Conversione giudiziale dei contratti a termine e ambito di applicazione del nuovo regime di tutela dei licenziamenti previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015

Ilaria Dal Lago
29 Marzo 2020

Il nuovo regime di tutela dei licenziamenti di cui al d.lgs. n. 23 del 2015 non trova applicazione ai contratti di lavoro a termine stipulati prima del 7 marzo 2015...
Massima

Il nuovo regime di tutela dei licenziamenti di cui al d.lgs. 23/2015 non trova applicazione ai contratti di lavoro a termine stipulati prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del suddetto decreto) e convertiti giudizialmente in rapporti a tempo indeterminato dopo tale data, nei casi in cui la disposta conversione – in considerazione del tipo di vizio accertato – operi con effetto “ex tunc” e, pertanto, sin dall'illegittima stipulazione del contratto.

Il caso

Procedendo ad un'esposizione cronologica delle vicende che hanno condotto alla pronuncia di legittimità qui in esame, occorre prendere le mosse dalla serie reiterata di contratti a tempo determinato intercorsa tra il sig. D'Ippolito e la Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia. La Corte d'Appello di Roma, con sentenza n. 2685/2016, accertava l'illegittimità di tale reiterazione e, stante la nullità del termine apposto ai contratti, dichiarava la conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro.

Nelle more del predetto giudizio di conversione, il sig. D'Ippolito svolgeva attività lavorativa alle dipendenze del Ministero della Difesa. Ebbene, provvedendo a mettere in esecuzione la pronuncia d'appello e, pertanto, riassumendo in servizio il sig. D'Ippolito, la Fondazione contestava allo stesso di non aver dichiarato la contestuale esistenza di altro rapporto di lavoro subordinato e poneva tale circostanza alla base del licenziamento per giusta causa intimato in data 26 maggio 2016, a pochi giorni dalla riammissione.

Il lavoratore tornava pertanto ad adire le vie giudiziarie, impugnando il licenziamento con ricorso ex art. 1, quarantottesimo comma, L. 92 del 2012 (c.d. rito Fornero): all'esito della fase di reclamo, instaurata dalla Fondazione, la Corte d'Appello di Roma confermava l'ordinanza di rigetto dell'opposizione resa dal Tribunale capitolino e, previo accertamento dell'illegittimità del licenziamento, condannava il datore di lavoro alla reintegra, nonché al risarcimento del danno ex art. 18, comma 4, L. 300/70, così come novellato dalla L. 92/2012.

La Corte territoriale affrontava due ordini di questioni, l'una pregiudiziale all'altra: infatti, chiariva dapprima il regime applicabile al licenziamento in questione (art. 18 L. 300/70 novellato dalla L. 92/2012 ovvero d.lgs. 23/2015), per passare poi ad indagare la sussistenza o meno della giusta causa del recesso datoriale.

Per quel che qui rileva, escludendo dal campo di applicazione del d.lgs. 23/2015 le ipotesi di conversione del rapporto di lavoro temporaneo dichiarate per nullità del termine, con pronunce giudiziali successive all'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, la Corte distrettuale riteneva invece applicabile il regime di cui all'art. 18 della L. 300/70 e, pertanto, avvallato il ricorso al rito Fornero ed accertata l'insussistenza del fatto contestato, applicava la c.d. tutela reale attenuata di cui al comma 4 del medesimo articolo 18.

Per la cassazione della pronuncia proponeva ricorso la Fondazione datrice di lavoro contestando in primo luogo la statuizione concernente l'inapplicabilità al caso di specie della disciplina di cui al d.lgs. n. 23 del 2015. Il dipendente resisteva con controricorso. La S.C., con la sentenza in esame, ha rigettato il gravame e confermato la statuizione della Corte territoriale.

La questione

Si rende a questo punto necessaria una seppur rapida disamina del quadro normativo dal quale origina la quaestio iuris affrontata dalla pronuncia di legittimità in esame e riassumibile nei seguenti termini: l'

art. 1, secondo comma, del d.lgs. 23/2015

quali ipotesi di “conversione” dei contratti a tempo determinato ha inteso includere nel riformato regime di tutela dei licenziamenti?

Per comprendere appieno i termini della soluzione offerta dalla Suprema Corte a tale quesito, occorre innanzitutto ripercorrere le linee di tendenza che hanno ispirato gli interventi riformatori del diritto del lavoro, quantomeno nell'ultimo decennio: infatti, dapprima la

legge n. 92 del 2012

e successivamente il c.d. Jobs Act (

legge delega n. 183 del 2014

e successivi decreti legislativi di attuazione) mirano ad implementare nell'ordinamento italiano la c.d. flexicurity.

