La corretta definizione di “crisi” e di “indici della crisi” secondo il primo Correttivo al Codice della crisi e dell'insolvenza

Filippo Lamanna
20 Marzo 2020

Lo Schema di Correttivo ufficialmente licenziato dal Consiglio dei Ministri il 13 febbraio 2020 interviene su alcune delle 19 parole-chiave e/o delle relative definizioni elencate nell'art. 2 del Codice (in particolare nella lett. a).

Lo Schema di Correttivo ufficialmente licenziato dal Consiglio dei Ministri il 13 febbraio 2020 interviene su alcune delle 19 parole-chiave e/o delle relative definizioni elencate nell'art. 2 del Codice (in particolare nella lett. a).

La prima, e tra l'altro una delle più importanti, è quella di “crisi”, oggetto di una rettifica finalizzata a renderne più appropriata la definizione.

Viene in particolare sostituita all'espressione “difficoltà” (“economico-finanziaria”) quella di “squilibrio” (“economico-finanziario”), che, stando alla (giusta e pertinente) considerazione contenuta nella Relazione illustrativa, accompagnatoria al Correttivo, è espressione da reputare più corretta secondo i parametri della scienza aziendalistica, cui la legge delega n. 115 del 2017 fa espresso rinvio.

In effetti la legge delega n. 155/2017 ha prescritto, all'art. 2, comma 1, lettera c), di introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche “tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica”.

Alla luce di tale direttiva, può dunque considerarsi ben giustificata la correzione ora apportata, poichè in effetti il termine “crisi” ha una specifica “valenza tecnica”, mentre il riferimento alla mera e generica situazione di “difficoltà” era tutt'altro che tecnico e sistematicamente coerente, non foss'altro considerato che il successivo art. 13, comma 1, del Codice considera come indicatori di crisi proprio “gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario”, con un espresso riferimento, dunque, al fattore “squilibrio” [anche se arricchito dal riferimento agli squilibri “patrimoniali” in aggiunta a quelli economico-finanziari; del resto, come si è notato in dottrina, la crisi non può cogliersi solo sotto il profilo finanziario: cfr. P. Bosticco, Il nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza: disposizioni generali e definizioni, in www.ilFallimentarista.it, 8.7.2019; R. Ranalli, I piani d'impresa nel governo societario e nella composizione della crisi tra il regime attuale e la riforma, in Fallimento, 2018, 1051, il quale assume che l'origine di una crisi è sempre industriale prima ancora che finanziaria; soggiunge M. Terenghi, Insolvenza in prospettiva, crisi, indicatori ed “indici di allerta” tra Legge Fallimentare e nuovo Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza, in www.ilFallimentarista.it, che “sono le stesse norme dedicate all'allerta ad evidenziare come la rilevazione della crisi, in concreto ed al di là del sintetico abstract normativo, passi necessariamente attraverso valutazioni di natura patrimoniale, oltreché finanziaria, dal momento che l'art. 13 comma 1, fa riferimento sia alla continuità aziendale (e quindi anche all'evoluzione del patrimonio netto), sia all'adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi, mentre alcuni degli indici elaborati dal CNDCEC in forza delle delega di cui al comma 2 attengono, come si vedrà nel prosieguo, proprio all'aspetto strutturale dell'impresa. In definitiva, il modello di crisi proposto dal CCII guarda a tale fenomeno sia nell'ottica di un disallineamento tra flussi di cassa e pagamenti da eseguire, sia nella prospettiva di valutare predittivamente uno sbilancio in termini negativi tra crediti e debiti”).

Se, perciò, è stato lo stesso Codice a “creare” ai suoi fini una peculiare definizione di “crisi”, che non necessariamente avrebbe dovuto ridursi alla nozione aziendalistica, tuttavia era comunque necessario che tale definizione fosse sistematicamente coerente, mentre non poteva considerarsi tale in base al generico riferimento alla situazione di “difficoltà”, tanto meno al cospetto dell'art. 13, comma 1.

E in sede di primo commento al Codice si era notato (Lamanna, Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, Il civilista, Giuffrè, Milano, 2019, vol. I, 45), che, a tenore del punto 4.3. (“Definizioni normative”), proprio il riferimento agli indicatori di crisi contenuto in tale ultima norma lasciava comprendere che è proprio ed essenzialmente lo “squilibrio” (di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario) a costituire il dato comune caratterizzante il concetto di indicatori di crisi e perciò stesso, a cascata, a corroborare anche la definizione di crisi.

È da ritenere, dunque, che il Correttivo abbia ben colto tale indicazione e fatto tesoro della segnalata necessità di coordinamento dell'art. 2, lettera a), con l'art. 13, comma 1.

