Il Codice della crisi e le insidie della continuità senza meritevolezza nel concordato preventivo (I)

03 Aprile 2020

Il presente articolo rappresenta la prima parte di una disamina rispetto le insidie della continuità senza meritevolezza nel concordato preventivo. La disciplina della procedure concorsuali è stata oggetto di numerose modifiche che hanno in particolare interessato l'istituto del concordato preventivo. In questa prima parte verranno disaminate la 'meritevolezza' quale requisito di ammissibilità del concordato preventivo, il ruolo del professionista indipendente, il ruolo del Commissario Giudiziale e gli atti in frode ed infine il ruolo del Pubblico Ministero. Seguirà una seconda puntata per ulteriori chiarimenti sul punto.
Premessa

Negli ultimi 15 anni la disciplina della procedure concorsuali è stata oggetto di numerose modifiche che hanno in particolare interessato l'istituto del concordato preventivo.

In particolare, la riforma concepita dal Decreto Legge 14 marzo 2004 n. 35 (Cd decreto sulla “competitività” convertito con Legge n. 80 del 14 maggio 2005), permeata dalla stessa filosofia liberale e marcatamente privatistica che determinò il depotenziamento del reato di falso in bilancio, ha inteso adattare le caratteristiche dell'istituto a finalità non più solo liquidatorie – e dunque identiche alla parallela procedura del fallimento – ma anche di conservazione e risanamento dell'impresa. Nel contempo, ha modificato le condizioni di accesso alla procedura in senso notevolmente estensivo, prevedendo che la stessa potesse essere utilizzata anche da imprese “in stato di crisi”, e dunque non solo insolventi, ed eliminando tutti i riferimenti alla sussistenza di requisiti soggettivi di accesso (il vecchio art. 160 della Legge Fallimentare prevedeva che la società proponente fosse iscritta da almeno due anni nel registro delle imprese, avesse tenuto regolarmente la contabilità, non avesse procedure concorsuali nel quinquennio precedente, che non vi fossero condanne per bancarotta, delitti contro il patrimonio, la fede pubblica, l'economia pubblica, l'industria o il commercio”) e il giudizio di meritevolezza di cui parleremo più avanti.

Su una procedura simile, di fatto privata di qualunque forma di sbarramento nei confronti di imprese gestite in maniera illecita, si è innestata nel 2012 la figura del concordato con continuità aziendale, disciplinato dall'art. 186-bis della legge fallimentare (introdotto dal decreto legislativo n. 83 del 2012).

Secondo il parere dei più autorevoli commentatori, nel nuovo codice della crisi il concordato con continuità aziendale – pur mantenendo nella sostanza le caratteristiche dell'attuale figura - diventa lo strumento privilegiato a disposizione dell'imprenditore per affrontare la crisi (o l'insolvenza) della propria impresa senza subire lo spossessamento della sua azienda – quel che accadrebbe nell'alternativa della liquidazione giudiziale - e potendo anzi continuare a gestire l'attività produttiva, sia pure sotto la sorveglianza del Commissario Giudiziale fino al termine dell'esecuzione del piano concordatario.

Può dirsi, in estrema sintesi, che la nuova disciplina sembra voler ampliare e supportare le potenzialità della procedura concordataria, e - in ciò accentuandone le differenze con la liquidazione giudiziale -, consentire la prosecuzione e il risanamento delle attività di impresa con benefici riflessi sui livelli occupazionali.

Faremo cenno, più avanti, alle norme che sono espressione di questo favor legislativo.

Basti per il momento segnalare che nel concordato in continuità non è previsto che la proponente si impegni a soddisfare i creditori in una percentuale minima prefissata, mentre, ai fini della ammissione ad un concordato liquidatorio, l'imprenditore deve impegnarsi non solo a garantire ai creditori almeno il 20% dei loro crediti, stessa percentuale prevista dalla attuale legge fallimentare (Vedi art. 160 ultimo comma L.F.In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il 20% dell'ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all'art. 186 bis”) ma anche ad apportare “risorse esterne in grado di incrementare la soddisfazione dei creditori di almeno il 10% rispetto alla alternativa della liquidazione giudiziale. (Vedi art. 84 comma 4 del codice della crisi di impresa e dell'insolvenza.)

Non è dubbio, pertanto, che il nuovo codice faccia propria ed esalti quella linea di pensiero, peraltro a certe condizioni condivisibile, che le procedure concorsuali non debbano esaurirsi in liquidazioni a controllo pubblico di beni, aventi come principio cardine la par condicio creditorum, ma possano perseguire anche interessi diversi, fra cui quello di consentire e favorire il risanamento delle imprese e la conservazione di attività produttive, sempre che tale soluzione risulti la migliore anche per i creditori.