Tale strategia, di derivazione nordeuropea e “ratificata” dalle Istituzioni europee (in tal senso, si rimanda alla Comunicazione della Commissione europea del 27 giugno 2007 “Verso principi comuni di flexicurity: posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza”), propone sostanzialmente uno scambio tra minor protezione nel/del posto di lavoro e maggior protezione nel mercato del lavoro.

In altre parole, a fronte del potenziamento delle politiche sociali passive e, soprattutto, attive, utili a garantire un facile e rapido reimpiego del lavoratore, si attenuano le tutele in caso di licenziamento al fine di realizzare un maggior grado di flessibilità “in uscita”. Al contempo, le indicazioni di matrice europea suggeriscono una riduzione della flessibilità “in entrata”, al fine di ricomporre la frammentarietà delle tipologie contrattuali.

Ebbene, in relazione all'attenuazione della protezione del posto di lavoro, la

legge n. 92 del 2012

, con le modiche apportate all'

art. 18 della L. 300/70

, delinea una vera e propria articolazione delle tutele (dalla tutela reale forte alla tutela obbligatoria debole) in relazione alla motivazione del licenziamento ed al vizio che affligge lo stesso: pertanto, già nel 2012 le ipotesi tutelate mediante la reintegra conoscono un primo restringimento.

È con il Jobs Act che si realizza un intervento più deciso, tant'è che per denotare il nuovo regime di tutela dei licenziamenti, applicabile alle assunzioni intervenute a partire dal 7 marzo 2015, il legislatore rinomina il rapporto di lavoro a tempo indeterminato in “contratto a tutele crescenti”.

Per quel che qui rileva, come evidenziato sin dall'

art. 1, settimo comma, lett. c), L. 183/2014

, con tale intervento riformatore si determina la trasformazione, da regola ad eccezione, della tutela reintegratoria in favore della tutela indennitaria, che assurge, pertanto, a regola generale: viene esclusa per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, con la conseguente previsione di un indennizzo monetario certo e crescente in base all'anzianità di servizio e con la limitazione del diritto alla reintegra ai licenziamenti nulli, discriminatori ed a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.

Emerge ictu oculi la diversità della forma e del grado di tutela apprestata al lavoratore in caso di licenziamento dall'

art. 18 L. 300/70

, seppure nella versione attenuta dalla L. 92 del 2012, e dal

d.lgs. 23 del 2015

: ne deriva l'esigenza e l'impellenza per tutti gli operatori del diritto di individuare con precisione l'ambito di applicabilità del nuovo regime sanzionatorio.

Peraltro, tale esigenza permane anche all'indomani della pronuncia della Consulta n. 194 del 2018, che ha ridimensionato l'automatismo introdotto per la determinazione del risarcimento del danno da illegittimo licenziamento: infatti, la Corte costituzionale riaffida al Giudice il compito di graduare l'indennizzo risarcitorio (tra le sei e le trentasei mensilità), in considerazione non solo dell'anzianità di servizio, ma anche di altri criteri (e.g. condizioni delle parti, livelli occupazionali, dimensioni dell'impresa). Se da un lato tale pronuncia “riavvicina” la condizione degli assunti ante e post 7 marzo 2015, quantomeno in relazione ai criteri da considerare per la determinazione della tutela indennitaria, dall'altro permangono differenze significative tra il regime sanzionatorio dell'

art. 18 L. 300/70

(così come modificato dalla

L. 92/2012

) e quello del

d.lgs. 23/2015

, in primis con riferimento ai profili processuali dell'impugnativa del licenziamento: infatti,

ai recessi datoriali che ricadono sotto la disciplina del

d.lgs. 23 del 2015

non si applicano le diposizioni dei commi da 48 a 68 dell'

art. 1 della L. 92/2012

(ovverosia, non è ammesso il c.d. rito Fornero).

Pertanto, anche a seguito della citata pronuncia della Corte Costituzionale, l'importanza di delineare con precisione l'ambito di applicabilità del nuovo regime sanzionatorio dettato dal

d.lgs. 23 del 2015

rimane più che mai attuale.

Ebbene, il decreto legislativo in questione si occupa sin dal primo articolo di definire il relativo “campo di applicazione”: se il primo comma non pone particolari questioni interpretative, riferendosi ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri che vengano assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto (pertanto, dal 7 marzo 2015), maggiori e comprensibili perplessità sono sorte con riferimento alla previsione del secondo comma.

