragioni creditorie; od ancora ad un mix di tutte queste soluzioni.

Persino i beni non funzionali all'attività di impresa, a dispetto di quel che può sembrare superficialmente, non possono essere semplicemente trattenuti dal debitore, e neppure liquidati a beneficio esclusivo di interessi extracreditori: anche essi infatti debbono essere “vocati” al piano concordatario, che ha per fine quello di soddisfare i creditori; anche destinandoli alla vendita, qualora l'andamento della gestione aziendale non consenta di conseguire i risultati programmati e promessi (in tal senso, espressamente, un importante decreto del Trib. Rovigo, 27 luglio 2018, in www.ilcaso.it, che “stranamente” viene sempre citato solo nella parte in cui afferma che l'art. 186bis l.f. costituirebbe “deroga” all'art. 2740 c.c., e mai ove si occupa della sorte dei beni non “funzionali” alla prosecuzione dell'impresa).

Vero è tuttavia che il “nucleo essenziale” della responsabilità patrimoniale consiste ancora nella vendita forzata dei beni vincolati, sicché ove quel legame venisse definitivamente rescisso, verrebbe meno anche la garanzia, e dunque l'art. 2740 c.c. si troverebbe davvero ad essere “derogato”.

Ma accade questo nel concordato con continuità? Assolutamente no: i creditori concorsuali non possono, dopo l'omologa, agire esecutivamente sui beni “funzionali”, allo stesso modo per cui non possono agire su quelli “non funzionali”, e così come non possono agire in executivis i creditori concorsuali di qualsiasi concordato omologato: non possono perché la loro pretesa, tanto sotto il profilo sostanziale quanto (forse anche) sotto quello “processuale”, è stata “riconformata” dalla Legge (non dal contratto) in forza dell'art. 184 l.f.

Ma non possono solo temporaneamente: allorquando il debitore divenisse inadempiente, essi riacquisterebbero pienamente i propri strumenti di tutela, anche esecutivi, e questo anche a prescindere dalla risoluzione del concordato.

E troveranno a questo punto nel patrimonio del debitore beni anche “sostituiti” o “trasformati”, com'è del resto normale, in seguito alla prosecuzione dell'attività imprenditoriale.

Dunque il legame della responsabilità con il bene non viene mai realmente e definitivamente meno: esso si attenua solo in funzione degli obiettivi del concordato, che non sono costituiti dalla mera ristrutturazione “oggettiva” dell'impresa, bensì pur sempre dal fine del soddisfacimento dei creditori, perseguito in questa fase in modo diverso rispetto alla liquidazione dell'asset vincolato alla garanzia.

Certo il bene vincolato in genere non può essere alienato liberamente dal debitore prima che il creditore sia soddisfatto, e soprattutto il ricavato, in caso di vendita “anticipata”, dev'essere parimenti vincolato alla garanzia. Ma anche questo non è un tratto indefettibile di ogni forma di attuazione della responsabilità: ben può darsi che il bene sia utilizzato dal debitore, purché non sia distolto dalla sua funzione di garanzia (che nel concordato appunto “si modifica” in funzione degli obiettivi del piano); che sia addirittura venduto, e sostituito, oppure semplicemente realizzato nel suo valore, purché, ancora, il prodotto di quell'attività non sia parimenti distolto dalla “vocazione” iniziale a realizzare quella garanzia.

Non c'è nulla di strano o di “derogatorio” quindi se il debitore usa dei beni aziendali, ed addirittura li vende, purché non ne internalizzi semplicemente il ricavato, ad es. come distribuzione ai soci del surplus dei ricavi sui costi (ed infatti nei piani di concordato, in genere, il debitore si vincola a non distribuire utili, al fine di convincere i creditori a votare, anche se la legge non lo prescrive esplicitamente), ma lo reimpieghi nella prosecuzione dell'attività di impresa, in modo strumentale al perseguimento dei fini del piano concordatario.

Ciò avviene normalmente mentre il debitore è in bonis, ed anche se egli è già inadempiente, ad es. rispetto ai creditori con privilegio generale, oppure chirografari.

Uno degli effetti tipici del “pignoramento” è proprio quello di rendere il bene indisponibile per il debitore; ma non è detto da nessuna parte appunto che l'attuazione della responsabilità patrimoniale debba essere perseguita sempre tramite le forme tipiche del pignoramento, collettivo od individuale.

E pertanto non sembra poter avere fondamento anche l'asserto per cui i creditori potrebbero “fare affidamento” solo sugli assets che potrebbero realizzare coattivamente, senza la collaborazione del debitore: si tratta infatti di una ricostruzione parziale del fenomeno dell'attuazione della responsabilità, che arbitrariamente “seleziona” i soli poteri dati nelle procedure liquidatorie come termini di confronto.

La destinazione dei flussi finanziari prodotti dalla continuità all'estinzione di debiti di funzionamento posteriori al concordato, od addirittura ad attività di reinvestimento, se previste dal piano, non costituisce pure una “deroga” all'art. 2740 c.c.: semplicemente ciò costituisce l'oggetto di una condotta che si armonizza con l'esecuzione del piano, e dunque rispetta quella destinazione, non collide con essa.

D'altro canto pure questi creditori soddisfatti, ad es. quelli sopravvenuti all'apertura della procedura, od anche all'omologazione, potrebbero sottoporre ad azioni esecutive tali diritti, così come potrebbero esecutare persino i beni originari, presenti nel patrimonio del debitore all'ingresso in procedura: l'art. 168 l.f. impedisce infatti come è noto solo ai creditori concorsuali, ma non a quelli successivi, di aggredire il patrimonio del debitore durante la procedura; a maggior ragione tali creditori potranno agire sui beni aziendali, anche sopravvenuti, dopo l'omologazione, quando la procedura si chiude. E dunque non deve sorprendere che essi possano essere soddisfatti con i proventi della continuità, e ciò non costituisce affatto una prova della mancata soggezione degli stessi alla responsabilità patrimoniale verso la Massa concorsuale.

Ciò avviene non perché tali proventi costituiscano beni “sopravvenuti”, non sottoposti alla garanzia della Massa in forza di una “onirica” deroga all'art. 2740 c.c., ma soltanto perché essi sono naturalmente sottoposti all'aggressione esecutiva di chi non è sottoposto all'efficacia del decreto di omologazione.

Patrimoni separati e “miraggi” interpretativi

L'altra idea, anch'essa ricorrente, che i beni del debitore, esistenti al momento della domanda di concordato o successivamente, facciano parte di un “patrimonio separato” a vantaggio della Massa, costituisce a mio avviso il prodotto un altro “miraggio” interpretativo (rinvio ancora per motivi di concentrazione espositiva a Il miglior soddisfacimento, cit., § 6; in giurisprudenza in senso conf.

Trib. Milano

, 15 dicembre 2016

, in www.ilcaso.it). Si tratterebbe di un'altra “deroga implicita” all'

art. 2740 c.c.

Persino i creditori concorsuali possono agire, scaduto il termine per l'adempimento, sui beni sopravvenuti del debitore; la responsabilità patrimoniale semplicemente allora si riespande in tutto il suo contenuto, dopo che il debitore ha mancato ai suoi impegni, perché il diritto sostanziale del creditore riacquista tutte le sue facoltà, in forza dell'inadempimento. E tale diritto “vede” di fronte a sé sempre un solo patrimonio, medio tempore modificato.

