La nuova responsabilità delle società per i reati tributari: i rischi e i rimedi
Ciro Santoriello
23 Marzo 2020
Il c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019) ha previsto che alcuni degli illeciti tributari di cui al d.lgs. n. 74/2000 rappresentino un presupposto della responsabilità da reato dell'ente societario. Dopo aver esaminato, nel contributo precedentemente pubblicato, la nuova disciplina e le criticità della riforma, in questa seconda parte l'Autore illustra i rischi per le società e i possibili rimedi.
Premessa
Il legislatore, con il c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124 del 2019, conv. con mod. in l. n. 157/2019) ha previsto che alcuni degli illeciti di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 rappresentino un presupposto della responsabilità da reato dell'ente societario, ai sensi del nuovo art. 25-quinquiesdeciesd.lgs. n. 231 del 2001.
Per un'analisi della nuova disciplina, si rimanda alla prima parte del presente contributo, in questo portale.
I rischi per le società ed i possibili rimedi. A) Le incertezze legate alle nozioni di fatture relative ad operazioni inesistenti e di dichiarazione fraudolenta
Ad una prima lettura, l'introduzione del nuovo art. 25-quinquiesdeciesd.lgs. n. 231 del 2001 non pare di significativo rilievo per l'organizzazione interna delle società commerciali: la particolare intensità dolosa degli illeciti presupposto – tutti connotati dal dolo specifico di evadere le imposte e caratterizzati, vista l'estraneità rispetto al catalogo presupposti dei delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, da componenti di fraudolenza – pare riservare il trattamento punitivo previsto dal citato art. 25 quinquiesdecies alle sole società che, nella piena consapevolezza degli organi gestori, scelgano deliberatamente di violare le prescrizioni tributarie e facciano perciò dell'evasione fiscale una vera e propria scelta politica, una forma illegale di finanziamento, sicché, per così dire, per evitare sanzioni ex d.lgs. n. 231 del 2001 parrebbe sufficiente che le società omettano di adottare comportamenti e scelte che si pongano in contrasto con le violazioni fiscali di rilievo penale, prestando accortezza all'adempimento degli obblighi erariali.
In realtà, il quadro non pare così semplice, per ragioni legate, da un lato, alla disciplina in tema di responsabilità da reato delle società di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 e dall'altro a diverse problematiche in tema di interpretazione delle fattispecie di cui agli artt. 2 e3 d.lgs. n. 74 del 2000.
Iniziando da tale secondo aspetto, pare indiscusso che rischi per le imprese possa derivare dalle incertezze che circondano l'interpretazione giurisprudenziale dei reati di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione infedele, con particolare riferimento ai temi dell'inesistenza della operazione documentata da fatture, dei costi non inerenti, dell'abuso del diritto, della nozione di operazione simulata, ecc.. Il tema è evidentemente troppo complesso per essere esaminato in questa sede (in proposito sia consentito il riferimento a SANTORIELLO, Abuso del diritto e conseguenze penali, Torino 2018), ma quel che si vuol dire è che in ragione di alcune interpretazioni giurisprudenziali – con riferimento, ad esempio, a scelte di transfer pricing, esterovestizione, sale and lease back, ecc. -, è ben possibile che scelte di pianificazione fiscale particolarmente “aggressive” (per intenderci, passibili di essere qualificate come comportamenti di elusione) possano essere qualificate come condotte di evasione con conseguente possibile contestazione alla società dell'illecito di cui all'art. 25-quinquiesdeciesd.lgs. n. 231 del 2001 (laddove l'eventuale incertezza circa il soggetto che ha effettivamente elaborato la politica fiscale della società sarà irrilevante per le ragioni che si sono dette sopra).
