Fenomenologia degli accordi di ristrutturazione: ammessa la natura concorsuale

Giovanni Gerbini
26 Marzo 2020

A partire dal momento della sua introduzione con la l. n. 80/2005, l'istituto degli accordi di ristrutturazione ha costantemente acquisito elementi che lo rendono oggi affine al concordato preventivo e, dunque, deve qualificarsi al pari di quello come procedura sostanzialmente concorsuale. Ne deriva che, nel caso in cui all'accordo di ristrutturazione segua la dichiarazione di fallimento, potrà trovare applicazione l'art. 111,2 comma, L. Fall. con il conseguente riconoscimento della prededuzione alle spese sostenute dall'amministratore della società nella fase di esecuzione del piano di ristrutturazione.
Massima

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti hanno natura di procedura concorsuale, alla luce dell'evoluzione normativa dell'istituto che presenta plurimi elementi comuni al concordato preventivo.

La consecuzione tra procedure concorsuali va riconosciuta anche tra procedura di accordi di ristrutturazione e fallimento. I crediti sorti successivamente all'omologazione degli accordi e relativi all'esecuzione degli stessi, siccome funzionali alla procedura, sono assistiti dalla prededuzione.

Il recente provvedimento del Tribunale di Milano offre lo spunto per alcune riflessioni in relazione al vivace dibattito, sorto soprattutto negli ultimi anni, circa la natura concorsuale o meno degli accordi di ristrutturazione. La pronuncia è di assoluto interesse dato che, dopo anni di fedele attaccamento alla teoria privatistica dell'istituto (rectius, “procedura”), la Sezione fallimentare milanese, con motivazione davvero elaborata, cerca le ragioni che giustificherebbero, oggi, l'adesione ai più recenti indirizzi espressi in sede di legittimità.

Com'è noto, sulla questione si è abbondantemente spesa la migliore dottrina, e pare assai arduo scorgere nuovi profili di rilievo non ancora colti nella fitta letteratura che ha messo a fuoco la natura degli accordi ex art. 182-bis l. fall.. Piuttosto, può essere interessante allargare l'inquadratura del discorso, ampliare l'angolo visuale e tentare di cogliere verso quale direzione punti la bussola del diritto concorsuale. Ecco che, a ben vedere, la pronuncia del Tribunale di Milano costituisce un importante tassello che si colloca con perfetto incastro nel nuovo paradigma delle procedure di gestione della crisi d'impresa, che, a torto o a ragione, va via via delineandosi nel nostro ordinamento. Paradigma, questo, che più che modellarsi su basi di diritto, ci sembra semmai scolpito da istanze di natura politica, profilandosi in maniera ancor più evidente, non a caso, nella riforma attuata con il nuovo Codice della crisi.

Ma veniamo al punto.

Il caso

Con decreto del 4 dicembre 2019 il Tribunale di Milano è stato chiamato a decidere sulla qualificazione prededucibile o meno del credito derivante all'attività svolta dall'amministratore di una s.r.l. nell'ambito degli accordi di ristrutturazione sottoscritti dalla società successivamente dichiarata fallita. Il piano proposto ex art. 182 bis l. fall. contemplava la costituzione di un “fondo spese prededucibili” finalizzato a coprire tutti i costi della procedura, ossia quelli da sostenere in attesa dell'omologa e nell'esecuzione del programma di liquidazione volto al pagamento dei creditori. Nonostante l'omologa, il piano stentava tuttavia a soddisfare le aspettative di vendita, sicché la società rinunciava al viatico della ristrutturazione dei debiti, virando (prima verso un concordato, poi rinunciato, e quindi) in direzione della soluzione fallimentare con un'istanza presentata in proprio.

Aperta la nuova procedura (di fallimento), l'amministratore si insinuava al passivo chiedendo il pagamento in prededuzione del credito maturato a fronte dell'attività svolta dalla data di omologa del piano sino al fallimento, ma veniva escluso dal beneficio del riparto preferenziale sul presupposto della mancanza di continuità tra le procedure con la conseguente derubricazione al chirografo.

Formulata l'opposizione, il Collegio riformava la decisione assunta in prima istanza dal Giudice delegato, riconoscendo per la prima volta nella propria giurisprudenza la natura concorsuale degli accordi di ristrutturazione dei debiti e, per l'effetto, la prededucibilità ai sensi dell'art. 111, comma 2, L. fall. ai crediti sorti nel relativo contesto in caso di consecutio.

La questione

La pronuncia: sulla natura concorsuale

Per giungere a tale conclusione il Tribunale di Milano fonda il proprio ragionamento prendendo le mosse da una premessa tanto semplice quanto corretta. La Legge fallimentare in tema di accordi di ristrutturazione prevede espressamente una sola ipotesi di prededucibilità all'art. 182 quater, sicché all'infuori di tale norma, il riconoscimento della preferenza nel pagamento deve valutarsi in virtù dei parametri generali dell'art. 111, comma 2, l. fall., secondo “la disamina del legame di occasionalità o funzionalità della obbligazione rispetto alla procedura concorsuale che si sia risolta in modo infausto”.