A maggior ragione, come si è già detto, su questo (unico) patrimonio hanno avuto modo di soddisfarsi i creditori successivi; normalmente li pagherà il debitore, d'altro canto rientrato in bonis dopo l'omologazione; ma non è escluso che qualcuno reclami il soddisfacimento dei propri diritti coattivamente, perché né l'art. 168 l.f. (testualmente inapplicabile, prima come dopo), né altre norme, vere o presunte, possono impedirlo.

D'altro il concordato con continuità aziendale è avvertito dal Legislatore come “pericoloso” per i creditori proprio per questo rischio aggiuntivo: il rischio cioè che l'esigenza di soddisfare i creditori successivi, c.d. creditori della continuità, eroda l'attivo disponibile (non quello disponibile oggi, ma al momento della liquidazione), a causa dei flussi economici negativi che la continuità potrebbe generare in caso di insuccesso (beninteso, senza che ciò contemporaneamente salvaguardi attivi immateriali realizzabili di valore superiore); per questo si richiede l'adozione di un piano economico e finanziario specifico, e l'attestazione speciale (art. 186bis, lett. a e b; il piano è infatti ora reso necessario anche per la mera prosecuzione dell'attività, anche se non “incentivata” ai sensi dell'art. 84, nel nuovo CCII: art. 87, lett. g).

Si tratta in fondo di un modello di spiegazione abbastanza semplice, che si armonizza col sistema generale così come con le norme settoriali, senza bisogno di fare ricorso a ricostruzioni “lisergiche”.

Una ulteriore rapida analisi economica delle norme

Giò da queste prime riflessioni si comprende che pensare di sottrarre semplicemente all'aspettativa di soddisfo dei creditori concorsuali tali proventi, rendendoli liberamente destinabili a finalità in contrasto con quell'aspettativa, costituirebbe semplicemente una clamorosa violazione di legge, nonché un assurdo, dal punto di vista logico- sistematico.

Si dirà che anche i creditori cui siano destinate quelle risorse, se considerate “esterne” al patrimonio del debitore “responsabile”, sono pur creditori concorsuali, ma in tal modo si produrrebbe comunque ex ante un'alterazione di quell'aspettativa “concorsuale”, che presuppone appunto un trattamento unitario, omogeneo, e riconoscibile a priori.

In sintesi, l'aspettativa ad una distribuzione asimmetrica, non rispettosa cioè dell'ordine legale verticale di distribuzione delle risorse, costituisce semplicemente una violazione dell'APR, sulla quale il nostro sistema è (ancora) imperniato. Persino la Direttiva facoltizza, ma non impone, limitate alterazioni di tale ordine (la c.d. ristrutturazione verticale del debito), consentendo tuttavia espressamente che gli ordinamenti nazionali (come appunto il nostro) restino ancorati al principio della “priorità assoluta”.

La stessa “apertura” della Direttiva, nel suo testo finale, ad una versione “europea” della c.d. RPR (Relative Priority Rule), non può non sorprendere, atteso che oltre oceano le propone dogmatiche imperniate su tale concetto non si sono spinte oltre l'idea di attribuire ai soci un warrant, che consenta agli stessi di avvantaggiarsi degli apprezzamenti futuri dell'azienda, i quali ne mostrino il maggior valore rispetto a quello prudenzialmente assunto agli effetti della ristrutturazione; ma anche gli autori americani più “lanciati”, su tale terreno, non si sono mai spinti a sostenere concezioni della c.d. RPR della latitudine di quello importato nel tessuto della Direttiva (cfr. per tutti Baird, Priority matters: absolute priority, relative priority, anche the costs of bankruptcy, in Un. Pennsylvania Law Rev., 2017, pp. 785 ss.; nel dibattito europeo cfr. de Weijs- Jonkers- Malakotipour, The imminent distortion od european insolvency law: how the European Union erodes the basic fabric of private law by allowing relative priority, Amsterdam law school legal studies reaserch paper no. 2019-10; nel nostro paese Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, in Riv. soc., 2018, pp. 858 ss.).

L'operazione ermeneutica ambita presupporrebbe poi in realtà non solo una solida ricognizione degli indici normativi disponibili (quantomeno “traballanti”, come si è detto), ma anche, e direi soprattutto, una valutazione dell'impatto economico che tale ricostruzione avrebbe su fenomeni di rilevanza sicuramente generale, come il costo del credito ex ante. Troppo comodo altrimenti cercare soluzioni ex post, prendendo atto della crisi come se fosse un mero assioma, e declinando soluzioni interpretative che ignorano del tutto la prevenzione di quel fenomeno.

Operazione, quest'ultima, che si colloca oggi palesemente in modo distonico rispetto a quella che è sì una linea recente di evoluzione del sistema, orientato ormai in modo esplicito alla prevenzione della crisi, prima ancora che al suo trattamento (arg. ex art. 2086 c.c., novellato dal CCII; non diversamente dalla Direttiva).

Il principio per cui il debitore risponde con tutto il suo patrimonio, e dunque tanto con i suoi beni presenti, quanto con quelli “futuri”, ha in realtà una solida base razionale: quello che l'art. 2740 c.c. vuole evitare, infatti, è che i creditori, consapevoli di poter fare affidamento solo sul patrimonio del debitore quale esso si presenta al momento in cui si discute della sua responsabilità, rendano impossibile allo stesso di modificare successivamente quel patrimonio, in teoria potendolo rendere anche di valore più elevato, e sufficiente a massimizzare l'interesse di tutti i creditori, vecchi e “nuovi”.

Se infatti i creditori sapessero di poter concorrere solo sui beni “presenti”, essi si assicurerebbero, come condizione per concedere il finanziamento, dei diritti di fonte negoziale sul mantenimento della consistenza di quei beni, per evitare il rischio di trovarsi poi una garanzia dimidiata, a causa di obsolescenza degli assets esistenti od altro.

Per lo stesso motivo i beni futuri divengono oggetto della responsabilità del debitore, anche verso i creditori preesistenti, a prescindere dalla genesi degli stessi, ossia dalla loro imputabilità a specifici processi economici, che possano essere agevolati in ipotesi da specifiche relazioni con singoli operatori; id est, le cause che hanno generato il sorgere di un asset in un patrimonio non sono rilevanti: l'ordinamento non conferisce infatti “premi” a specifici creditori, che pur ritengano di aver particolarmente favorito gli incrementi del suddetto patrimonio.

Diverrebbe altrimenti a quel punto quasi impossibile per gli altri creditori comprendere su quali attivi essi possano confidare con certezza, conseguendosi un effetto assai simile a quello delle garanzie reali, ma senza i tipici elementi “segnaletici” che possono rendere edotti i terzi dell'esistenza di una “prelazione” su un asset.

Ciò a meno che non sia prima resa ostensibile la segregazione del patrimonio che legittima quel trattamento differenziato (come nei patrimoni destinati).