Non da trascurare poi è il possibile (ma in alcuni casi forse anche inconsapevole) coinvolgimento dell'ente in vicende di interposizione fittizia ovvero allorquando la negoziazione interessa in effetti due soli soggetti ma nella vicenda viene fatto comparire un terzo il cui intervento è funzionale all'ottenimento di un illecito vantaggio fiscale. Questo è quanto si verifica nelle cd. frode carosello, situazione in cui nelle quali il soggetto estraneo – l'interposto – è di regola rappresentato da una società “cartiera” la quale acquista merce dal fornitore comunitario senza applicazione dell'Iva per poi rivenderla sottocosto ad un destinatario UE, che può così lucrare sul mancato pagamento dell'imposta sul valore aggiunto da parte del soggetto interposto. È da sempre pacifico in giurisprudenza che la fatturazione che intercorre fra il soggetto interposto e il successivo destinatario della prestazione rappresenti falsamente l'accaduto e ciò in quanto il fornitore intracomunitario cede la merce (non al singolo interposto come documentato all'Erario, ma) direttamente al destinatario finale: in sostanza, a fronte della corretta rappresentazione dell'operazione economica come corrente fra il venditore ed effettivo importatore dei beni in Italia se ne fornisce all'Amministrazione finanziaria una diversa, nella quale compare un'operazione economica asseritamente intercorsa fra esportatore UE e soggetto interposto, operazione che in realtà non ha affatto luogo: in tali circostanze si ritiene da sempre configurabile il reato di cui all'art. 8 d.lg. n. 74 del 2000 a carico dell'interposto nonché quello di cui all'art. 2 d.lg. n. 74 del 2000 a carico dell'effettivo cessionario dei beni o beneficiario della prestazione (Cass., sez. III, 23 marzo 2011, n. 11670), il quale ottiene il vantaggio di acquistare beni ad un prezzo minore in quanto cedutogli da un soggetto che non verserà l'Iva. In sostanza, la ratio di tali particolari e complesse operazioni è la seguente: di regola, allorquando un soggetto residente in Italia acquista merci in esenzione Iva da un fornitore residente in un altro Stato dell'Unione e poi provvede a rivenderle nel nostro paese, egli applica sul prezzo finale del bene anche l'importo dell'Iva il cui costo verrà dunque scaricato sul consumatore finale al momento della compravendita; in questo modo il debito Iva nei confronti dell'erario matura in capo all'importatore italiano, il quale, se da un lato recupera l'importo dovuto a titolo di imposta dal cliente privato (o dall'imprenditore avente causa successivo) che da lui acquista il bene, è tuttavia al contempo tenuto a versarlo all'erario: l'importatore italiano, infatti, avendo acquistato il bene poi rivenduto in regime di esenzione Iva non può trattenere presso di sé le somme ricevute a titolo di imposta sul valore aggiunto dai suoi clienti in quanto, per l'appunto, non ha sostenuto la corrispondente spesa al momento in cui si è approvvigionato della merce presso il fornitore comunitario. Per evitare tale conseguenza economica sfavorevole ed onde trattenere presso di sé le somme versategli dagli acquirenti a titolo di imposta sul valore aggiunto, i contribuenti infedeli ricorrono a una triangolazione economica nel senso che fra il fornitore straniero residente in uno Stato UE ed il compratore italiano viene interposto un terzo soggetto, sempre residente nel nostro paese, il quale acquista i beni all'estero per poi rivenderli in Italia all'effettivo commercializzatore degli stessi nel nostro paese; l'intervento nell'operazione economica di tale terzo soggetto fa sì che sia quest'ultimo ad assumere la veste di formale importatore delle merci in Italia e di conseguenza sia lui a comparire quale (unico) debitore verso il Fisco con riferimento al pagamento dell'imposta sul valore aggiunto; al contempo però è pacifico che il soggetto interposto che compare quale importatore fittizio non provvederà a versare tale tributo, non avendo alcuna disponibilità economica per provvedere in tal senso ed essendo tale circostanza stata nota pattuita ab origine fra i protagonisti della vicenda.