Infatti, ricadono nel nuovo regime di tutela dei licenziamenti anche i “casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato” (

art. 1, secondo comma, d.lgs. 23/2015

).

Sin da subito, la dottrina si è dimostrata critica rispetto all'utilizzo del termine “conversione”, temendo – a ragione – che lo stesso potesse dar adito alle interpretazioni più diversificate, con conseguente creazione di incertezza in relazione ad un profilo, quello dell'ambito di applicazione del nuovo regime di tutela dei licenziamenti, bisognoso invece di esatta definizione.

Numerosi autori hanno allora segnalato “l'improprietà” del termine utilizzato e qualcuno, spingendosi più in là, ha altresì avvertito l'esigenza di sgombrare il terreno da ogni possibile equivoco, rammentando come “il termine ‘conversione' lungi dall'assumere il significato tecnico di cui all'

art. 1424 c.c.

, è utilizzato quale sinonimo di trasformazione del rapporto di lavoro non standard in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato” (in tal senso, si rimanda a Squeglia M., Il campo di applicazione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in Carinci M.T., Tursi A., Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Torino: Giappichelli, 2015, p. 13).

Le soluzioni giuridiche

La giurisprudenza di merito si è divisa sull'interpretazione da attribuire al termine “conversione”, al fine di individuare le ipotesi da far eventualmente ricadere nel nuovo regime di tutela dei licenziamenti.

Provengono da tre Regioni differenti tre pronunce di merito che, tutte apprezzabilmente motivate, forniscono soluzioni diametralmente opposte tra loro alla questione che oggi ci impegna.

Dapprima il Tribunale di Parma, con la sentenza n. 383 del 18 febbraio 2018, ha ritenuto di dover limitare l'applicazione del d.lgs. 23/2015 alle sole ipotesi di “trasformazione volontaria” del contratto a tempo determinato, con conseguente esclusione delle conversioni disposte giudizialmente e con efficacia ex tunc; ponendo il secondo comma dell'art. 1 del d.lgs. 23/2015 in stretta correlazione con il criterio temporale delineato dal primo comma (assunti dal 7 marzo 2015), il Giudice del Lavoro ha ritenuto rilevante, al fine di determinare il regime applicabile, esclusivamente la data di costituzione del rapporto di lavoro (Trib. Parma 18 febbraio 2018, n. 383 in Lex24).

La valorizzazione del dato letterale ha invece condotto il Tribunale di Roma a limitare l'applicabilità del d.lgs. 23/2015 alle sole ipotesi di conversione giudiziale: con la pronuncia n. 75870 del 6 agosto 2018 il Giudice capitolino ha infatti ritenuto che il termine “conversione” di cui al secondo comma dell'art. 1 del d.lgs. 23/2015 denoti l'ipotesi civilistica di conversione del contratto nullo di cui all'art. 1424 c.c. (Trib. Roma 6 agosto 2018, n. 75870 in Lex24).

Infine, la pronuncia resa dal Tribunale di Napoli in data 27 giugno 2018 ha adottato l'ipotesi interpretativa più ampia in assoluto, ritenendo che nel nuovo regime di tutela dei licenziamenti debbano ricadere tanto le ipotesi di conversione negoziale quanto quelle di conversione giudiziale del contratto a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il Giudice napoletano sembra aver fondato tale esegesi sulla finalità socio-economica ispiratrice dell'intervento riformatore del 2014, ovverosia quella di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” (art. 1, settimo comma, d.lgs. 23/2015): considerato il più elevato grado di flessibilità garantito in uscita, il regime delineato dal d.lgs. n. 23/2015 viene, per così dire, qualificato come maggiormente “incoraggiante” per l'imprenditore e, pertanto, l'estensione di tale nuova disciplina a tutte le ipotesi di conversione dei contratti a termine permetterebbe di agevolare la prosecuzione dei rapporti di lavoro (in tal senso, si rimanda a Sartori M., Bulgarini d'Elci G., Tutele crescenti, licenziamento e contratto a termine: cambio di rotta, in Guida al Lavoro, 2019, n. 11, pp. 12-16).

Con la sentenza n. 823/2020, la Suprema Corte di Cassazione, evidentemente consapevole del variegato panorama interpretativo generatosi sulla questione, risulta analitica e puntuale nel chiarire il significato da attribuire al termine “conversione” di cui al secondo comma dell'art. 1, d.lgs. 23/2015.

Per giungere alla conclusione offerta, viene affrontato un duplice ordine di questioni.

In primo luogo, la Corte non si ferma al dato letterale del decreto legislativo, bensì pone in correlazione lo stesso con il contenuto e le finalità della legge delega.