Se fosse poi possibile, e lecita, persino una negoziazione su tale oggetto, i singoli creditori potrebbero essere indotti ad accettare di concentrare la propria attenzione solo sui beni presenti, non preoccupandosi di quello che avverrà dopo in quel patrimonio; probabilmente però i creditori paciscenti pretenderebbero dal debitore anche un impegno a non vendere o trasformare quei beni oggi presenti nel patrimonio, oppure utilizzerebbero i più efficaci strumenti tipici delle garanzie reali, per ottenere quell'effetto in modo più efficace. Con analoghi risultati a quelli appena visti.

Il problema è in realtà ancora più complesso, perché anche altri creditori potrebbero vantare la stessa aspettativa, e dunque ciascuno pretenderebbe dal debitore un impegno a non vincolare il patrimonio presente a vantaggio di altri: ancora una volta il sistema delle garanzie reali si presterebbe allo scopo.

In tal modo però si renderebbe molto difficile qualsiasi successiva attività dinamica del debitore, e ciò a discapito di tutti, e del sistema economico in generale.

Il problema sarebbe forse attenuato dalla disponibilità anche delle forme di garanzia “fluttuante” legittimate a volte anche nel nostro ordinamento, ma non sarebbe mai eliminato.

Si tratta quindi di un classico problema di efficienza dell'azione individuale rispetto al benessere collettivo. Per questo l'art. 2740 c.c. è in parte qua, a dispetto di quanto talvolta si opina, una norma imperativa. Ciò dovrebbe voler dire che nemmeno i singoli possono disporre di tale guarentigia: figuriamoci se un potere consimile potrebbe essere attribuito alla maggioranza dei creditori.

L'effetto ex ante di una tale prassi, se “sdoganata”, non potrebbe che essere nel senso di aumentare il costo del credito, perché il creditore che abbia finanziato il debitore sulla base dell'aspettativa di concorrere altresì sui beni “futuri”, pur sapendo che l'iniziativa del debitore in ordine al concordato preventivo può privarlo di tale aspettativa, non potrebbe fare altro che pretendere forme di garanzia “specifica” (v. supra), se ha la forza contrattuale per ottenerle, od altrimenti sconterebbe subito nel tasso quel rischio.

Il principio in questione non è richiamato espressamente nel campo delle procedure concorsuali, ma nessuno ha mai dubitato che esso operasse quanto al fallimento; si dirà che in quel contesto opera l'art. 42 l.f., laddove nel concordato non vi è alcuna norma di diritto positivo. Ma in realtà le cose stanno diversamente.

L'art. 42 si limita a contemperare il “naturale” ingresso dei nuovi beni nel patrimonio del debitore da liquidare con gli interessi dei terzi, eventualmente ignari, che abbiano contrattato col fallito, oramai spossessato; la norma dunque regola semmai il potere del curatore di decidere se apprendere o meno l'asset, ben sapendo che nel primo caso dovrà prima farsi carico del costo di quell'acquisizione; ma presuppone quella legittimazione all'apprensione.

Si tratta dunque di una norma tecnica, dettata per una procedura in cui vi è spossessamento e sostituzione del debitore, che regolamenta in modo peculiare la situazione.

In assenza dell'art. 42 l.f. il curatore avrebbe potuto apprendere il nuovo bene senza corrispondere alcunché al terzo; ma questo avrebbe potuto dar luogo a delle situazioni ingiuste, minando la certezza del traffico giuridico.

Il punto, e la connessione fra apprensione e decisione dell'organo, è ancora più esplicito nel CCII, ove la norma omologa diviene una sorta di applicazione “preventiva” del potere di derelizione, rectius di non inventariazione.

Nel concordato non vi è invece alcun bisogno di dettare tale regolamentazione, posto che il debitore non è spossessato, egli mantiene il potere negoziale, e dunque può liberamente contrarre con terzi (col limite di cui all'art. 167 l.f.); ciò che egli acquista entra normalmente nell'attivo concordatario, e può poi essere oggetto di soddisfacimento tanto da parte dei creditori concorsuali (ma non in forma “esecutiva”, atteso che l'art. 168 l.f. non specifica se il patrimonio del debitore debba essere solo quello presente od anche quello successivo), quanto di quelli successivi.

Ed in ultima analisi, a fronte di un principio generale in tema di responsabilità patrimoniale, dovrebbe semmai dimostrarsi come e perché quel principio non debba operare nell'ambito di una procedura che ha per oggetto e scopo l'attuazione di quella responsabilità, non il contrario …

Un tema simile si propone quanto ai proventi di beni vincolati alla garanzia altrui (ad es. ipoteche: si pensi ai canoni locatizi, oppure all'impianto fotovoltaico, in relazione ai contributi da riscuotere presso il GSE, che non possono essere attribuiti liberamente, nonostante l'impianto sia oggetto di un diritto di ipoteca in capo ad un creditore bancario, il quale abbia finanziato l'operazione di acquisto: v. in materia Munari, Concordato preventivo e destinazione dei canoni di locazione di immobili ipotecati: un possibile percorso interpretativo, in Giur. comm., 2016, I, pp. 873 ss.).

Infatti “la prelazione del creditore ipotecario, ritualmente ammesso al passivo fallimentare, si estende anche ai frutti civili (nella specie, canoni di locazione) prodotti dall'immobile ipotecato dopo la dichiarazione di fallimento, mancando nella disciplina dell'esecuzione concorsuale una previsione contraria od incompatibile che osti all'estensione della disciplina dell'esecuzione individuale, né potendo attribuirsi un significato diverso a disposizioni, quali gli artt. 2808 cod. civ. e 54 legge fall., che adoperano le medesime espressioni letterali per disciplinare, seppure in sedi diverse, la medesima materia” (Cass., 9 maggio 2013, n. 11025).

E da un lato non è dubitabile che i contributi erogati dal GSE costituiscano frutti civili dell'impianto fotovoltaico, posto che essi sono attribuzioni economiche legate al possesso ed all'esercizio dello stesso; dall'altro il principio è senza dubbio applicabile anche al concordato preventivo, nonostante l'omesso integrale rinvio all'art. 54 l.f., trattandosi di un principio generale dell'esecuzione, tanto singolare quanto concorsuale.

Infatti “da un lato, il riferimento della L. Fall., art. 54 [per il concordato il riferimento potrebbe essere all'art. 160, comma 2 - NR], al solo prezzo non è significativo poiché identico riferimento si rinviene nell'art. 2808 c.c., senza che, in ordine a quest'ultima disposizione, alcuno dubiti dell'estensione della prelazione ipotecaria ai frutti, sia perché gli effetti del pignoramento si estendono ai frutti della cosa pignorata (art. 2912 cod. civ.), sia perché l'opponibilità al creditore ipotecario delle cessioni e liberazioni di fitti e pigioni è soggetta a limiti spiegabili solo con l'estensione in parola (art. 2812 c.c.), sia perché, infine, è espressamente prevista l'estensione ai frutti nel caso in cui l'immobile ipotecato sia acquistato da un terzo (art. 2865 c.c.)” (Cass., n. 11025/2013, cit.).

Ciò avviene perché altrimenti l'utilizzo “economico” e “dinamico” del bene ipotecato potrebbe essere ostacolato od impedito, non essendo il creditore ipotecario interessato allo stesso, ed anzi potendo ricavarne danno, se l'utilizzo danneggiasse il bene, deprezzandolo.