Non è raro però che la società accusata di aver utilizzato la falsa fattura mediante i rapporti (inesistenti) con il soggetto interposto si difenda asserendo di non essere consapevole della fittizietà della interposizione e di aver dunque agito in piena buona fede, magari acquistando i beni da fornitore italiano proprio perché la società estera non vendeva direttamente i beni sul territorio nazionale. Per fronteggiare il rischio di tali accuse, dalla società ritenute infondate, è opportuno che il modello organizzativo – alla luce della analisi storica della pericolosità fiscale dell'ente e del tipo di attività esercitata (se essa imponga o meno il contatto con numerosi fornitori e clienti) – verifichi se sia il caso o meno di introdurre procedure aventi ad oggetto
1) la scelta del fornitore ed il dovuto controllo sul cliente (con particolare riferimento alla questione dell'inesistenza soggettiva, sia dal lato passivo, sia dal lato attivo);
2) l'analisi dei prezzi di acquisto e di vendita (ai fini dell'analisi del “rispetto” del criterio del valore normale, per evitare acquisti o vendite sottocosto);
3) la verifica circa l'“esistenza” del fornitore o del cliente;
4) la verifica delle tipologie di negozi giuridici adottati per l'esercizio dell'attività dell'ente (per evitare il rischio di porre in essere operazioni simulate);
5) la valutazione circa l'esistenza di garanzie di autenticità dei documenti circolanti nell'impresa;
6) l'analisi dei flussi finanziari (onde verificare la cronologia dei pagamenti delle forniture ricevute e di quelle realizzate in favore dei clienti);
7) la regolare tenuta della contabilità;
8) la sussistenza di eventuali attività di accertamento nei confronti dell'ente da parte dell'Autorità finanziaria o delle Forze dell'Ordine
9) i negozi dispositivi del patrimonio dell'ente.
In secondo luogo, l'introduzione del delitto di dichiarazione fraudolenta fra i reati presupposto della responsabilità dell'ente deve indurre gli amministratori ad un'ulteriore valutazione inerente operazioni cd. infragruppo e nelle quali di frequente la giurisprudenza rinviene una ipotesi di interposizione fittizia. Il problema nasce dalla circostanza, cui si è fatto sopra cenno, che secondo una giurisprudenza ormai pacifica l'inesistenza di un'operazione commerciale – e quindi la falsità delle fatture e della documentazione fiscale inerente la stessa – può sussistere pure quando le prestazioni concordate dalle parti risultino materialmente eseguite ma al contempo tali negozi contrattuali non presentino alcuna logica economica ed imprenditoriale e siano diretti solo a far ottenere al contribuente un vantaggio fiscale non spettantegli: come si legge in una decisione, il meccanismo fraudolento presente nelle frodi carosello “funziona sia se il trasferimento dei beni sia reale che fittizio; ciò che conta è che la società italiana importatrice che si assume il debito IVA sia votata all'insolvenza, cioè trattenga l'IVA senza versarla e consenta di "spalmare" i benefici sugli altri protagonisti del "carosello"; quando vengono conclusi una pluralità di negozi giuridici con il solo intento di far maturare un rilevante debito d'IVA in capo ad una persona giuridica – con conseguenti vantaggi economici per le altre aziende coinvolte nei traffici commerciali – nella consapevolezza che la stessa non provvederà a versare all'erario le somme dovute, si è senz'altro in presenza di operazioni inesistenti, anche se le prestazioni obbligatorie previste nei contratti sono state effettivamente poste in essere” (Cass. Pen., sez. V, 10 marzo 2016, n. 19460). D'altronde, ha aggiunto la Cassazione in un'altra pronuncia, l'inesistenza delle operazioni documentate nelle fatture che si assumono false non necessita che i sottostanti negozi siano simulati in senso civilistico poiché “anche ciò che giuridicamente è effettivo può essere senz'altro fraudolento, se sul piano economico non vi è stata affatto l'operazione che le parti di un contratto abbiano convenuto e ciò per la semplice ed intuitiva ragione che, nell'ipotesi di un accordo tra A e B per far figurare come realmente avvenute operazioni in realtà inesistenti, la cosa non cambia imbastendoci sopra un negozio giuridico formalmente ineccepibile. Se A vuole far figurare costi mai sostenuti, inventandosi che B si è occupato a titolo oneroso della pulizia dei locali della sua sede, ben potrebbe nascondere la frode conservando tra la propria documentazione fiscale sia le fatture che un falso contratto stipulato con l'impresa di pulizie: quel che conta non è che esista la conseguenza giuridica del contratto, vale a dire il diritto di A ad ottenere quella prestazione da B, ma il fatto materiale - rilevando appunto l'operazione economica, non l'eventuale negozio a quella sotteso - che la prestazione vi sia stata davvero” (Cass. Pen., sez. III, 16 gennaio 2013, Mainardi, n. 36859).