Applicando il medesimo ragionamento, sino ad oggi orientato nel senso della dimensione prettamente privatistica degli accordi di ristrutturazione, il Tribunale di Milano aveva sempre escluso l'applicabilità delle norme sulla prededuzione all'istituto ex art. 182 bis L. fall. (Trib. Milano, 20 dicembre 2018, in Fallimento, 2019, 1333, con nota di C. Trentini). E ciò perché, aderendo alla tesi dominante, veniva affermato che nella procedura in questione: “i) difetta un provvedimento giudiziale di apertura; ii) è assente un organo deputato alla gestione della procedura; iii) non vi è concorso dei creditori né opera un rigoroso meccanismo di rispetto della par condicio; iv) non si verifica alcuno spossessamento del debitore; v) non vi è soluzione di continuità tra i crediti anteriori e posteriori”.

Tutto ciò viene riportato anche nella pronuncia in esame, ma ecco che, questa volta, il Collegio sterza drasticamente, aprendo ad una nuova lettura degli accordi di ristrutturazione: “è indubbio, infatti, che l'istituto dal primo momento in cui è stato delineato [...] è andato sviluppandosi e in questa fase accrescitiva, in cui si è disegnato sempre più precisamente, arricchendosi di contenuti, ha costantemente acquisito (assorbito) elementi che lo avvicinano al [...] concordato preventivo”. Tale richiamo è da riferirsi ai vari interventi normativi intervenuti sul tema, e segnatamente:

  • al d.lgs. n. 169/2007 che, allo scarno impianto allora vigente, ha aggiunto il divieto di azioni cautelari ed esecutive a far data dalla pubblicazione della domanda nel Registro delle imprese (il c.d. automatic stay, che legittima un accostamento ai pre-packaged agreements secondo il Chapter 11 statunitense. Si v. al riguardo L.G. Picone, La reorganization nel diritto fallimentare statunitense, in Giur. Comm., 1993, passim. Vale in ogni caso la pena di sottolineare che nell'impianto del Codice della crisi si è soppresso il c.d. automatic stay in favore della concessione di misure cautelari e protettive su richiesta del debitore), nonché il richiamo all'art. 168, 2 comma, l. fall. sull'interruzione delle prescrizioni ed il blocco delle decadenze;
  • al d.l. n. 78/2010, conv. in L. n. 122/2010, che ha esteso il blocco delle azioni cautelari ed esecutive anche alla fase delle trattative, vale a dire: prima della formalizzazione dell'accordo, a patto che l'imprenditore depositi – in buona sostanza – i documenti richiesti ai sensi dell'art. 161 l. fall.;
  • al d.l. n. 83/2012, conv. in L. n. 134/2012, che, da un lato, ha precisato come la relazione dell'attestatore, da nominarsi a cura dell'imprenditore, debba vertere sia sull'attuabilità dell'accordo che sulla veridicità dei dati aziendali; dall'altro lato, ha introdotto la moratoria del pagamento dei creditori estranei all'accordo, seppur entro il termine di 120 giorni dall'omologa o dalla scadenza dei crediti; dall'altro lato ancora, ha previsto il divieto di acquisizione di titoli di prelazione non concordati;
  • ma soprattutto all'ottavo comma, ult. periodo, della norma in esame (anch'esso inserito dal d.l. n. 83/2012), che, a detta del Tribunale di Milano, offre “il miglior argomento che illumina la riscontrata similitudine tra il 182 bis ed il concordato”, contemplandosi la possibilità (c.d. di switch) di passare da un'istanza per l'omologa di un accordo di ristrutturazione ad una (per l'omologa) di concordato preventivo nei termini assegnati ai sensi dei commi 6 e 7;
  • ed infine al D.L. n. 83/2015, conv. in L. n. 132/2015, che ha inserito l'art. 182-septies l. fall. e, con esso, la particolare figura dell'accordo di ristrutturazione “ad efficacia estesa” per gli intermediari finanziari (sull'argomento si rinvia a N. Nisivoccia, Il nuovo art. 182-septies l.fall.: quando e fin dove la legge può derogare a se stessa?, in Fallimento, 2015, 1181 ss.; F. Bonato, L'art. 182-septies l.fall. e l'accordo di ristrutturazione “a maggioranza”, in Fallimento, 2017, 881 ss.).

Per effetto di tali modifiche – sostiene il Tribunale milanese – sarebbero confluiti all'interno degli accordi ex art. 182-bis l. fall. elementi di contiguità con il concordato preventivo tali da poter legittimare una sostanziale affinità tra i due istituti e, dunque, la piena concorsualità di entrambi.

Secondo il Collegio, la propensione concorsuale degli accordi di ristrutturazione trova un'ulteriore conferma nell'impianto del Codice della crisi, laddove l'istituto è evidentemente ricostruito come alternativa a tutti gli effetti al concordato preventivo. Si vedano, in questo senso, l'ampliamento del c.d. accordo ad efficacia estesa a qualunque tipologia di creditore (e non solo a quelli finanziari; art. 61 c.c.i.), l'introduzione degli accordi di ristrutturazione agevolati – che, in assenza di moratoria e misure protettive temporanee, possono essere omologati con il voto pari al 30% dei crediti – e, persino, la possibilità che venga nominato un commissario giudiziale nella procedura.