Per questo si dovrebbe semmai dimostrare che quei principi non debbano valere per il concordato, anziché il contrario.

E non meno ingenua appare, a mio avviso, l'idea che il contrappeso per tali utilizzi asimmetrici (rectius “arbitrari”) del surplus sia costituito dalla competizione, atteso che i creditori possono sì farsi latori di una proposta concorrente di mercato: ma la competizione funziona per il collocamento di assets (art. 163bis l.f.), perché il presupposto è che ci sia un mercato degli stessi, e che chi è interessato al loro acquisto possa proporsi efficacemente.

Ma non esiste un mercato delle proposte concordatarie, e le asimmetrie informative ineliminabili esistenti fra debitore e creditori (altrimenti a cosa servirebbero il Tribunale ed il Commissario Giudiziale? Perché esisterebbe l'art. 173?), oltre al solo eventuale ed occasionale interesse degli appartenenti al ceto creditorio (portatori per definizione di ragioni “a reddito fisso”) per tale soluzione operativa, rendono del tutto residuale la probabilità che essi siano dotati di incentivi adeguati. Come del resto la prassi applicativa dell'istituto conferma.

Dunque non si vede come affidarsi allo “attivismo” dei creditori possa costituire la soluzione al problema; sarebbe come sostenere che i soci di minoranza di una società possono essere tranquillamente espropriati delle loro prerogative attraverso un'operazione straordinaria, perché essi possono sempre lanciare un'OPA sul capitale di comando: si tratta in realtà di una mera fictio, atta solo a legittimare un'alterazione ex post dei diritti degli stessi assai perniciosa.

Segregazione e separazione patrimoniale: così vicini, così lontani

Anche da un punto di vista strutturale l'affermazione per cui la responsabilità del debitore in concordato sarebbe limitata ai beni presenti al momento dell'apertura della procedura incontra ostacoli che la rendono in realtà inapplicabile.

Già da un punto di vista generale si dà così per scontato nel concordato un effetto, quello della c.d. cristallizzazione, che viene affermato con costanza soltanto per il fallimento; ma chissà perché in questo caso invece l'assunto non fa specie; accettiamo comunque l'asserto per quel che è, fingendo che a partire dall'estensione testuale dell'art. 45 l.f. al concordato, per effetto dell'interpolazione dell'art. 169 l.f., ciò sia in effetti avvenuto.

La ricostruzione si basa anche sull'idea - in realtà come si è visto errata, ma qua diamola pure per ammessa – per cui i beni e diritti del debitore, nella loro consistenza al momento della pubblicazione della domanda di concordato, verrebbero a costituire un patrimonio “separato”, destinato a soddisfare i creditori concorsuali.

C'è la fondata impressione, mi pare, che gli estensori della tesi criticata confondano fra di loro i concetti segregazione di singoli beni e di separazione patrimoniale: in entrambi i casi si verte in tema di deroghe all'art. 2740 c.c., ma gli effetti sono molto diversi.

Un asset segregato all'interno di un patrimonio è “vocato” ad una particolare destinazione; in caso di alienazione legittima del bene, non è detto che la segregazione si estenda al corrispettivo della vendita (come capita per talune forme di privilegi), come pure all'eventuale bene “sostituito”.

Quando invece viene separato un “patrimonio”, si forma una partizione “speciale” che mantiene comunque qualche tratto della “universalità” del patrimonio generale: tale partizione in particolare conserva la caratteristica “dinamica” che è propria del patrimonio, composto da attività e passività che si modificano, anche momento dopo momento, per effetto dell'attività del suo titolare e dei terzi che con esso si relazionano.

Quello che viene “trasformato” dall'interno della partizione resta sempre nella partizione: i beni venduti si “convertono” automaticamente e “naturalmente” nel prezzo della vendita; i beni acquistati con le risorse provenienti da quel patrimonio “speciale” entrano altrettanto naturalmente a farvi parte, senza bisogno di formalismi, purché vi ineriscano funzionalmente.

Il principio della c.d. surrogazione reale (di cui sono espressione talune norme: ad es. l'art. 2742 c.c.) opera insomma naturalmente per il patrimonio separato, occasionalmente per la mera segregazione (così come anche per talune forme particolari di privilegio, pensate proprio per insistere su beni “produttivi”).

Questo perché il patrimonio separato si colloca naturalmente in una prospettiva funzionale “dinamica”; la segregazione patrimoniale invece in una prospettiva tendenzialmente “statica”.

Già da questa digressione emerge un tratto contraddittorio e quasi surreale della tesi qui avversata: essa pretenderebbe di applicare ad un patrimonio, addirittura costituito da un compendio aziendale “in esercizio”, per sua natura “dinamico”, un istituto che ha una fisionomia “statica”, invece di un altro che condivide la stessa vocazione.

Persino nei concordati liquidatori quella surrogazione in realtà non può non operare: se un bene del debitore, pur presente al momento della pubblicazione della domanda di concordato, viene alienato, magari prima dell'omologa, con l'autorizzazione del Tribunale o del G.D., il corrispettivo è un diritto nuovo, che prima dell'apertura della procedura non c'era nel patrimonio del debitore; eppure, ovviamente, quel diritto viene poi riscosso a beneficio della Massa.

Si dirà, ma liquidare i beni è un effetto “naturale” della procedura, è l'esecuzione stessa del concordato; ed anche le liquidazioni ante omologazione non sono altro che “anticipazioni” dell'esecuzione concordataria; quanto al primo assioma, è forse vero; quanto al secondo invece ne dubito (il piano prima dell'omologazione è solo un progetto di piano, che infatti può essere dopo cambiato anche sostanzialmente; d'altro canto un piano può ancora non esserci, nella fase in bianco, eppure se è urgente l'atto di liquidazione anticipata è comunque possibile, cambia solo il procedimento per giungervi); ma facciamo ancora finta che l'assunto sia vero.

E se con il ricavato della liquidazione si acquista un altro bene, che serve per realizzare in modo più conveniente il valore di un altro asset concordatario ancora? Qua non vi è dubbio che si tratti di un bene che non esisteva al momento dell'apertura della procedura; dunque delle due l'una: o tale modalità operativa è inammissibile (e non si vede davvero perché, soprattutto se essa è conforme al mitico “miglior soddisfacimento dei creditori”), oppure il bene “nuovo” entra “per magia” nell'altrettanto “mitico” patrimonio separato concordatario (che altrettanto “magicamente” dovrebbe poi scomparire in caso di dichiarazione di fallimento del debitore senza risoluzione del concordato, ma anche questa è un'altra storia).

Certo, si potrebbe dire, nel concordato liquidatorio quel principio non opera, esso opera solo nel concordato con continuità aziendale, ove prende vita la (anche qua “mitica”) deroga all'art. 2740 c.c.

Troppi “miti”, troppi fantasmi, a parer mio. Troppe poche norme positive a supporto, invece.