In altre parole, al fine di scongiurare il configurarsi di un eccesso di delega da parte del secondo comma dell'art. 1, d.lgs. 23/2015, il Collegio ha fatto sapiente ricorso all'interpretazione sistematica, invitando a leggere il termine “conversione” alla luce delle “nuove assunzioni” di cui all'art. 1, settimo comma, L. 183/2014. Pertanto, il riformato regime di tutela dei licenziamenti trova applicazione se e nella misura in cui la conversione del rapporto a termine integri una nuova assunzione.

In secondo luogo, la Corte invita a ricercare un significato conforme alla lettera costituzionale, anche al fine di scongiurare nuovi ed ulteriori dubbi di violazione, da parte del d.lgs. 23/2015, del canone di uguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost..

Sulla scorta di queste due linee guida, i Giudici di legittimità – consapevoli delle notevoli implicazioni sottese all'applicabilità dell'uno o dell'altro regime di tutela dei licenziamenti – hanno scelto di essere esaustivi, non limitandosi ad indicare le fattispecie di conversione escluse dall'applicazione del d.lgs. 23/2015, ma elencando altresì le ipotesi sicuramente ricomprese.

Seguendo la classica distinzione tra conversione volontaria e giudiziale, la Corte non incontra difficoltà nel sostenere un'interpretazione in questo senso “estesa” del termine “conversione”, ritenendo che lo stesso non sia limitato al significato tecnico di cui all'art. 1424 c.c., ma debba essere altresì inteso come trasformazione negoziale e, pertanto, come “manifestazione di volontà delle parti successiva all'entrata in vigore del decreto, con effetto novativo”: proprio in considerazione di tale novazione, la “conversione volontaria” si configura quale nuova assunzione nel senso di cui alla legge delega.

Venendo alle ipotesi di conversione giudiziale, la Corte non le esclude in toto dall'ambito di applicazione del d.lgs. 23/2015, ma le “seleziona” sempre sulla base dei criteri precedentemente individuati, ovverosia la coerenza con la legge delega e la lettura costituzionalmente orientata al fine di evitare disparità di trattamento.

Ebbene, per individuare le ipotesi di conversione giudiziale ricomprese nel nuovo regime di tutela dei licenziamenti, occorre guardare al tipo di vizio che affligge il rapporto a termine, al momento in cui lo stesso si verifica ed alle conseguenze che a tale vizio il legislatore ricollega.

La prima ipotesi, quella che direttamente impegna il Collegio, concerne la “nullità della clausola appositiva del termine”, con riferimento a contratti a tempo determinato stipulati prima del 7 marzo 2015 e per i quali la “conversione” venga disposta (rectius, dichiarata) giudizialmente dopo tale data. Il vizio, oltre a concretizzarsi e consumarsi prima della vigenza del nuovo regime di cui al d.lgs. 23/2015, comporta la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dal momento di stipulazione del contratto a termine. Sul punto la pronuncia in esame riporta i chiarimenti già forniti dalla medesima Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con sentenza n. 8385 del 2019.

Conseguentemente, dovendo avere riguardo alle “nuove assunzioni” di cui alla legge delega, il lavoratore che ottenga una pronuncia meramente dichiarativa e ricognitiva di un rapporto di lavoro costituitosi a tempo indeterminato sin dalla stipula del contratto a termine e, pertanto, in data anteriore al 7 marzo 2015, non può certo qualificarsi come nuovo assunto e non ricadrà quindi nel regime di cui al d.lgs. 23/2015.

Tale soluzione consente altresì di evitare imbarazzanti disparità di trattamento, in quanto legare l'applicabilità o meno del nuovo regime esclusivamente al momento in cui venga pronunciata/dichiarata la conversione – oltre a porsi in contrasto con il senso e la finalità della sanzione irrogata – farebbe dipendere le sorti dei rapporti di lavoro dalla diversificata celerità processuale delle Corti territoriali.

Sulla base dei medesimi criteri, il Collegio si spinge ad esaminare altre tre ipotesi di conversione giudiziale, tutte accumunate dal fatto che il vizio del rapporto a termine si viene a consumare dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 23/2015 e l'effetto sanzionatorio che la legge ricollega allo stesso è costituito dalla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex nunc: è il caso della continuazione del rapporto oltre trenta/cinquanta giorni dalla scadenza del termine, quando tale scadenza si colloca dopo il 7 marzo 2015; è il caso della riassunzione a termine entro dieci/venti giorni dalla scadenza del primo contratto a tempo determinato, quando il secondo contratto venga stipulato dopo il 7 marzo 2015; è il caso, infine, del superamento dei trentasei mesi di durata complessiva del rapporto a termine, quando tale superamento si verifichi dopo il 7 marzo 2015.