Le soluzioni giuridiche

Segue: sulla consecutio tra accordi ex art. 182-bis e fallimento

Ma la pronuncia non è interessante solo per l'inaugurazione del nuovo orientamento milanese sulla natura degli accordi di ristrutturazione, ma anche perché ci si sofferma sull'ulteriore e conseguente questione della consecutio c.d. orizzontale. Il caso di specie, infatti, si caratterizzava per il susseguirsi di una procedura

ex

art. 182

bis

l. fall

., di una domanda di concordato (poi rinunciata) e, infine, della dichiarazione di fallimento: ed in quest'ultima sede il Giudice delegato escludeva la prededuzione a causa della ritenuta assenza di continuità tra le procedure.

Benché sul punto si sia ormai formato un indirizzo giurisprudenziale pacifico (a partire da

Cass. n. 8534/2013

), il tema della consecuzione è di recente tornato al vaglio della Cassazione, chiamata a pronunciarsi proprio sui riflessi che tale fenomeno produce in termini di prededuzione (

Cass. n. 15724/2019

). Ripercorrendone i contenuti, il Tribunale di Milano afferma che all'imprenditore dev'essere concessa la possibilità di comporre la crisi della propria impresa con tutte le modalità previste dall'ordinamento, anche attraverso il ricorso a più e diverse procedure concorsuali, posto che la finalità perseguita è sempre meritevole di tutela. Tale interpretazione, del resto, si basa anche sul dettato normativo dell'

art. 111, comma 2 l. fall

. (e riproposto dal

cci

all'art. 6)

che, parlando al plurale ed in generale di “procedure concorsuali”, legittima la prededucibilità anche nel caso di continuità tra sole procedure minori (

Cass. n. 10106/2019

e

Cass. n. 9087/2018

). Come a dire: quello che conta ai fini della consecutio non è il numero (o il tipo) di procedure che si susseguono, bensì il fatto che esse si pongano quali tentavi causalmente collegati di risanamento del medesimo fenomeno sostanziale di dissesto. Fungendo da elemento di congiunzione tra procedure distinte – prosegue il Collegio – la consecutio consente di traslare dall'una all'altra procedura la preferenza procedimentale in cui consiste la prededuzione”, che pure in quanto tale avrebbe effetto nel solo ambito in cui è maturata (a differenza del privilegio che ha carattere sostanziale), facendo sì che essa valga anche negli altri ambiti processuali volti alla composizione della stessa crisi.

Applicando tali principi al caso in esame, infine, il Tribunale di Milano sovverte la decisione del Giudice delegato e, accertata la sussistenza della continuità tra le procedure, riconosce al ricorrente il pagamento in prededuzione del proprio credito.

Osservazioni

La pronuncia in commento offre una breve panoramica sulla vexata quaestio della natura degli accordi di ristrutturazione, sulla quale il nuovo orientamento della Corte di Cassazione ha riacceso il dibattito a dispetto di una interpretazione assolutamente dominante in dottrina e, sino a poco fa, anche nella giurisprudenza di merito.

Gli argomenti espressi in favore della natura non-concorsuale degli accordi ex art. 182-bis l. fall. sono ampiamente noti (C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono una “procedura concorsuale”: la Cassazione completa il percorso, in Fallimento, 2018, 990, nota 16) e certamente ben strutturati, ma è innegabile che il legislatore – sia nazionale sia comunitario – abbia intrapreso già da qualche tempo un processo di restauro del diritto fallimentare, sempre più incline a sub-appaltare ai privati la gestione delle crisi di impresa. Il Regio decreto del '42 vedeva con evidente disfavore tutte le soluzioni atte ad eludere l'apertura della procedura fallimentare, allora percepita quale espressione del pubblico potere e suo esclusivo appannaggio, e rifletteva una vocazione punitiva ed espulsiva dal mercato per l'insolvente (sulla riforma delle procedure concorsuali, cfr. F. Lamanna, Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, Il civilista, Milano, 2019, vol. I); F. Di Marzio, Fallimento. Storia di un'idea, Milano, 2018, 5 ss.; cfr. anche La Magistratura, 19 ottobre 2005, 187). Preso atto della portata disincentivante di tale impostazione (perché induceva l'imprenditore a celare la propria crisi per evitare la procedura), con il tempo s'è assistito alla progressiva abrasione dei profili pubblicistici ed officiosi della materia in favore di sempre maggiori spazi concessi all'autonomia privata (A. Bonsignori, Il fallimento sempre più inattuale, in Dir. fall., 1996, 697 ss.. Sul punto si veda A. Nigro, “Privatizzazione” delle procedure concorsuali e ruolo delle banche, in Banca e borsa, 2006, 359 ss. e E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell'art. 182-bis L. Fall., in F. Vassalli-F.P. Luiso-E. Gabrielli (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, IV, Torino, 2014, 464 ss. e richiami ivi), evidentemente più funzionale al risanamento dei valori aziendali (E. Frascaroli Santi, La valorizzazione dell'autonomia privata: un obiettivo non ancora raggiunto nella prospettiva di riforma del diritto concorsuale italiano, in Dir. fall., 2002, 433 ss.) e dunque alla realizzazione della responsabilità patrimoniale, scopo ultimo della branca del diritto che ci occupa (lungimirante E.F. Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1997, 8 con rilievi di grande attualità, non a caso recuperati dalle previsioni legge delega della riforma e poi della bozza c.d. Rordorf; sul punto v. M. Sandulli-G. D'Attorre, Manuale delle procedure concorsuali, Torino, 2016, 2; C. Trentini, “Saturno contro”: sugli accordi di ristrutturazione dei debiti si rinfocola il contrasto tra legittimità e merito (e non solo), in Fallimento, 2019, 1344; N. Nisivoccia-A. Colnaghi, La responsabilità delle banche davanti alla crisi d'impresa, in www.ilFallimentarista.it, 15 ottobre 2019).