Va notato altresì che per le imprese, secondo la definizione originaria dell'art. 2, lo stato di crisi si manifesta come “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.

D'altro canto l'art. 14 assegna agli organi di controllo della società precipuamente il compito di sorvegliare proprio affinché gli amministratori valutino, fra l'altro, il mantenimento dell'“equilibrio economico finanziario”.

Dunque è proprio la conservazione dell'equilibrio il primo obiettivo degli organi sociali, ed è normale che anche la definizione della crisi, “immagine anticipata” dell'insolvenza, metta a fuoco la sua antitesi, lo “squilibrio”.

Finché c'è equilibrio, e non vi sono ulteriori indizi di una situazione che possa evolvere in direzione “critica”, o per l'inadeguatezza dei sistemi organizzativi in funzione “preventiva”, o per la sussistenza di diversi “indizi” di crisi, anche extratipici (gli “indizi” di crisi di cui all'art. 14 sono infatti cosa diversa dagli “indici” e dagli “indicatori” di cui all'art. 13), non vi è motivo di adottare comportamenti “reattivi”, in “discontinuità” rispetto a quelli sino a quel momento osservati.

È opportuno ricordare poi che, per cogliere gli squilibri in modo sintetico, il Codice ha disposto l'elaborazione di appositi indici, finalizzati ad evidenziare la sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi al momento della loro misurazione e le prospettive di continuità aziendale per l'esercizio in corso o comunque per i sei mesi successivi.

Dinanzi all'originaria formulazione del primo comma dell'art. 13, è stato però subito evidenziato in dottrina il rischio “di confusione interpretativa per l'OCRI, quando dovesse valutare, in presenza di ‘falsi positivi', l'archiviazione della segnalazione, ma prima ancora per il CNDCEC, nell'individuazione degli indici di cui al secondo comma” (Ranalli, La sostenibilità del debito nei sei mesi successivi: una formulazione infelice per l'identificazione degli indici di allerta, in www.ilFallimentarista.it).

Infatti la suddetta norma, come si anticipava poc'anzi, ha previsto la rilevabilità degli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario dell'impresa attraverso indici che diano evidenza “della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l'esercizio in corso (…)”, soggiungendo che “A questi fini, sono indici significativi quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell'indebitamento con i flussi di cassa che l'impresa è in grado di generare e l'adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi (…)”.

La norma dunque ha definito gli indici di crisi facendo riferimento, in positivo, alla sostenibilità degli oneri dell'indebitamento, finendo per rendere illogica, almeno sul piano letterale, la definizione.

Com'è stato giustamente notato, “Pretendere, come parrebbe dall'attuale testo, che il debito sia ancora sostenibile per almeno 6 mesi e la continuità aziendale in essere per l'esercizio in corso, equivale infatti ad attivare le misure di allerta solo in imprese in continuità aziendale, in grado di sostenere regolarmente le proprie obbligazioni. Sarebbero potenzialmente attratte alle misure di allerta anche o, peggio ancora, solo le imprese sane. Pretendere che l'allerta debba essere intercettata quando l'impresa operi ancora regolarmente e sia in grado di sostenere il proprio debito per almeno 6 mesi, non solo farebbe venire meno la valenza discriminante della previsione, ma addirittura potrebbe fare anche sorgere nell'OCRI il dubbio di essere legittimato ad attivare la composizione della crisi quando non ricorrano le due condizioni richieste, a prescindere dalla praticabilità della stessa. Sorgerebbero inevitabili conflitti di coordinamento con gli indicatori di allerta costituiti dai “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi” di cui all'ultimo periodo del primo comma o con quelli rilevanti per la segnalazione da parte dei creditori pubblici qualificati di cui all'art. 15. Entrambe tali situazioni appaiono, infatti, difficilmente conciliabili con il presupposto della presenza di una sostenibilità del debito per almeno sei mesi ovvero della continuità aziendale per l'esercizio in corso”.

Alla luce di tale palese improprietà definitoria, si è quindi suggerito di modificare il testo “precisando che gli indici debbono dare evidenza “della non sostenibilità” dei debiti “per i sei mesi successivi” e “dell'assenza” delle prospettive di continuità aziendale”, modifica già del resto rappresentata dal CNDCEC nel corso delle audizioni innanzi alle commissioni parlamentari (Ranalli, op. loc. cit.; dello stesso Autore cfr. anche Gli indicatori di allerta nel testo di legge delega della riforma approvato dalla Camera; esame critico; rischi per il sistema delle imprese, in Crisi d'Impresa e Fallimento, 14 febbraio 2017; Id., Il codice della crisi gli “indicatori significativi”: la pericolosa conseguenza di un equivoco al quale occorre porre rimedio, in www.ilcaso.it).