È opportuno riflettere seriamente, tuttavia, sulla possibilità che una procedura di continuità aziendale ad accesso indiscriminato, deprivata cioè di ogni tipo di valutazione di meritevolezza rivolta alla pregressa vicenda imprenditoriale che ha condotto al dissesto (o alla crisi), sganciata così come in passato da uno scrutinio di tempestività – che nel nuovo codice, quale obiettivo di carattere generale, diventa presupposto di misure premiali ma non condizione di accesso al concordato – possa prestare il fianco ad utilizzi strumentali, come per lo più accade oggi nel vigore del citato art. 186-bis, e dunque incidere negativamente sulle dinamiche e sugli assetti del mercato.

Il rischio, infatti, è di dare continuità ad imprese (e imprenditori) che accedono alla procedura in condizioni di dissesto determinate, in tutto o in parte, dalla commissione di gravi reati e/o che hanno conquistato e mantenuto spazi di mercato mediante pratiche illecite ampiamente diffuse come il cd. autofinanziamento da evasione, ossia la omissione – talvolta ab initio, totale e sistematica – del versamento dei contributi e delle imposte, strategia in grado di alterare completamente i meccanismi della concorrenza, determinando l'eliminazione dal mercato delle aziende virtuose e rispettose delle regole.

Viene in mente, in proposito, la frase della giornalista americana Clare Boothe Luce: “Nessuna buona azione resta impunita”: si rischia che le imprese virtuose, penalizzate dalle condotte illecite dei competitors, che prevalgono nelle gare di appalto, rischiano di subire il danno e la beffa di vedere queste ultime tornare sul mercato con il placet di un Tribunale sgravate di una percentuale elevatissima dei debiti pregressi.

La meritevolezza perduta

Il rischio che la procedura concordataria in continuità possa diventare strumento di strategie illecite alto, in quanto, come già accennato, il legislatore ha espunto dalla normativa la cd. meritevolezza quale requisito di ammissibilità del concordato preventivo.

Fino alle modifiche intervenute nel 2005 il legislatore affidava al Tribunale, ex art. 181, comma 4, L.F., una valutazione di sintesi sulla meritevolezza dell'imprenditore che voleva accedere ai benefici del concordato, valutazione sganciata da parametri rigidi, ma da compiersi sulla base della verifica delle cause del dissesto e delle condotte di chi ha gestito l'impresa.

Il requisito della meritevolezza è stato talvolta percepito come “scomodo” e controproducente, soprattutto quando il concordato proposto fosse, o apparisse, conveniente per i creditori rispetto allo scenario fallimentare.

Forse per questo l'istituto nel suo complesso, e il requisito della meritevolezza in particolare, hanno generato alcune incertezze interpretative.

Nel corso degli anni si è messo in dubbio, ad esempio, che il giudizio di meritevolezza potesse essere basato sul rilievo di condotte illecite degli amministratori non avallate o ratificate ex post dall'assemblea dei soci (Vedi sul punto Trib. Firenze 21.3.1995 – Parfina Compagnia Italia Partecipazioni e Finanze s.r.l. che nel rifarsi al Cass. Sezioni Unite 6.9.1990, n. 9201, la quale affermava essere ricompresi nel giudizio di meritevolezza gli atti e i comportamenti degli amministratori imputabili alla società in virtù del rapporto organico, ebbe ad affermare che “Tale ultima espressione sembra riferirsi a comportamenti illeciti o quanto meno abnormi degli amministratori che abbiano avuto non solo incidenza sullo stato di dissesto della società in concordato, ma abbiano avuto l'avallo degli altri organi della stessa società”.); che potesse ricavarsi un giudizio di non meritevolezza dalla contestazione in sede penale di reati non ancora accertati con sentenza definitiva*; che quello richiesto dalla norma dovesse essere in realtà un giudizio di “meritevolezza economica” e dunque sovrapponibile, o comunque subordinato, alle valutazioni in ordine alla convenienza per i creditori del concordato proposto (Cfr. ancora Trib. Firenze 21.3.1995: “ne consegue che in rapporto alla meritevolezza appare prevalente l'interesse primario dei creditori, che hanno quale unico obbiettivo il maggiore realizzo delle attività e, conseguentemente, l'attribuzione della più alta percentuale possibile al di fuori degli schemi rigidi della procedura fallimentare che spesso non sono compatibili con la maggiore snellezza del concordato preventivo”).

*In evidenza
Vedi sul punto la citata Trib. Firenze 21.3.1995: “Sembra inoltre che il comportamento degli amministratori, se pure oggetto di azione penale in corso alla data di omologa per reati connessi alla loro attività, deve trovare riscontro in condanne penali definitive. La meritevolezza peraltro non può essere demandata alla valutazione sommaria di comportamenti o di scelte strategiche di politica aziendale o economica che non comporti una conseguenza penalmente rilevante e accertata (es: falso in bilancio, alterazione di scritture contabili ecc.)”.