La giurisprudenza è andata ben oltre l'affermazione di una penale rilevanza di tali ipotesi, qualificando come penalmente rilevanti anche situazioni in cui da un lato sicuramente le prestazioni contrattuali erano state effettivamente poste in essere e dall'altro nella vicenda non era presente alcun indice di anomalia salvo la circostanza che l'intera vicenda – ed in particolare la partecipazione alla stessa di un soggetto diverso da quelli in capo ai quali si producevano gli effetti economici e reali del contratto – era finalizzata ad ottenere un indebito risparmio di imposta. E' quanto sostenuto ad esempio in una sentenza relativa ad un “giro di diritti” su prodotti filmografici, allorquando la Cassazione pervenne ad un giudizio di fittizietà circa la operazioni documentate dalle fatture correnti fra la società acquirente finale dei diritti d'autore e le società per così dire “intermediarie” prescindendo dalla circostanza che la prima avesse o meno versato all'imprese venditrici il prezzo indicato nelle diverse fatture poi utilizzate in sede di dichiarazione dei redditi per l'abbattimento del carico fiscale, ma valorizzando il dato probatorio della mancanza di alcuna giustificazione economica delle varie cessioni dei diritti sicché si riteneva che il passaggio dei royalty televisivi dalle majors alle società fittizie facenti capo all'acquirente finale avesse rappresentato una forma di interposizione fittizia destinata a aumentare i costi di acquisto dei diritti medesimi (Cass., sez. F., 1 agosto 2013, n. 35729). In tali ipotesi, dunque, la giurisprudenza fonda il giudizio sull'inesistenza di un'operazione contrattuale – e quindi sull'eventuale falsità penalmente rilevante della documentazione che la attesta – non sulla ritenuta ineffettività dello svolgimento delle prestazioni contrattuali ma in ragione della presenza o della mancanza di valide ragioni economiche a fondamento dell'agire dei diversi imprenditori: come in sede tributaria i negozi giuridici privi di ogni razionalità, inidonei ad arrecare alcun incremento alla produttività dell'impresa ma diretti esclusivamente a ottenere un risparmio d'imposta sono inopponibili nei loro effetti in termini di abbattimento dell'imposta dovuta all'Amministrazione finanziaria, secondo la Cassazione anche in sede penale deve ritenersi che la realtà materiale asseritamente sottostante a tali negozi sia inesistente con la conseguenza che la stipula di contratti privi di ogni ragionevolezza e sostanzialmente incomprensibili in una normale logica di mercato integra gli estremi dei delitti di cui agli artt. 2 ed 8 d.lg. n. 74 del 2000.
Da queste affermazioni della giurisprudenza deriva, dunque, che una società che ponga in essere frequenti e significative operazioni infragruppo (specialmente se) aventi ad oggetto la cessione di diritti e beni immateriali (la cui circolazione giuridica si basa sulla mera efficacia traslativa del consenso e non richiede l'adozione di comportamenti materiali come il trasporto del bene fisico da un luogo ad un altro) deve prevedere nel modello organizzativo che di tali operazioni infragruppo venga illustrata la necessità, la rilevanza e ragione economica, le ricadute sul piano fiscale, ecc..
I rischi per le società ed i possibili rimedi. B) L'art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 ed il possibile “doppio volto” della doppia fatturazione
Ulteriori problemi si pongono, nella relazione fra illeciti tributari e responsabilità da reato dagli enti collettivi, in ragione della previsione di cui all'art. 8, comma 1 lett. a) d.lgs. n. 231 del 2001, ai sensi del quale “la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato”, la cui applicazione può essere assai dirompente con riferimento alle tematiche che stiamo affrontando.