A quest'opera di “degiurisdizionalizzazione” non si sottrae neppure il legislatore contemporaneo. Dopo le riforme attuate a partire dal 2006, infatti, anche il nuovo Codice della crisi conferma la stessa linea politica: perché è di questo che si tratta in fin dei conti, di politica.

E possiamo dire anche di più: pure il nuovo indirizzo interpretativo inaugurato dalla Cassazione, più che dal diritto, pare a sua volta ispirato dalla politica (parla di operazione “ideologica” M. Arato, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti tra la giurisprudenza della Cassazione e il codice della crisi e dell'insolvenza, in Ilcaso.it, 9 ottobre 2018, 4). Non a caso, la sentenza che ha dato il via all'innovativo orientamento di legittimità (Cass. n. 9087/2018, cit., che per prima sviluppa il tema in maniera più estesa e si esprime nel senso di “procedura concorsuale” e non già di “istituto” concorsuale, terminologia invece assunta da Cass. 1182/2018 e Cass. n. 1896/2018) lungi dal disarticolare l'impianto argomentativo della tesi della non concorsualità dell'art. 182-bis l. fall., si limita più agevolmente a sancirne l'attuale inconferenza.

Cambiano le regole del gioco: l'approccio tradizionale, ancorato all'idea del necessario e costante coinvolgimento del giudice e del rigoroso rispetto della par condicio, non appare più giustificato alla luce della capillare “importazione di marcati profili di autonomia e negozialità in tutte le procedure concorsuali” (Cass n. 9087/2018, cit.). Così, l'inquadramento negoziale degli accordi non sarebbe nulla di più di un anacronismo (tale definito dalla Suprema Corte), retaggio di una sistematica inattuale che non convince più. La suggestiva immagine del nuovo paradigma delle procedure concorsuali proposta dalla Cassazione è quella di una struttura “a cerchi concentrici”, nella quale l'autonomia privata cresce man mano che ci si allontana dal nucleo centrale (il fallimento), fino all'orbita più esterna (gli accordi di ristrutturazione).

Ecco che “la cifra della moderna concorsualità” viene a ridursi a tre profili:

i) una qualsivoglia forma di interlocuzione con l'autorità giudiziaria volta a fini protettivi e di controllo;

ii) il coinvolgimento formale di tutti i creditori;

iii) una qualche forma di pubblicità. Così affermando, però, ci sembra che per raggiungere il proprio intento di ricondurre gli accordi di ristrutturazione nel perimetro delle procedure concorsuali, più che dimostrare la “concorsualità” degli accordi stessi, la pronuncia di legittimità abbia finito piuttosto per “deconcorsualizzare” tutte le altre procedure.

Si è così ridotta la “soglia della concorsualità”, come sostenuto in dottrina (M. Arato, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti tra la giurisprudenza della Cassazione e il codice della crisi e dell'insolvenza, cit., 4-5), il cui assetto tradizionale è stato svuotato di taluni elementi costitutivi tipici sì da poter definire concorsuali procedure che prima non lo erano.

Questo nuovo paradigma delle procedure concorsuali viene dalla Cassazione giustificato essenzialmente sulla base di due osservazioni: da un lato, la raggiunta affinità tra gli accordi di ristrutturazione ed il concordato preventivo, al punto di ritenerli biunivocamente interscambiabili in itinere; dall'altro lato, le tendenze evolutive del diritto comunitario che, nel Reg. Ue 2015/848, espressamente contempla come “concorsuale” la procedura di ristrutturazione dei debiti. Argomenti certamente apprezzabili, ma – a modesto parere di chi scrive – non del tutto convincenti. Così come non è risolutivo il rimando operato dalla stessa Suprema Corte (seppur con altra sentenza: Cass. n. 13850/2019) alla disciplina del Codice al fine di corroborare la concorsualità dell'art. 182-bis l. fall.: il riferimento è, in particolare, al Titolo IV laddove gli accordi vengono disciplinati assieme al concordato preventivo tra gli “Strumenti di regolazione della crisi”, per i quali il c.c.i. prevede un “Procedimento unitario per l'accesso [...]” all'art. 40. Se è innegabile, infatti, che la riforma del diritto fallimentare è destinata ad accentuare la propensione concorsuale degli accordi di ristrutturazione – ciò che è ammesso anche dagli stessi detrattori della tesi oggi promossa dalla Cassazione –, è tuttavia doveroso osservare che, proprio in quanto non ancora (pienamente) entrata in vigore, la nuova disciplina non possa valere quale criterio ermeneutico della legge di attuale governo. E neppure sembra efficace corroborare la tesi della concorsualità facendosi riferimento, in tema di effetti protettivi, all'esenzione da revocatoria: aspetto che, essendo previsto anche per i piani ex art. 67 L. fall., 3 comma, lett. d), l. fall., risulta tutt'altro che persuasivo.