Ciò nonostante la giurisprudenza della Cassazione, nel vigore delle norme ante riforma del 2005, ha avuto modo di riaffermare in materia alcuni principi particolarmente importanti nell'economia del nostro discorso:

  • il requisito della meritevolezza poteva essere escluso in conseguenza di comportamenti riprovevoli e scorretti degli amministratori, quali le accertate irregolarità contabili e di bilancio (Cass 12 dicembre 2005, n. 27379);
  • l fine della omologazione del concordato preventivo l'esistenza del requisito della meritevolezza andava verificata autonomamente e non subordinatamente all'esistenza del concorrente, ma non logicamente o cronologicamente prioritario, requisito della “convenienza” del concordato medesimo (Cass. 20 aprile 1990, n. 3305).

Credo sia oggi essenziale quanto sottolineato all'epoca da alcuni commentatori, ossia che il giudizio di meritevolezza era, al pari di quello sulla convenienza, a garanzia della tutela delle ragioni creditorie, che “in una procedura rimessa all'esclusiva iniziativa del debitore e caratterizzata, a differenza del fallimento, da uno spossessamento attenuato, sono oggetto di possibili lesioni”.

Si è detto, ancor più esplicitamente, che “una gestione pregressa scorretta, causa determinante dell'insolvenza, già lesiva degli interessi dei creditori, non potrà altro che aggravare lo stato di quelle aspettative (creditorie n.d.r.) durante una procedura che conserva all'imprenditore l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa pur sotto la vigilanza del commissario giudiziale e la direzione del giudice delegato”.

Credo che questa osservazione risulti estremamente attuale, e vale ancor più in una tipologia di concordato preventivo, quello “mediante la continuità aziendale” di cui agli artt. 84 e 85 del nuovo codice, in cui “i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale, diretta o indiretta” e in cui, dunque, la affidabilità, la correttezza oltre che la capacità dell'imprenditore sono cruciali per il miglior soddisfacimento dei creditori.

Ciò nonostante la nuova normativa, nel prevedere peraltro un procedimento unitario (Vedi Capo IV sezione II del codice della crisi di impresa e dell'insolvenza, artt. 40 e segg.) per l'accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza, in linea con le scelte legislative degli ultimi anni non ha inserito fra le condizioni di accesso a tale procedura alcuna forma di valutazione di meritevolezza.

Un tempo, ante riforma 2005, si diceva che il concordato preventivo fosse un “beneficioconcesso all'imprenditore onesto ma sfortunato. Oggi, verrebbe da dire, è un beneficio concesso a qualunque imprenditore, anche quello disonesto e furbo.

La parola “beneficio” riferita al concordato preventivo è peraltro caduta in disuso, come fosse solo l'altra faccia della meritevolezza. Quindi il beneficio per l'impresa resta – ed ha contenuto economico di grande rilevanza –, ma è accessibile, come vedremo, anche da società palesemente immeritevoli.

Si è già accennato al fatto che il nuovo codice individua la “tempestiva emersione della crisi” come fondamentale obbligo del debitore e come obiettivo generale, perseguito con l'introduzione di nuovi strumenti, primo fra tutti le “procedure di allerta e di composizione assistita della crisi” di cui al titolo II. E' quindi auspicabile che le nuove norme, spingendo l'imprenditore a farsi carico per tempo dello stato di crisi dell'impresa, portino ad un miglioramento complessivo dell'efficacia delle procedure concorsuali, elevando le percentuali medie di soddisfazione dei creditori, oggi a dir poco sconfortanti.

Resta da capire, tuttavia, se e in che misura le norme del nuovo codice consentano ai soggetti – pubblici e privati - coinvolti nella procedura di concordato preventivo in continuità aziendale di opporsi ad utilizzi chiaramente strumentali della stessa, con effetti lesivi e comunque perturbatori delle più elementari regole della concorrenza di mercato.

Il ruolo del professionista indipendente

Nessun compito è in tal senso attribuito dal nuovo codice al professionista “attestatore”.

L'art. 87, comma 2, così come l'attuale art. 161, comma 3, L.F., prevede che il piano concordatario sia accompagnato dalla relazione di un professionista, designato dal debitore, ma in possesso di precisi requisiti di indipendenza, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo.

Per quel che qui interessa, va detto che l'attestazione della fattibilità del piano si basa sull'analisi del patrimonio che la società possiede al momento della presentazione del concordato, e consta di valutazioni previsionali sulle possibilità che il piano possa concretamente realizzarsi nello sviluppo e con la tempistica ipotizzata.