La ratio del citato art. 8 è facilmente ricostruibile ed anche condivisibile. La disciplina in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche nasce in ragione della conseguita consapevolezza – raggiunta anche grazie se non soprattutto sulla spinta di istanze sovranazionali – della “‘partecipazione criminosa dell'ente agli illeciti di riferimento, anche considerato il sopravanzare sulle illegalità individuali di una diffusa e diffusiva illegalità dell'impresa, con contenuti motivazionali trascendenti gli scopi dei singoli individui e direttamente pertinenti il soggetto economico ‘impresa' e le sue autonome scelte di politica aziendale/imprenditoriale/finanziaria” (ROSSI, Note in prima lettura su responsabilità diretta degli enti ai sensi del d. lgs. 231 del 2001 ed autoriciclaggio: criticità, incertezze, illazioni ed azzardi esegetici, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10): è in effetti indiscutibile che alcune tipologie di illeciti, denominati genericamente come “reati di impresa”, pur se realizzati sotto il profilo dell'assunzione della condotta penalmente rilevante da una persona fisica, sono comunque intesi ad arrecare un vantaggio ad enti collettivi, all'interno dei quali il singolo responsabile dell'illecito si trova ad agire; di conseguenza, considerato che la commissione di un reato d'impresa non appare solitamente frutto di una scelta autonoma ed individuale del soggetto-persona fisica, ma risulta essere strumentale al raggiungimento di un obiettivo criminoso della societas, un'efficace politica criminale impone che accanto al reo venga in qualche modo sanzionato anche l'ente a vantaggio o nell'interesse del quale il primo delinque o delle cui strutture egli si avvale nel suo comportamento criminale.
Al contempo, tuttavia, al raggiungimento di questo obiettivo il più delle volte può risultare d'ostacolo la circostanza che - proprio perché il crimine matura all'interno di un ente collettivo, sulla base di deliberazioni e scelte ripartite fra più soggetti sulla base di una suddivisione di competenze decisionali - la definizione e l'individuazione della persona fisica effettivamente responsabile dell'illecito delittuoso presupposto della responsabilità aziendale non possa essere raggiunta – specie se si deve garantire il rispetto dei giustamente severi standard probatori del processo penale. Si pensi, ad esempio, al caso in cui, con riferimento a commesse pubbliche di significativo importo, si accerti che l'aggiudicazione delle stesse è avvenuta a seguito del pagamento di una tangente versata nell'interesse della società privata e poi aggiudicataria dell'appalto; al contempo, però, la rilevante dimensione dell'impresa corruttrice, la sua ramificazione sul territorio, il numero considerevole di dirigenti che si sono interessati della partecipazione alla gara, impediscono di attribuire con certezza ad alcuni di loro la conclusione dell'accordo corruttivo e l'effettuazione del pagamento illecito.
In circostanze come quelle sopra esemplificate si potrebbe pervenire alla conclusione – da più ritenuta ingiusta e comunque certo non rispondente alle finalità del decreto n. 231 del 2001 - in cui risulta acclarata la commissione di un illecito, così come del pari è certo che lo stesso sia stato realizzato nell'interesse di una persona giuridica la quale ha conseguito anche i benefici attesi, ma al contempo la mancata individuazione del singolo che ha posto in essere la condotta di reato impedisce ogni forma di sanzione (non solo nei confronti della persona fisica, il che è ovvio, ma anche) dell'ente collettivo. Proprio per evitare generale autonomia della responsabilità della società rispetto alle sorti della persona fisica: tale principio ha un ambito di applicazione assai ampio, operando ad esempio con riferimento alle cause di estinzione del reato diverse dall'amnistia nonché – per quanto di nostro interesse - anche nell'ipotesi in cui rimanga ignoto l'autore del reato presupposto della responsabilità dell'ente.