Ancora sugli interessi tutelati

Ma se le cose stessero come sostiene la tesi criticata, allora, il concordato con continuità non dovrebbe essere una procedura differente da quella liquidatoria? Un tertium genus? La S.C. però si affanna ancora a sostenere il contrario (cfr. da ultima Cass., 4 maggio 2018, n. 10752, citata anche dalla recente sentenza veneziana), forse proprio per salvare quel poco di “tipicità normativa” che è rimasto nel nostro settore, dopo che si è legittimata una pubblicistica che eleva ormai a “dottrina” le opinioni (e le aspirazioni) dei pratici.

Perché allora forse si dovrebbe avere il coraggio anche di dire che la gerarchia degli interessi da tutelare dovrebbe anche essere differente nelle due “varianti”: nell'un caso (liquidazione) quello dei creditori, nell'altro (continuità) quello “oggettivo” dell'azienda da ristrutturare. Ma sappiamo già che non è così, e non sarà così neanche nel prossimo futuro.

In realtà non vi è nessuna differenza ontologica fra il ricavato della vendita dei beni da liquidare, il risultato della “sostituzione” o della “trasformazione” di un bene, ed anche i frutti civili prodotti dopo l'ingresso in procedura, che sono la semplice proiezione statica corrispondente ai flussi di un'attività dinamica, di impresa.

Tutti questi beni, benché non esistessero ancora al momento dell'apertura della procedura, devono entrare nell'unico patrimonio del debitore, tanto negli scenari liquidatori quanto in quelli con continuità, per essere “destinati”, insieme con tutti gli altri, a costituire la soluzione regolatoria della crisi, nell'interesse primario dei creditori concorsuali.

Ciò non esclude che i creditori “successivi” possano anch'essi soddisfarsi su tale massa; è proprio per questo che occorre un piano, ragionevole e “credibile”, che rassicuri i creditori concorsuali circa la probabilità che l'esecuzione del concordato avvenga con soluzioni operative che rendano possibile armonizzare tutte le istanze, mantenendo l'equilibrio finanziario, economico ed infine patrimoniale.

E proprio perché lo scenario “dinamico” della continuità comporta rischi superiori a quelli dello scenario liquidatorio per i creditori concorsuali, si impone come si è già visto la redazione di un piano economico- finanziario ragionevole, ed un'attestazione speciale.

Paradossale, mi si consenta, sarebbe invece pretendere di far scontare ai creditori concorsuali quel rischio “maggiorato”, espropriando al contempo gli stessi dalle maggiori prospettive di ricavo; da un lato li si vorrebbe partecipi del rischio di impresa (nonostante gli stessi siano portatori strutturalmente di una pretesa fissa, non residuale); dall'altra però li si esproprierebbe di qualsiasi aspettativa di incremento della ricchezza, ancorata all'esercizio di quel rischio. E' in fondo la metafora del “patto leonino”, ripresa tramite un precedente meneghino anche da parte della Corte distrettuale torinese; tanto tecnicamente scorretta quanto descrittivamente efficace.

Siamo in fondo alle solite, con l'ipocrisia delle aspirazioni “superliberiste”: enfasi sull'autonomia negoziale quando la prospettiva è funzionale al disegno; ma ritorno deciso al “paternalismo” quando conviene, e così si svela che l'autonomia cui si mira è in realtà solo quella del debitore, rectius quella del soggetto economico che governa il debitore.

In realtà si cerca di far passare una ricostruzione che poggia sulla ipostatizzazione “occulta” di un interesse da tutelare che non è quello dei creditori; e non è nemmeno, a voler ben vedere, ed anche a voler pensare male, quello tanto sbandierato dell'azienda in senso “oggettivo” (v. infra).

Il miglior soddisfacimento dei creditori: un successo inarrestabile

Spostando il fuoco su altri concetti, sempre abbastanza “generici”, benché specifici della materia concordataria, ma anche allontanandosi di nuovo dalla sfera più rassicurante delle norme positive, ci si imbatte nel “salvifico” miglior soddisfacimento dei creditori.

Il concetto, nato nel contesto dell'art. 186-bis l.f., ha goduto inaspettatamente dello stesso successo di una popstar: eletto da una giurisprudenza sempre più convinta da semplice presupposto di ammissibilità del concordato con continuità a requisito generale di legittimità” degli atti della procedura concordataria, non poteva che “conquistare” anche i redattori del CCII, che lo citano ben 12 volte (insieme con il suo “emulo” - la “migliore soddisfazione”).

Tanto successo non può non sorprendere: nell'art. 186bis, ed in qualche norma satellite, il concetto serviva come si è visto a scriminare la continuità “valida”, ove le prospettive di accrescimento del tasso di recupero compensano i maggiori rischi di dispersione della massa attica, da quella “invalida”.

Si tratta com'è evidente di un attributo che indaga la convenienza per i creditori di una soluzione concordataria rispetto ad altre prospettive regolatorie della crisi. Lungo tale strada si pone ora anche la Direttiva.

Inaspettatamente invece il termine è divenuto, senza incontrare quasi resistenza, criterio generale di validità di ogni azione concordataria.

Addirittura, secondo una giurisprudenza ormai costante della S.C., dal 2016 ad oggi, il compimento di atti pur configurabili come di “straordinaria amministrazione” in carenza della (pur prescritta) autorizzazione non sarebbe di per sé motivo per la revoca del concordato, purché si dimostri che ciò è stato volto a realizzare il “mitico” obiettivo.

Davvero si fatica a capire come lo stesso lemma che assume il significato di “soluzione che assicura di più di altre” possa essere utilizzato per regolare fattispecie ove si discute semplicemente di atti che potrebbero aver danneggiato i creditori, se del caso rendendo più difficoltosa l'attuazione del piano concordatario in fase di compilazione, oppure di omologazione.

È il bello della polisemia degli enunciati normativi, dove tutto è possibile, e l'unica certezza pare essere quella per cui non è mai vero che in claris non fit interpretatio.

Altrettanto certo però pare anche che si tratti in realtà di due concetti diversi, pur se (purtroppo) ricondotti alla stessa formula.

Non esiste infatti un precetto normativo per cui il debitore debba formulare in termini generali ed assoluti la “migliore” soluzione regolatoria della crisi nell'interesse dei creditori. Forse sarebbe un mondo migliore, ma l'esame delle norme positive porta alla luce una realtà più matrigna.

Il debitore, certo, può proporre un piano con continuità solo se essa assicura di più delle alternative liquidatorie disponibili (a mio avviso anche di quelle esperibili nello stesso contesto concordatario, come anche la Direttiva mi pare imponga, ma qua non importa; quasi sicuramente invece il tertium comparationis è costituito anche dall'esercizio provvisorio fallimentare, e su questo anche il dictum veneziano è concorde, anche se taluno, forse pro domo sua, persiste ancora nell'argomentare il contrario; il rinvio è ancora a Il miglior soddisfacimento, cit., §3). Il concordato con continuità, altrimenti, è inammissibile.

Ma non esiste, di contro, nell'ordinamento settoriale, un precetto per cui il debitore debba elaborare uno scenario concordatario con continuità, se le alternative liquidatorie sono sub-valenti. Il concordato liquidatorio in questo caso è comunque ammissibile, e va messo ai voti; se poi qualcuno dei legittimati esperisse il cram down, ma solo in questo caso, e comunque mai officiosamente, il giudizio sulla convenienza sarà rimesso al Tribunale; in questa prospettiva si colloca adesso anche la Direttiva.