Sempre in sede di primo commento al Codice si era osservato peraltro che tale preoccupazione era forse “eccessiva, ben potendosi agevolmente pervenire al risultato auspicato anche in via semplicemente interpretativa, dando doverosamente alla norma il suo significato logico più plausibile” (Lamanna, Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza cit., vol. I, 123).

Ciò non dimeno il Correttivo ha recepito la preoccupazione e la correlata proposta “precisando – come puntualizza la Relazione - la funzione degli indici e in particolare, a tal fine, sostituendo all'espressione “sostenibilità” dei debiti quella di “non sostenibilità” ed all'espressione “adeguatezza” quella di “inadeguatezza”, così recependo le osservazioni critiche di numerosi commentatori ed esperti di discipline aziendalistiche che hanno fatto notare l'ambiguità di una definizione declinata alla forma affermativa, posto che l'obiettivo è quello di intercettare “l'inadeguatezza dei flussi prospettici a far fronte alle obbligazioni pianificate” (così l'art. 2, comma 1, lettera a) e dunque l'insostenibilità dell'indebitamento e la situazione di assenza di continuità aziendale”.

Si tratta di un raddrizzamento della formula definitoria che dovrebbe dunque totalmente scongiurare qualsiasi rischio di equivoci o applicazioni distorte.

Inoltre il Correttivo ha ritenuto opportuno rendere più appropriata anche lessicalmente la rubrica dell'articolo 13, in origine preannunciante la definizione e la disciplina degli “Indicatori della crisi”, rendendola più coerente con il contenuto complessivo della disposizione mediante il riferimento anche agli “indici”, atteso che l'art. 13 “non disciplina soltanto gli “indicatori” della crisi, e cioè gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario che rendono probabile l'insolvenza dell'impresa, ma anche gli “indici” di tale situazione di crisi, cioè gli elementi sintomatici che, nel dare evidenza del rapporto che sussiste tra due o più quantità, svelano tali squilibri e che devono essere elaborati dal Consiglio nazionale dei commercialisti e degli esperti contabili, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo 13”.

Il Correttivo è peraltro intervenuto anche sul terzo comma di tale norma, che, al fine di valorizzare quelle specificità delle singole imprese, che potrebbero rendere gli indici elaborati in via generale inidonei, in singoli casi, ad evidenziare concretamente la possibile situazione di crisi, ha previsto la possibilità di elaborare in alternativa “indici domestici”, ossia indici che le singole imprese possono decidere di adottare indicando, nella nota integrativa al bilancio di esercizio, le ragioni che renderebbero inadeguati gli indici elaborati dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti.

In tal caso, però, occorre che un professionista indipendente attesti l'adeguatezza di tali indici in rapporto alla specificità dell'impresa.

Tale attestazione, specificava il terzo comma, “produce effetti per l'esercizio successivo”.

Quest'ultima precisazione sembrava significare che l'attestazione avrebbe potuto produrre i propri effetti solo per l'esercizio successivo.

Per evitare una tale lettura restrittiva, la disposizione era stata oggetto di un tentativo di forzatura interpretativa già da parte della stessa Relazione al Codice, che si esprimeva al riguardo affermando che “a partire dall'esercizio successivo, l'impresa sarà “valutata” sulla base di questi diversi indici”, con ciò volendo significare che l'attestazione non avrebbe avuto un effetto limitato solo ad un anno, potendo valere anche gli anni successivi a partire dal primo.

Sta di fatto che l'indicazione contenuta nella Relazione non poteva tener luogo del ben diverso tenere letterale della norma, chiaramente inteso a limitare gli effetti dell'attestazione al solo anno successivo.

In effetti, l'opzione riduzionistica sulla durata di efficacia dell'attestazione è stata ritenuta in sede di Correttivo inadeguata, recependosi così le doglianze delle imprese, preoccupate di dover continuativamente affrontare le spese di attestazioni annuali.

Il Correttivo è quindi intervenuto in senso più liberale precisando “che la dichiarazione attestata idonea a sottrarre l'impresa all'applicazione degli indici standard elaborati dal Consiglio nazionale dei commercialisti e degli esperti contabili ai sensi del comma 2 produce i propri effetti non solo per l'esercizio successivo a quello cui si riferisce il bilancio al quale l'attestazione è allegata, così come l'espressione “per l'esercizio successivo” potrebbe far pensare, ma “a decorrere dall'esercizio successivo”, senza necessità, dunque, di rinnovarla annualmente”.

La Relazione accompagnatoria non ha mancato peraltro di avvertire che una nuova attestazione potrebbe non dimeno rendersi necessaria, ma “solo in presenza di un mutamento delle circostanze che renda l'attestazione resa e pubblicata insieme al bilancio non più adeguata rispetto allo scopo”.

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