La riflessione della Cassazione, insomma, è di per sé apprezzabile come sforzo argomentativo ma non convince pienamente in tutte le sue implicazioni giuridiche (“Lapidario” secondo M. Del Linz, La Cassazione fissa un punto fermo sulla vexata quaestio della natura giuridica degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis, in Dir. fall., 2019, 451, il quale tuttavia lo usa in senso diametralmente opposto a quanto si propone in questa sede). Ma attenzione: confutare la prova non vale a confutare l'affermazione (A. Schopenhauer, L'arte di ottenere ragione, edito Adelphi, Milano, 2006, XXX, 15), e difatti non condividere le ragioni esposte dalla Corte non necessariamente significa sostenere l'erroneità della soluzione raggiunta. Piuttosto, la preoccupazione è che tali argomenti (S. Bonfatti, I “cerchi concentrici” della concorsualità e la prededuzione dei crediti (“dentro o fuori”?) e Id., La natura giuridica dei “Piani Attestati di risanamento” e degli “Accordi di Ristrutturazione”, entrambi in Ilcaso.it, risp. 25 giugno e 31 gennaio 2018, 1 e 8), finiscano per essere tralatiziamente recepiti come un dato di fatto e riproposti come “verità preconfezionata” nella giurisprudenza di merito, perché tutto ciò rischierebbe di appiattire una pur possibile, ed in parte dovuta, rivisitazione in chiave contemporanea degli accordi di ristrutturazione e della loro natura giuridica. Salvo quanto detto sinora, infatti, occorre aver consapevolezza del divenire della realtà sociale ed economica nella quale ci muoviamo e nella quale, inevitabilmente, mutano anche i valori ed i principi che devono informare anche l'interprete, e non solo il legislatore. A titolo esemplificativo, si è detto di come da principio (ci riferiamo all'entrata in vigore della legge fallimentare) l'ordinamento fosse mal disposto all'idea che l'imprenditore in crisi potesse eludere con accordi privati il fallimento, sottraendosi così all'imperio dell'autorità giudiziaria; ma si è visto, poi, come le esigenze della disciplina della crisi di impresa siano cambiate, orientandosi, sotto il profilo giudiziario e processuale, verso la “degiurisdizionalizzazione” delle procedure e la valorizzazione dell'autonomia privata e, sotto il profilo sostanziale, nella messa in discussione dei tradizionali dogmi del diritto fallimentare. Si pensi, in questo senso, (i) all'evoluzione del giudizio e della considerazione del fallito, (ii) ai ripensamenti del principio della par condicio (A. Nigro, cit., 363 nel senso di “destrutturazione” del principio di parità di trattamento), (iii) all'individuazione di nuovi interessi, al fianco del soddisfacimento dei creditori, cui improntare la composizione della crisi (tra cui, ad esempio, la conservazione del valore dell'impresa e la continuità aziendale; si rinvia a F. Di Marzio, cit., passim; L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna, 2007, passim; E.F. Ricci, cit., 8); ovvero, ancora, (iv) alla riformulazione dei concetti della universalità e della esclusività della procedura: alla concorsualità, dunque, nell'insieme dei suoi profili mutevoli.

Va da sé, allora, che non si possa aprioristicamente rigettare l'idea di ridiscutere la natura degli accordi di cui all'art. 182-bis l. fall. (a maggior ragione, qui sì è lecito dirlo, alla luce della disciplina del Codice della crisi), di certo non mancando nella dottrina pronunciatasi in senso favorevole alla loro ricostruzione concorsuale argomenti e considerazioni (se non condivisibili, senz'altro) meritevoli di interesse (C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 988 ss. e Id., Saturno contro, cit., 1335 ss.; sulla universalità e sulla sussistenza del concorso anche E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione, 464 ss.; A. Bonsignori, Il fallimento delle società, in F. Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell'economia, Padova, 1986, 110 sul carattere del concorso nel senso della esclusività della procedura).

Si corre, dunque, verso una sempre maggior privatizzazione delle procedure concorsuali. Certo non una novità dell'ultimo momento, che però è ora espressamente elevata a principio guida dalla Direttiva Europea 2019/1023 del 20 giugno 2019 riguardante, tra le altre, le misure preventive di ristrutturazione (il Considerando n. 29 recita: “Fatta eccezione per i casi in cui la presente direttiva preveda la partecipazione obbligatoria delle autorità giudiziarie o amministrative, gli Stati membri dovrebbero poter limitare la partecipazione di tali autorità alle situazioni in cui essa sia necessaria e proporzionata [...]”).