Nemmeno si può dire che la legge fallimentare imponga di adire il concordato se il fallimento costituisce pure una soluzione regolatoria meno favorevole ai creditori: l'istanza di fallimento sarà accolta, e nessun altro, nel nostro sistema, è legittimato ad instare per il concordato.

Sul piano della responsabilità degli amministratori, e della selezione dei comportamenti compatibili con quei precetti, si potrebbe invece discutere a lungo; ma ancora una volta non è questa la sede.

D'altro canto, anche quando si autorizza un atto di straordinaria amministrazione, non si accerta normalmente che l'atto si inserisca nella miglior soluzione regolatoria possibile, e nemmeno che lo stesso costituisca in sé la soluzione “best of all” per risolvere quella specifica situazione; si verifica solo che l'atto non sia pregiudizievole per la Massa.

L'art. 182-quinquies l.f., certo, parla di “migliore soddisfazione”, ma perché si innesta nel microsistema del concordato con continuità; ed in realtà il Giudice si limita in questi casi ad accertare prima di tutto che sia plausibile uno scenario di piano con continuità che soddisfi il requisito, anche se in ipotesi ancora non definito; e poi che l'atto autorizzando sia suscettibile di essere inserito prospetticamente in tale scenario, senza dunque renderlo implausibile, prima di tutto, e poi senza danneggiare in sé i creditori.

Lo stesso è a dirsi per le norme del CCII, ove talune norme che impiegano il “famoso” sintagma si collocano nella prima direzione (artt. 87, 95, 99, 100, 284, 285), ed altre nella seconda (artt. 94, 123, 274, 287), ma la soluzione non è affatto sempre inequivoca.

In relazione all'art. 186-bis l.f., tuttavia, non vi è dubbio che il significato corretto sia il primo.

La sentenza veneziana, in armonia con una corrente dottrinale, asserisce ora espressamente che il surplus concordatario potrebbe sì essere liberamente destinato dalla proposta al servizio dell'uno o dell'altro creditore; ma questo solo se alla Massa viene comunque “spalmato”, evidentemente con l'uso dei criteri graduativi ordinari, il valore che sarebbe stato attribuito in caso di liquidazione, comprensiva dei risultati prevedibili di un esercizio provvisorio fallimentare.

In tal modo, parrebbe, si mette a fuoco un “minimo garantito” di valore che dev'essere assegnato ai creditori in un concordato; il residuo, che visualizza il c.d. surplus, potrebbe invece essere liberamente destinato; peccato però che, come si è appena visto, non sembri esistere una norma che fissi tale principio, almeno come requisito generale di ammissibilità, e l'unico disposto che apre a questa soluzione (art. 186bis) richieda in realtà che ai creditori del concordato con continuità sia dato non almeno quello, ma qualcosa in più (da qui anche la precisazione fatta da Cass., 19 novembre 2018, n. 29742, che pure la Corte veneziana cita in motivazione).

Incentrare il discorso sul “miglior soddisfacimento” comporta poi l'apparente vantaggio logico di allontanare la prospettiva da quella dei singoli assets del debitore, e della loro soggezione alla responsabilità patrimoniale, e di focalizzarla sulla visione valoristica dei “saldi” del patrimonio.

In tal modo forse si effettua anche una certa confusione concettuale fra le due possibili forme di “limitazione” alla responsabilità previste dal comma 2° dell'art. 2740 c.c.: in una prima accezione si fa infatti riferimento alla limitazione dell'oggetto satisfattivo della garanzia, id est ai beni facenti parte del patrimonio da aggredire; in una seconda si mette invece in risalto la limitazione quantitativa della responsabilità; è evidente che in un caso ci si rifà alla responsabilità (e l'angolo di visuale è dunque, almeno secondo la ricostruzione dominate, processuale), e nell'altro invece si prende ad oggetto il debito, dal punto di vista sostanziale.

Ma in tal modo sembra quasi che il creditore acceda al concordato come se il suo diritto fosse già “modellato” dalla legge attraverso il ricorso a tale “criterio comparativo”, che però si annida nella sostanza del diritto, non nella forma processuale, e dunque l'effetto non può non sorprendere.

Anche l'esempio dell'art. 160, comma 2, l.f., ossia della possibile falcidia del credito privilegiato, non pare poi molto calzante: lì in effetti è possibile ridurre il credito quantomeno entro i limiti del valore di realizzo liquidatorio, ma si dimentica che si tratta di creditori privilegiati, che il disposto è stato scritto pensando senz'altro alle prelazioni speciali, e che il residuo insoddisfatto viene poi collocato al chirografo (a maggior ragione nel CCII: art. 85, comma 7°), “rango” cui la norma non si applica.

D'altro canto, se questo fosse un argomento determinante, allora perché la norma non è stata resa applicabile dal Legislatore anche ai creditori chirografari? Dovrebbe cioè esistere, per coerenza, una norma che consenta di stimare anche quanto verrebbe attribuito ai creditori chirografari in una liquidazione fallimentare, e che legittimi il debitore ad offrire agli stessi almeno quella somma. Ma così non è.

E perché allora non consentire, in tali condizioni, altresì concordati che paghino zero al ceto chirografario? Non parlo di classi a costo zero, ma di piani che non attribuiscono nulla ai chirografari, perché nel fallimento nulla verrebbe loro distribuito.

Ed in ultima analisi mi pare che ci sia un argomento che osta in modo irrimediabile all'accoglimento di tale prospettazione: il debitore, nei concordati con continuità deve offrire, anzi “assicurare”, alla Massa un trattamento che contempli di più di quel “valore minimo” (lo chiamerò “superminimo”). E dunque, senza un canone oggettivo che fissi la misura di tale superminimo, come si fa a determinare l'entità delle risorse che invece possono essere liberamente destinate, in deroga alla graduazione legale?

Ciò equivarrebbe a dire il debitore può destinare alla Massa il valore di liquidazione + €1: ma il sapore della fictio è più che evidente.

Senza il lupo non ci sarebbe la gallina?

In realtà a mio avviso è la stessa prospettiva ideologica in cui si pongono i sostenitori di tale ricostruzione a risultare fallace: sullo sfondo c'è l'idea che il c.d. surplus sia il prodotto dell'azione “creativa” dell'imprenditore in crisi; senza il cui apporto il suddetto surplus non vi sarebbe, per cui non vi sarebbe motivo di determinare a priori ed in modo imperativo la destinazione.

In realtà, il lavoro dell'imprenditore che foggia la domanda di concordato non può essere mai posto in rapporto di corrispettività con i sacrifici richiesti ai creditori; esso è un presupposto della procedura, non una mera scelta di autonomia privata; allo stesso modo, in un gruppo societario, il pregiudizio di una società dell'agglomerato non può essere “bilanciato” dai “benefici” che scaturiscono dalla mera appartenenza al gruppo, che scaturiscono dall'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento al vertice (giurisprudenza pacifica da almeno un ventennio: ogni citazione sarebbe superflua).