In tutte queste ipotesi, il dies a quo della costituzione del rapporto a tempo indeterminato non coincide con la stipulazione del primo contratto a termine, bensì si colloca in un momento (la prosecuzione oltre la scadenza del termine, la stipula di un nuovo contratto a termine, il superamento dei trentasei mesi) successivo all'entrata in vigore del d.lgs. 23/2015: ricorrendo, pertanto, il requisito della nuova assunzione di cui al settimo comma dell'art. 1, L. 183/2014, potrà e dovrà trovare applicazione il nuovo regime di tutela dei licenziamenti di cui al d.lgs. 23/2015.

Osservazioni

L'interpretazione del termine “conversione” fornita dalla Corte di Cassazione per definire l'ambito di applicazione del d.lgs. 23/2015, oltre a ricomporre i contrasti sorti in seno alla giurisprudenza di merito, pare idonea a ricondurre a coerenza il nuovo regime di tutela dei licenziamenti con le finalità ultime del c.d. Jobs Act, ponendo necessariamente in correlazione la maggior flessibilità in uscita con ulteriori elementi “incentivanti” contemplati dall'intervento riformatore del 2014.

Ciò emerge laddove la pronuncia si preoccupa di rammentare come “in funzione incentivante di tali nuove assunzioni ‘al fine di promuovere forme di occupazione stabili', siano stati introdotti dalla legge di stabilità per l'anno 2015 sgravi contributivi, per un periodo massimo di trentasei mesi (art. 1, comma 118 l. 190/2014). Peraltro, anche per la conversione del contratto a termine viene dettata la medesima disciplina dell'esonero contributivo introdotto dalla legge di stabilità per l'anno 2015 (così come chiarito anche dalla Circolare Inps n. 17/2015), a riprova che la conversione a cui ha inteso riferirsi il secondo comma dell'art. 1, d.lgs. 23/2015, non può che essere quella equiparabile a tutti gli effetti ad una nuova assunzione.

Ebbene, un intervento riformatore teso a trasporre il modello della c.d. flexicurity nell'ordinamento nazionale non poteva non introdurre degli elementi “incentivanti”. Infatti, al fine di limitare la flessibilità in entrata ed incrementare quella in uscita, il legislatore doveva rendere maggiormente “appetibile” il rapporto di lavoro a tempo indeterminato: si comprende allora la previsione degli sgravi contributivi accanto al nuovo regime sanzionatorio (attenuato) dei licenziamenti illegittimi.

Nell'elargire tali incentivi e per evitare il dilagare indiscriminato degli stessi, non bisogna evidentemente perdere di vista la finalità ultima di questo complesso intervento riformatore, ovverosia quella di promuovere forme di occupazioni stabili e rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro. Ora, escludere l'applicabilità del nuovo regime di cui al d.lgs. 23/2015 alle conversioni giudiziali disposte per nullità del termine apposto a contratti stipulati prima del 7 marzo 2015 risulta evidentemente coerente con la ratio e la finalità della L. 183/2014 e del successivo decreto legislativo di attuazione: così facendo, infatti, si evita che un regime improntato alla logica incentivante e latu sensu “premiale” nei confronti chi si impegna a creare nuova occupazione stabile venga esteso a coloro che avrebbero dovuto creare quella stessa occupazione stabile molto tempo prima, ovverosia già al momento della stipulazione del contratto a tempo determinato per cui l'apposizione del termine è poi risultata illegittima.

Guida all'approfondimento

- Falasca G., Faragnoli D., Tutele crescenti tre anni dopo, un primo bilancio applicativo, in Guida al Lavoro, 2018, n. 13, pp. 24-27;

- Ricci G., La promozione dell'occupazione stabile tra contratto di lavoro a tutele crescenti e sgravi contributivi: le politiche ‘integrate' del lavoro nella riforma del governo Renzi, in Il Foro italiano, n. 5/2015, V, p. 234;

- Gamberini G., Pelusi L.M., Tiraboschi M., Contratto a tutele crescenti e nuova disciplina dei licenziamenti, in Tiraboschi M. (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act. Commento sistematico dei decreti legislativi nn. 22, 23, 80, 81, 148, 149, 150 e 151 del 2015 e delle norme di rilievo lavoristico della legge 28 dicembre 2015 (Legge di stabilità per il 2016), Milano: Giuffrè, 2016, pp. 25-29.

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