Gli accordi di ristrutturazione nel Codice della crisi e dell'insolvenza

Nel solco di tale tendenza si pone anche il nuovo Codice della Crisi. Come si è in parte anticipato, con la Legge delega n. 155/2017 il legislatore si è riproposto di dotare l'ordinamento di una procedura di ristrutturazione alternativa, a tutti gli effetti, al concordato preventivo: è in questo senso che deve leggersi la scelta del Codice di prevedere modalità di accesso uniformi per le due soluzioni e di assimilarne la disciplina degli effetti protettivi. O meglio, queste almeno erano le intenzioni (desumibili dall'art. 5, comma 1, lett. c), della legge delega n. 155/2017): perché la nuova legge in parte disattende i principi ed i criteri direttivi impartiti dal legislatore delegante, restituendo un testo che ne rivela un'attuazione “a luci intermittenti” (N. Nisivoccia, La disciplina transitoria del codice della crisi, in IlFallimentarista, 10 luglio 2019, nonché Id., Il nuovo art 182 septies l.fall., cit. 1181 laddove, citando S. Beckett (“Fail again. Fail better”), si imputano le continue riforme del diritto fallimentare all'idea del legislatore che il problema risieda nelle norme; da lì, il continuo procedere per tentativi sul presupposto che a forza di aggiustamenti e di approssimazioni prima o poi la formula giusta sarebbe stata trovata), a metà tra quello che era e quello che si voleva fare (I. Pagni, Codice della crisi, cit., 1157; Id., L'accesso alle procedure di regolazione nel codice della crisi e dell'insolvenza e M. Montanari, Il cosiddetto procedimento unitario per l'accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza, entrambi in Fallimento, 2019, rispettivamente 549 e 563; A. Zorzi, Piani di risanamento e accordi di ristrutturazione nel codice della crisi, in Fallimento, 2019, 1000 evidenzia che nello schema di decreto del 2017 la concorsualità degli accordi era maggiormente accentata rispetto a quanto si ravvisi nel testo definitivo).

A cominciare dal fatto che, malgrado la formale previsione di un procedimento unitario, l'avvio dell'una e dell'altra procedura finiscono per correre su binari distinti (in questo senso I. Pagni, Codice della crisi, cit., 1166 rileva che “(i)l c.d. procedimento unitario si snoda [...] in più percorsi, a seconda che il debitore domandi l'accesso al concordato preventivo o all'omologazione dell'accordo di ristrutturazione”, e M. Montanari, cit., 569 di percorsi che si divaricano). Basta guardare all'art. 40c.c.i., intitolato “Domanda di accesso alla procedura”, nel quale si esordisce stabilendo alcune regole comuni a tutte le procedure (ristrutturazione ovviamente inclusa) e già a partire dal terzo comma gli accordi di ristrutturazione si sono persi per strada (il dato normativo ha portato I. Pagni, Codice della crisi, cit., 1159 ad esprimersi nel senso “di riunione dei procedimenti, più che vero e proprio “procedimento unico”). E una sorte simile tocca anche: all'art. 44 c.c.i. (“Accesso al concordato preventivo e al giudizio per l'omologazione degli accordi di ristrutturazione”), ove gli accordi vengono relegati negli ultimi commi, peraltro di scarso rilievo (eccezion fatta per la previsione della nomina del commissario giudiziale di cui al 4 comma, novità di grande interesse della nuova legge); nonché all'art. 48 c.c.i. (“Omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti”) dal quale sparisce – rispetto alla c.d. bozza Rordorf – la clausola che per l'omologazione degli accordi richiamava lo stesso procedimento previsto per il concordato, finendo così per delineare due itinera in sostanza distinti.

Quest'ultima norma, peraltro, pare esser destinata a creare qualche dubbio interpretativo sul delicato tema dei controlli esperibili da parte del Tribunale in merito alla fattibilità del piano, complice soprattutto la scarsa intellegibilità della disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 47 e 48 c.c.i.. Stando al dato letterale, ad una prima lettura ci sembrerebbe chiara la scelta del legislatore di sottrarre all'Autorità giudiziaria tale tipo di valutazione nell'ambito degli accordi di ristrutturazione, prevedendo al contrario che il Tribunale la effettui in sede di omologazione del concordato preventivo ai sensi del comma 3 dell'art. 48 . La constatazione si fa però meno evidente nel momento in cui ci si accorge che lo stesso tipo di controllo è previsto anche già in un momento anteriore, vale a dire in sede di apertura della procedura concordataria (art. 47). La ridondanza è certamente licenziabile come svista redazionale, ma potrebbe comunque indurre taluno a proporre letture divergenti. Così come, del resto, è già accaduto in dottrina (A. Zorzi, cit., 997. Cfr. I. Pagni, Codice della crisi, cit., 1169 che ritiene che, dovendosi interpretare l'art. 10.3 della Direttiva alla luce del Considerando n. 29, essa debba leggersi nel senso che l'omologa del concordato può essere rifiutata solo nei due casi enunciati (vale a dire: i) quando il piano non dia prospettiva di poter evitare l'insolvenza; ii) quando non garantisca la sostenibilità economica dell'impresa) e, dunque, confligga con la scelta di attribuire al Tribunale anche il controllo di fattibilità del concordato), laddove si è ritenuto che anche negli accordi di ristrutturazione ex art. 57 il Tribunale debba svolgere un controllo della fattibilità. Secondo questa tesi sarebbe lo stesso diritto comunitario ad imporre tale lettura, prevedendo l'art. 10, par. 3 della già citata direttiva n. 1023/2019 che “l'autorità giudiziaria o amministrativa debba poter avere la facoltà di rifiutare di omologare il piano di ristrutturazione che risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l'insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell'impresa”. Disamina, quest'ultima, che implicherebbe per l'appunto la possibilità di valutarne anche la fattibilità.