Le cose non cambiano neppure quando vi sia l'apporto al successo del concordato di un terzo, che immetta risorse nell'impresa al fine di consentirle di proseguire l'attività: in questo caso potrebbe anche verificarsi che, in assenza dell'apporto, la continuità fosse impossibile, e che lo scenario alternativo fallimentare si riveli così sub-valente rispetto all'opzione concordataria con continuità (è il caso deciso da Trib. Milano, 5 dicembre 2018, Waste Italia, in Fallimento, 2019, p. 1087, con la cit. nota di Guiotto); tuttavia, anche assumendo che effettivamente senza quell'apporto l'attività di impresa cesserebbe, come si fa a determinare l'entità del contributo causale del terzo alla prosecuzione dell'attività che la rende davvero rilevante? Id est, quanto del surplus generato da quell'attività in futuro dovrebbe essere destinato ai creditori concorsuali, e quanto invece potrebbe essere attribuito liberamente, anche a terzi?

Siamo alle solite.

Mi pare evidente come non ci sia una risposta plausibile da dare a questa domanda, perché lo stesso quesito presuppone la legittimità di una ipotesi applicativa ove il problema viene in realtà ancora una volta eluso, mediante la legittimazione “forzata” di una destinazione ai creditori meramente “simbolica”, che salvi la forma del principio, annichilendone la sostanza.

A ben vedere, non si vi è nessuna differenza fra quest'esempio e quello dell'acquisto di un asset concordatario per un prezzo superiore al suo supposto “valore”; in entrambi i casi, in tutti i casi prospettati, vi è solo “trasformazione” di un asset in un altro, il cui risultato finale sarebbe per legge “destinato” ai creditori, ed invece viene distratto da tale funzione, per assecondare un ideale economico di “convenienza”, che tuttavia non è la regola generale di ammissibilità del concordato.

Inoltre si è già visto che l'oggetto su cui si esercita la responsabilità patrimoniale prescinde completamente, almeno nella visione del Legislatore, dalla individuazione delle “cause” che hanno consentito al patrimonio del debitore di far proprio un certo elemento dell'attivo; da qualunque processo economico esso si sia generato, esso diviene aggredibile da parte dei creditori.

Da qua emerge anche, ed in modo evidente, l'ipocrisia e l'erroneità dell'assunzione a principio generale, come un'ipostasi, del concetto del “miglior soddisfacimento”, che in effetti corrisponde, nella sua sedes “naturale” (l'art. 186-bis l.f.), all'idea della “convenienza”.

Ma non si rinviene nel sistema, non in quello vigente, e neppure in quello futuro, nemmeno in quello immaginato dalla Direttiva, una norma per cui il concordato che corrisponde al miglior soddisfacimento dei creditori è “ontologicamente” ammissibile. L'inversione logica, nella tesi criticata, mi pare plateale: semmai il concordato ammissibile andrà scrutinato, nei limiti e nelle forme che la legge consente, per la sua conformità al “miglior interesse”.

Altrimenti, ed in modo davvero clamoroso, sulle ali di una ipocrisia veramente “scabrosa”, si legittimerebbe da una parte, anzi elevandola a “regola generale”, quella valutazione giudiziale di convenienza che pur si è voluto in tutti i modi cacciare dalla porta, considerandola “il primo di tutti i mali”.

Ancora strabismo intellettuale.

Alla fine, l'interesse del debitore, anzi del suo soggetto economico

Certo, il debitore potrebbe anche, in assenza del riconoscimento di tale modalità applicativa, non presentare la domanda di concordato, in Italia come è ben noto egli è l'unico legittimato; ma forse si dimentica che il debitore proponente non fa un'offerta per ampliare onerosamente la sfera giuridica dei creditori: l'offerta è tesa a ridurre quella sfera giuridica, ed il debitore, in molti casi, ed almeno nello schema “archetipico” della proposta, non paga proprio nulla, perché trattiene tutti od almeno una parte (se vi è proposta di conversione di crediti in capitale) dei suoi diritti sull'equity.

Il debitore contribuisce ad attuare semplicemente in un modo differente dalla modalità liquidatoria la sua responsabilità; ossia, attua un suo obbligo specifico, cui è già venuto meno quanto all'oggetto primario, sicché egli adempie con modalità succedanee alla prestazione promessa.

È cioè comunque il ceto creditorio a “pagare” la soluzione proposta, perché essa viene comunque ricavata da una riqualificazione del patrimonio del debitore, che è già tutto vincolato e “vocato” a quello scopo.

Il debitore può liberamente disporre (solo) di ciò che viene immesso nel piano concordatario dall'esterno del suo patrimonio, perché tutto quello che viene estratto da quel patrimonio rientra già nelle potenzialità economiche che la Legge ha già “destinato” in favore dei creditori; ed è sempre l'art. 2740 c.c. a sancirlo.

E finalmente si svela la “reale” motivazione di questi tentativi ermeneutici: il c.d. surplus potrebbe così essere talvolta attribuito a creditori concorsuali in deroga alla nota graduazione legale, ma più spesso, od in misura preponderante, esso resta a invece vantaggio dello stesso debitore, o meglio del suo “soggetto economico”, che rimane all'esito titolare, anche solo in parte, dei diritti “residuali”. Dire che quelle risorse vengono “trattenute” nel patrimonio dell'impresa, per rinforzare le prospettive della ristrutturazione, non ha un significato diverso. In futuro, quando il concordato sia stato adempiuto, e così i debiti concorsuali estinti, quelle risorse saranno potenzialmente “disponibili”, e dunque comunque “distribuibili” ai soci.

Ma quale sia la gerarchia “ordinamentale” fra tali interessi non occorre nemmeno precisarlo.

Da qui la ragione più profonda del principio di diritto espresso da Cass., n. 9373/2012, che sottrae a qualsiasi destinazione preterlegale le risorse comunque provenienti dal patrimonio del debitore, anche se “passate” per lo stesso per un solo attimo.

Si è pensato, recentemente, di poter assumere che tale dictum sia in realtà “superato” dall'evoluzione normativa, in favore di canoni “più moderni”.

Ma si è sottovalutato decisamente il sostrato sistematico sottostante alla ratio decidendi della S.C.; Suprema Corte che d'altro canto proprio di recente, con una pronunzia che è passata “stranamente” sotto silenzio, ha ripreso espressamente il proprio precedente del 2012, che ha inteso esplicitamente confermare (Cass., 14 maggio 2019, n. 12864).

Un'obiezione di cui bisogna invece farsi carico, perché si basa su un'osservazione reale, è quella per cui non si capirebbe perché vietare l'assegnazione a creditori, in deroga all'ordine legale, di risorse che potrebbero tranquillamente essere “trattenute” dal soggetto economico.

La legittimità del concordato che consenta al socio di mantenere almeno in parte il suo equity, facendo pagare ciò ai creditori falcidiati, è per lo più affermata in dottrina come in giurisprudenza, pur a fronte di soluzioni ermeneutiche dissonanti (cfr. Vattermoli, op. loc. citt.). Non è questa però la sede per verificare la fondatezza dell'assunto.

La suggestione sembra cogliere comunque nel segno, almeno a prima vista, ma in realtà non regge ad un esame men che superficiale: i rapporti giuridici fra soci e creditori non sono equiparabili, nell'ordinamento vigente, a quelli fra creditori di rango diverso, perché si tratta di categorie eterogenee: sono rapporti doppiamente “verticali”.