Se quelle sopra riferite sono le ragioni che stanno a fondamento della previsione di cui al citato art. 8, comma 1, lett. a), è però vero che da più parti si è sostenuto che si tratta di una norma priva di effettivi spazi di operatività e ciò in quanto – pur potendosi in astratto sostenere la plausibilità di una condanna dell'ente in mancanza della individuazione della persona fisica responsabile dell'illecito commesso nell'interesse della società – nella prassi una conclusione del genere non potrebbe mai trovare realizzazione e ciò proprio in considerazione delle modalità con cui il legislatore ha definito la responsabilità da reato dell'ente collettivo. Si pensi ad esempio alla necessità di definire il ruolo – apicale o subordinato – che la persona fisica colpevole dell'illecito riveste nell'organismo collettivo onde definire l'onere della prova circa la sussistenza della colpa organizzativa, l'incidenza causale dell'omessa vigilanza sulla condotta delittuosa e la possibilità di escludere l'inosservanza degli obblighi di vigilanza in caso di adozione ed attuazione del modello organizzativo – gestionale, la applicazione delle sanzioni interdittive - in quanto laddove il reato risulti commesso da persone soggette all'altrui direzione la grave misura punitiva può essere disposta solo se si dimostri che “la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative”, secondo quanto dispone l'art. 13, comma 1, lett. a) del decreto; si consideri ancora come dalla identificazione del reo possano “derivare conseguenze per la valutazione della gravità del fatto dell'ente, nell'ambito della quale gravità rientra anche il grado di colpevolezza dell'autore del reato” (VINCIGUERRA, La struttura dell'illecito,in VINCIGUERRA – CERESA GASTALDO –ROSSI, La responsabilità dell'ente per il reato commesso nel suo interesse, Padova 2004, 13, il quale, peraltro, sulla base delle considerazioni svolte nel testo critica, ritenendola sostanzialmente inapplicabile la previsione di cui all'art. 8 lett. a) che consente di sganciare la responsabilità dell'ente dall'identificazione dell'autore del reato, sostenendo che laddove il reo rimanga ignoto sia illusorio sperare di poter approdare comunque ad una condanna della persona giuridica).
Tutte queste considerazioni – che peraltro non hanno impedito di far ricorso alla disposizione in commento in una vicenda di non trascurabile rilevanza (cfr. Cass., sez. V, 10 novembre 2015 – ma depositata il 7 luglio 2016 -, n. 28229) - non sembrano destinate a valere con riferimento alla responsabilità dell'impresa collettiva per reati fiscali. Il problema ha ragione di porsi in particolare con riferimento al reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000.
Ricorrendo ad un esempio, che richiama una situazione tutt'altro che infrequente nella prassi, si pensi all'ipotesi in cui venga contestata ad una società di dimensioni non minimali il predetto delitto di cui al citato art. 2 per la riscontrata presenza, nella dichiarazione fiscale, di costi, documentati da fatture, inerenti operazioni in realtà mai poste in essere. In questo caso, è ben possibile che l'utilizzo delle fatture sia avvenuto da parte degli organi apicali senza sapere della loro falsità e ciò in quanto trattasi di costi riferiti ad attività ed a settori operativi che non rientrano nel suo diretto controllo: in sostanza, l'amministratore o comunque il titolare dell'impresa potrebbe sostenere di non saper nulla della vicenda e che quelle fatture sono state inserite in contabilità da chissà chi e magari nell'intento di giustificare sottrazioni di somme ai danni della società. Orbene, una tale difesa da parte dell'amministratore potrebbe essere efficace in sede di processo penale nei confronti della sua persona, ma non avrebbe rilievo nell'ambito del giudizio contro la società: da un lato, la previsione di cui al più volte citato art. 8 rende irrilevante la circostanza che non sia stato identificato, nell'ambito della struttura imprenditoriale, il soggetto responsabile della frode e dall'altro questa circostanza non rileva per la valutazione della sussistenza (se non dell'interesse, quanto meno) del vantaggio per la società, la quale senz'altro ha ottenuto un risparmio d'imposta in ragione dell'indicazione di costi non sostenuti. Quanto poi alla possibilità che l'utilizzo di false fatture sia stato finalizzato non all'evasione fiscale ma a giustificare illecite fuoriuscite di denaro ai danni della persona giuridica (circostanza difficile da dimostrare nella misura in cui si ignora chi sia il singolo responsabile del fatto), questa considerazione da un lato non esclude la sussistenza del delitto di cui all'art. 2 posto che secondo la giurisprudenza “in tema di reati tributari, il dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte, che concorre ad integrare il reato di cui all'art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extraevasiva non perseguita dall'agente in via esclusiva” (Cass., sez. VI, 13 ottobre 2016, n. 52321; Cass., sez. III, 19 febbraio 2015, n. 27112) e dall'altro in tali ipotesi troverebbe applicazione la previsione di cui all'art. 12 comma 1 lett. a) d.lg. n. 231/2001 che nel caso in cui l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente ne ha ricavato un vantaggio minimo prevede solo una attenuazione del trattamento sanzionatorio e certo non una esclusione della responsabilità.