Tuttavia, se in merito agli accordi di ristrutturazione l'obiettivo dichiarato della riforma era la parificazione degli effetti protettivi a quelli del concordato, i maggiori rimpianti il legislatore delegante li deve sicuramente all'occasione persa con gli artt. 46 e 54c.c.i.. Le due norme, nella formulazione originaria del Codice (si vedano gli artt. 50 e 58 della c.d. bozza Rordorf), stabilivano infatti un regime unitario degli effetti prodotti dalla presentazione della domanda, tanto di concordato quanto di accordi, e segnatamente delle misure protettive poste a presidio della garanzia patrimoniale generica per il buon esito delle procedure. In particolare si prevedeva che: i) dopo il deposito della domanda e sino all'omologa, il debitore potesse compiere atti urgenti di straordinaria amministrazione solo con l'autorizzazione del tribunale; ii) i crediti sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore fossero prededucibili; iii) le ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti fossero inefficaci rispetto ai creditori anteriori; iv) il tribunale potesse emettere provvedimenti di natura cautelare; v) su richiesta del debitore o di terzi interessati, inclusi i creditori, il tribunale potesse disporre il divieto di azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore; vi) che i creditori, contemporaneamente, non potessero acquisire titoli di prelazione (se non concordati).

Ebbene, non solo il proposito è rimasto incompiuto, ma il regime protettivo degli accordi risulta addirittura deteriore rispetto alla legge fallimentare. Infatti, causa la nuova formulazione degli artt. 46, ora limitato al solo concordato preventivo, e 54 c.c.i., da ultimo ridimensionato, ora in tema di accordi di ristrutturazione il nuovo Codice della crisi nulla dispone in merito:

i) agli atti di straordinaria amministrazione compiuti dal debitore dopo la presentazione della domanda;

ii) alla prededucibilità dei crediti per gli atti legalmente compiuti dal debitore;

iii) alla inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti;

iv) ma soprattutto – ed è in ciò che la nuova disciplina addirittura regredisce rispetto alla vigente – al divieto per i terzi di acquisire diritti di prelazione opponibili ai creditori concorrenti.

In merito a quest'ultima lacuna è tuttavia possibile porre rimedio alla svista del legislatore delegato, ricordando in particolare che nella bozza Rordorf (art. 2) tra le misure protettive veniva espressamente contemplato proprio il “divieto per i creditori di acquisire titoli di prelazione se non concordati”. A parere di chi scrive si può dunque affermare che, benché non riproposto nel testo definitivo del Codice della crisi (G. Bozza, Protezione del patrimonio negli accordi e nei concordati, in Ilcaso.it, 18 marzo 2019, 7, nt. 6 afferma che la mancata riproposizione (tra le altre, per quanto qui interessa) del divieto di acquisire titoli di prelazione “non è significativa di un cambiamento di rotta, ma soltanto della superfluità della esposizione rientrando essa nel concetto generale espresso nella parte che è rimasta”), il suddetto divieto continui comunque a vigere anche nella nuova disciplina quale misura di protezione atipica di cui all'art. 54 c.c.i. (cfr. sul punto A. Zorzi, cit., 1000, secondo cui l'art. 54 c.c.i., al contrario, non lascia spazio a misure atipiche, pur ipotizzando l'A. che per recuperare tale protezione si può valorizzare l'orientamento nel senso della fungibilità funzionale tra misure cautelari e protettive); soluzione che peraltro dovrebbe trovare conforto nelle intenzioni perseguite dalla riforma. Ed ancorché in dottrina si sia ritenuto tale divieto di poco conto, in quanto asseritamente eludibile con accordo tra l'imprenditore ed il creditore favorito, ci sembra di dover evidenziare che un'intesa tra loro due soltanto non sarebbe sufficiente, posto che in ogni caso il piano dev'essere votato dalla maggioranza di tutti i creditori concorrenti, che dovranno quindi accettare anche la prelazione preferenziale (Trib. Milano, 4 dicembre 2019. In questo senso si condivide quanto affermato da E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione, cit., 476, cioè che “quello che non è consentito è che alcuni creditori possano ottenere rispetto ad altri un vantaggi che non sia stato espressamente convenuto con tutti i creditori aderenti”). Né è possibile condividere l'ulteriore considerazione secondo cui, più in generale, gli effetti protettivi (in particolare il divieto di azioni esecutive) che scaturiscono dalla domanda di omologa siano inutili, ciò che è stato affermato sul presupposto che il debitore non avrebbe da chi proteggersi: non dai creditori estranei che vengono soddisfatti integralmente e neppure da quelli aderenti che sono in ogni caso vincolati dalla proposta. La tesi non è fondata, poiché i creditori non aderenti potrebbero in ogni caso agire in quanto contrari alle eventuali moratorie permesse dal piano, ovvero perché vincolati ad un piano non gradito nelle ipotesi previste all'art. 182 septies¸l. fall. – ora esteso a tutti i tipi di creditori con l'art. 61 c.c.i..

Riflessioni conclusive

A seguito della pronuncia del 4 dicembre 2019 del Tribunale di Milano, possiamo dire “conquistata” una delle ultimissime “roccaforti” della teoria privatistica degli accordi di ristrutturazione. L'orientamento della tesi concorsuale, oramai sedimentato (ora sì) nella giurisprudenza di legittimità (come sosteneva già Cass. n. 9087/2018, cit., con un'esagerazione definita tale anche dalla stessa dottrina che aderisce alla lettura proposta dalla Corte: C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 988), sembra destinato ad esser accolto tout court anche nelle sedi di merito, con tutto quel che ne deriva sul piano pratico: dalla preclusione per le banche e gli intermediari finanziari di avvalersi dell'art. 182-bis l. fall. (prossimo art. 57 c.c.i.), alle implicazioni in termini di politica giudiziaria (per cui dovrà darsi priorità di trattazione alle cause in cui sia parte una impresa in accordi di ristrutturazione).