Che la legge italiana consenta al socio di internalizzare risorse prodotte dal patrimonio del debitore non autorizza altresì a predisporre soluzioni regolatorie “trasversali” che alterino il quadro delle relazioni di forza fra creditori.

Diverso è il contesto, diversi sono gli effetti, anche ex ante: il socio non vota mai (nel diritto vigente), i creditori non votano solo se “disinteressati”; il creditore, che non è un investitore a reddito variabile, reclamerà anche una garanzia specifica, se teme che in caso di inadempienza del debitore qualche parte del patrimonio di quest'ultimo potrà essere destinata a chi lo segue nell'ordine legale; non è lo stesso rispetto al mantenimento di una partecipazione nel capitale del socio. Ancora con effetti deteriori ex ante, e potente selezione avversa.

L'argomento poi proverebbe troppo: il debitore come si è visto deve mettere a disposizione della Massa tutto il suo patrimonio, vocandolo a tale destinazione, ma non è tenuto ad offrire agli stessi un soddisfacimento pari al valore “massimo” dello stesso: egli può limitarsi ad offrire, “garantendola”, una percentuale del credito; è chiaro dunque che il patrimonio eccedente tale scopo, prima “vincolato” a tale scopo (questo è il decisum di Trib. Rovigo, 27 luglio 2018, già citata), dopo che il ceto creditorio è stato soddisfatto resta sostanzialmente nella disponibilità del “soggetto economico”; dunque, qualora l'osservazione fosse davvero centrata, si dovrebbe concludere che altresì l'attivo facente parte di tale patrimonio al momento dell'apertura della procedura, ma eccedentario rispetto al conseguimento di tale obiettivo, sia utilizzabile per distribuzioni in deroga all'ordine delle cause legittime; ma in tal modo, mi pare evidente, l'art. 160, comma 2°, l.f., ne uscirebbe semplicemente del tutto cancellato.

A volte è solo “passando al limite” che le ricostruzioni (pre)concettuali si rivelano errate.

Per non parlare del “tormentone” per cui “altrimenti il concordato con continuità” non si potrebbe mai fare in assenza di finanza veramente “terza”: a prescindere dalla circostanza per cui si tratta di un assunto non vero, alla luce delle esperienze quotidiane, si tratta della riproposizione della solita “difesa” del debitore, a fronte di violazioni di legge, per cui il concordato “così non si può fare”: il concordato per essere possibile deve essere conforme alla Legge, non il contrario.

Che non sia vero che il concordato con continuità non sarebbe altrimenti possibile è disvelato anche dalla (ovvia ed appena segnalata) precisazione che l'entità della promessa formulata ai creditori in questo contesto non è sindacabile (purché sia superiore a quella consistente nell'alternativa “liquidatoria”, comunque qualificata), sicché il debitore è libero di determinare quale entità del c.d. surplus attribuire concretamente alla Massa, col solo limite di doverla convincere a votare positivamente.

Ma in ogni caso, tutto il patrimonio dovrà essere destinato al successo della soluzione regolatoria; se poi lo stesso è radicalmente “insufficiente” (perché nulla può essere attribuito ai chirografari), il debitore dovrà reperire risorse “aggiuntive”; il Legislatore ha esentato il debitore dal solo limite del 20%, ma non dall'onere di esperire comunque il concordato quando il patrimonio sia ancora “sufficiente”; diversamente, dovrebbe concludersi che l'interesse tutelato in via principale è divenuto quello “oggettivo” alla prosecuzione dell'attività d'impresa; ma allora si ricadrebbe nel solito “equivoco”.

Certo, se il diritto “insegnasse” ai creditori che quel surplus è liberamente disponibile da parte del debitore, diverrebbe più facile far passare certe soluzioni regolatorie, in realtà “espropriative”, presso gli stessi creditori; ma se invece emergesse con chiarezza che non è così, e che quei proventi sono anch'essi “vocati” al soddisfacimento dei creditori, diventerebbe più difficile procurarsi il voto facendo proposte “indecenti”, a meno che dette risorse non siano “più generosamente” messe a disposizione della Massa.

Dunque non è neanche vera la pur ricorrente “favoletta” per cui attribuendo quei proventi a soggetti “eletti”, in deroga alla graduazione, si attribuisce qualcosa di più a questi ultimi, senza togliere nulla alla Massa; ciò è vero solo se si dà per assunto che la distribuzione preterlegale è ammissibile; altro che soluzione Pareto efficiente …

Al contrario, la vittoria dell'idea per cui il surplus sarebbe liberamente disponibile, unita alla normale asimmetria informativa fra debitore e creditori, condurrebbe ad una forte incentivazione verso tentativi ristrutturatori “strategici”, in cui il debitore ridurrebbe semplicemente il peso del suo passivo ad una soglia definita, trattenendo ed anzi “liberando” le risorse eccedentarie.

Con evidenti effetti, ancora, di selezione avversa, e prociclici nei periodi di crisi.

Per contrastare la ricostruzione qui propugnata, d'altro canto, non si possono addurre argomenti basati su disposizioni animate da visioni peculiari e specifiche, come l'art. 182-quinquies l.f., ove sì la provenienza delle risorse da attribuzioni “senza obbligo di rimborso”, o comunque “postergate”, consente di pagare crediti anteriori, ma ciò in deroga alla sola norma che richieste l'attestazione speciale, non all'accertamento della conformità al miglior soddisfacimento. Il Legislatore cioè ha incentrato l'attenzione sul fatto che tali pagamenti non danneggiano il patrimonio del debitore, poiché il “finanziatore” così non potrà essere preferito ai creditori concorsuali, non sulla graduazione legale, posto che il pagamento del creditore anteriore (deve ritenersi, anche se il punto è discusso, persino in misura integrale, a prescindere dalla struttura della proposta concordataria) costituisce comunque una violazione (autorizzata) di quel criterio legale.

E poco probante è anche il fatto che il CCII abbia imposto l'immissione di “finanza nuova” solo per il concordato liquidatorio (art. 84, ult. cpv.): la logica lì è completamente diversa, e conduce ad una “tassazione” del debitore per avere esperito la soluzione regolatoria in ritardo; d'altro canto si omette così di considerare che la “finanza” richiesta deve essere “esterna” soltanto quando alla provenienza, ma poi le risorse “passano per il patrimonio del debitore”, affinché l'incremento del tasso di recupero sia effettivo. L'obbligo di incremento legale del 10%, insomma, non mi pare poter autorizzare anche un utilizzo delle risorse aggiunte in deroga all'ordine legale, legittimando un concordato che altrimenti non sarebbe stato ammissibile.

Difficile dunque pensare di ricavare le considerazioni dalle quali qua dissentiamo da un disposto che focalizza una ratio differente, e che ha altresì una struttura eterogenea rispetto al nostro tema.

Il Legislatore del CCII non ha normato questa fattispecie per il semplice motivo che già l'applicazione dei principi generali in tema di garanzia e responsabilità patrimoniale era ritenuta sufficiente; non dettare una norma, in questo contesto, vuol dire solo non derogare.

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