Va detto tuttavia che una tale conclusione potrebbe forse essere quanto meno revocata in dubbio alla luce di quanto asserito dalla recentissima decisione della III sezione della Cassazione n. 3458 depositata il 28 gennaio 2020, la quale, nell'ambito di un procedimento di un amministratore di una società che aveva utilizzato, nella dichiarazione relativa all'impresa da lui gestita, fatture relative ad operazioni inesistenti, ha riconosciuto in capo alla società la legittimazione a costituirsi parte civile nei confronti del suo amministratore in ragione dei danni sopportati in conseguenza delle condotte dell'imputato e costituiti dalle somme dovute per sanzioni alla stessa inflitte in conseguenza delle condotte di evasione realizzate dal suo amministratore nonché dal danno alla propria immagine, per il discredito conseguente alla condanna del proprio legale rappresentante. La Cassazione in proposito afferma che le condotte di cui agli artt. 2 ed 8 d.lgs. n. 74 del 2000sono certo astrattamente produttive di danno, oltre che per l'Erario, anche per la società cui si riferisce la dichiarazione: nelle parole della decisione, “tali condotte, infatti, sono state certamente produttive di un danno patrimoniale per la società, con riferimento agli interessi e alle sanzioni correlati alla realizzazione degli illeciti, e anche, potenzialmente, di un danno alla immagine della medesima società, per il discredito che la stessa potrebbe aver ricevuto alla propria onorabilità e affidabilità in conseguenza della consumazione di tali reati da parte del proprio legale rappresentante. Quest'ultimo, non essendo stato neppure prospettato un consenso di tutti gli azionisti alla realizzazione delle condotte illecite, commettendole si è certamente reso inadempiente alle obbligazioni derivanti dal contratto di mandato in forza del quale ha agito in nome e per conto della società, avendo omesso di agire con la diligenza del buon padre di famiglia (richiesta dall'art. 1710, comma 1, c.c.), e, avendo realizzato un illecito le cui conseguenze sono ricadute sul patrimonio della società mandataria, è responsabile delle stesse anche a titolo extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., con la conseguente corretta affermazione della configurabilità di una sua responsabilità (sia da inadempimento sia aquiliana), la cui entità dovrà essere accertata nel giudizio avente quale oggetto la determinazione del danno conseguente a tali condotte”.
Qualora questa impostazione si consolidasse, per le società si potrebbero aprire alcuni spazi di difesa. Infatti, nel caso, sopra rappresentato, in cui l'utilizzo delle false fatture (pur se indubbiamente produttivo di un risparmio fiscale dell'impresa) sia stato principalmente funzionale a (nascondere) l'illecita sottrazione di risorse dal patrimonio dell'impresa, si potrebbe sostenere, specie quando sia escluso che la fattispecie di cui all'art. 2 d.lg. n. 74 del 2000 sia stata posta in essere dagli amministratori o comunque da soggetti apicali, che l'ente – pur se parzialmente avvantaggiato sotto il profilo del minor debito tributario – sia stato in realtà danneggiato dall'illecito, sia sotto il profilo dell'appropriazione di somme da parte del dipendente infedele sia con riferimento alle voci di danno considerate dalla citata decisione della Cassazione e relative alle somme dovute per sanzioni ed alla lesione della immagine della persona giuridica sopportata in conseguenza dello scandalo.
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Sommario
I rischi per le società ed i possibili rimedi. A) Le incertezze legate alle nozioni di fatture relative ad operazioni inesistenti e di dichiarazione fraudolenta
I rischi per le società ed i possibili rimedi. B) L'art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 ed il possibile “doppio volto” della doppia fatturazione