Ad ogni buon conto, è immaginabile che il dibattito sulla disciplina degli accordi di ristrutturazione sia ben distante dall'assopirsi. Innanzitutto, perché il nuovo Codice della crisi non prende posizione espressa in favore della natura concorsuale degli accordi. Anzi, in taluni casi il legislatore delegato finisce persino per fornire assist preziosi ai sostenitori della teoria privatistica: si veda a tal proposito l'art. 47 c.c.i., dal quale è stata espunta la previsione secondo cui “(d)opo il deposito dell'accordo di ristrutturazione, il tribunale, verificate le condizioni di cui all'articolo 61 (vale a dire le condizioni di ammissibilità dell'accordo), fissa con decreto l'udienza per l'omologazione” (originario 3 comma dell'art. 51 della bozza Rordorf). La disposizione, pensata nell'ottica di una regolazione unitaria della “Apertura del concordato preventivo e del giudizio di omologazione dell'accordo di ristrutturazione” (così era rubricato nella formulazione precedente), sarebbe infatti valsa ad introdurre anche per gli accordi di ristrutturazione un autentico e formalizzato provvedimento di apertura (in questi termini M. Montanari, cit., 566), elemento la cui mancanza nell'art. 182 bis l. fall. è sempre stata enfatizzata al fine di escludere la natura concorsuale degli accordi (Trib. Milano, 20 dicembre 2018, cit.; App. Napoli, 26 luglio 2017, in Fallimento, 2018, 345, con nota di I.L. Nocera). Ora che è venuta meno l'ipotesi di fissare precisamente il momento di apertura della procedura di ristrutturazione, è lecito pensare che l'orientamento negazionista continuerà a rimarcarne l'assenza quale indice di differenziazione rispetto al concordato preventivo e quindi come controprova della relativa dimensione puramente privatistica.

Ad ogni modo, anche nel caso in cui si raggiungesse un'unità di vedute in merito alla natura della procedura negoziata di ristrutturazione della crisi, rimarrebbero comunque molti nodi irrisolti circa la relativa disciplina applicabile. Primo tra tutti, quello relativo all'inadempimento del piano di ristrutturazione, campo nel quale sino ad oggi dottrina e giurisprudenza hanno concordemente negato la possibilità di ricorrere alle norme speciali sulla risoluzione e sull'annullamento del concordato, in favore delle regole generali ex artt. 1453 ss. c.c., soprattutto in ragione della natura non concorsuale dell'istituto (C. Trentini, Sub art. 182-bis, in G. Lo Cascio (diretto da), Codice commentato del fallimento, Milano, 2017, 2425; P.P. Ferraro, Accordo di ristrutturazione dei debiti omologato e fallimento successivo, in Dir. fall., 2016, 1611 e richiami in nota 8; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2015, 360 ss., il quale distingue tra i creditori aderenti e quelli estranei; V. Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, 617; G. Fauceglia-N. Rocco di Torrepadula, Diritto dell'impresa in crisi, Bologna, 2010, 357. V. anche E. Frascaroli Santi, Sub art. 182 bis, in A. Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013, 1259; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 1062; M. Sciuto, Effetti legali e effetti negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, Riv. dir. civ. 2009, I, 358; E. Capobianco, Le patologie degli accordi di ristrutturazione, in Dir. fall., 2013, 202. Contra, tra gli altri, P. Valensise, Sub art. 182 bis, in A. Nigro-M. Sandulli-V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, III, Torino, 2010, 2307).

Non sono tuttavia mancate pronunce giurisprudenziali – pur isolate – che, prendendo le mosse dalla natura concorsuale degli accordi ex art. 182 bis l. fall., si sono espresse in senso favorevole all'applicabilità in via analogica dell'art. 186 l. fall. (Trib. Napoli, 4 febbraio 2016, in Dir. fall., 2016, 1604, con nota di P.P. Ferraro. In senso contrario: App. Napoli, 26 luglio 2017, cit.; Trib. Terni, 4 luglio 2011, in Ilcaso.it.).

Sul punto il dibattito è certamente destinato a rinnovarsi dato che il Codice della Crisi mantiene inalterata la disciplina della legge fallimentare, continuando a regolare in maniera specifica la risoluzione e l'annullamento del solo concordato (artt. 119 e 120 c.c.i.), senza però nulla disporre in merito agli accordi. Appare comunque decisamente probabile che, nel solco del nuovo indirizzo segnato dalla Corte di Cassazione, quest'ultimo precedente, inizialmente isolato, favorevole all'applicazione mutatis mutandis delle norme sul concordato sia destinato a consolidarsi, sovvertendo così l'orientamento sino ad oggi dominante.

Insomma, neppure entrato in vigore e già il Codice della crisi lascia presagire il riproporsi di nuovi contrasti sulla figura eternamente dibattuta degli accordi di ristrutturazione, in merito ai quali forse neanche la recente decisione del Tribunale di Milano pare poter mettere la parola “fine”.

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