Questo aspetto della attestazione non guarda dunque al passato e tanto meno all'eventuale sussistenza di pregresse condotte imprenditoriali illecite.

Più rilevante ai fini del nostro discorso è l'attestazione che il professionista deve fare sulla veridicità dei dati aziendali, perché non vi è dubbio che le anomalie contabili siano indizio, talvolta evidente, di operazioni imprenditoriali illecite e perché in sede di attestazione alcune poste di bilancio subiscono drastiche rettifiche di valore. Spesso, ad esempio, in nome della prudenza nella stima della effettiva consistenza dei valori patrimoniali offerti ai creditori, l'attestatore effettua svalutazioni di attivo di tale entità da rendere palese l'inattendibilità dei dati esposti dalla società nei bilanci degli anni precedenti.

Abbiamo visto che, prima della riforma del 2005, la giurisprudenza considerava le irregolarità contabili e di bilancio come possibile causa di immeritevolezza, e dunque base per una pronuncia di inammissibilità del concordato.

Nella normativa vigente, del pari, è causa di inammissibilità della proposta concordataria l'assenza di una attestazione, o una attestazione negativa, sulla veridicità dei dati aziendali (Vedi art. 162 comma 2 L.F. che prevede che in caso di verifica dei presupposti di cui all'art. 161, comprendenti la attestazione sulla fattibilità del piano e sulla veridicità del dati aziendali, il Tribunale dichiara l'inammissibilità della proposta).

Ecco perché diventa fondamentale capire di quali dati aziendali il professionista sia chiamato ad attestare la veridicità e se, per esempio, la falsità conclamata di una posta dell'ultimo bilancio depositato dalla società possa avere, ove rilevata dall'attestatore, un'incidenza esiziale sulla procedura in atto.

In linea generale, può dirsi che il giudizio di veridicità dell'attestatore riguarda i dati sui quali è costruito il piano. È opinione condivisa che l'attestatore non debba esprimere un giudizio sui bilanci precedenti, né sulla correttezza della gestione in tali esercizi. Non è compito dell'attestatore esprimere giudizi sull'esperibilità di eventuali azioni di responsabilità nei confronti degli organi amministrativi e di controllo della società, salvo che le stesse siano espressamente previste o menzionate dal piano. Non è compito infine dell'attestatore individuare atti distrattivi o depauperativi del patrimonio nel debitore.

Che il perimetro valutativo, in sede concordataria, coincida con i dati contabili esposti nel ricorso e nei suoi allegati si ricava anche dai limiti che la giurisprudenza civile impone al sindacato del Tribunale al quale : “non è consentito il controllo sulla regolarità ed attendibilità delle scritture contabili ma è permesso il sindacato sulla veridicità dei dati aziendali esposti nei documenti prodotti unitamente al ricorso, sotto il profilo della loro effettiva consistenza materiale e giuridica, al fine di consentire ai creditori di valutare, sulla base di dati reali, la convenienza della proposta e la stessa fattibilità del piano” (Cass. Civ. 31 gennaio 2014,n. 2130).

Le possibili censure del Tribunale, oggi, si concentrano sulle modalità con cui l'attestatore effettua il controllo sulla veridicità dei dati contabili posti a base del piano, rilevandone a volte la insufficienza (ad esempio la mancata effettuazione di una adeguata “circolarizzazione” nel caso che l'attivo offerto consista in crediti commerciali) o la contraddittorietà.

Ciò che è avvenuto prima, ossia le modalità con cui l'impresa proponente ha in passato rappresentato la propria situazione patrimoniale ed economica, o singole operazioni anche di natura straordinaria, rimane sullo sfondo e non incide sulle valutazioni del Tribunale inerenti l'ammissibilità del concordato.

Il nuovo codice sembra fare un ulteriore passo in avanti nel senso della irrilevanza di valutazioni inerenti la veridicità dei dati aziendali. Pur essendo infatti, ai sensi del richiamato art. 87, comma 2, tali valutazioni ancora richieste, nei limiti indicati, al professionista indipendente, il giudizio sull'ammissibilità del concordato sembra poterne prescindere.

Dice infatti l'art. 47, comma primo, che il Tribunale, “verificata la ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano”, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo. Al comma terzo, lo stesso art. 47 ribadisce che la dichiarazione di inammissibilità della proposta discende dall'accertamento in ordine alla mancanza “delle condizioni di ammissibilità e fattibilità di cui al comma 1”, in cui, come detto, più nessun cenno si fa alla veridicità dei dati contabili.

Al di là della pregnanza di questa asimmetria fra contenuto dell'attestazione e parametro valutativo del Tribunale, pare evidente che le norme del nuovo codice possano essere lette come comportanti una svalutazione della rilevanza dell'analisi del professionista, già oggi molto superficiale, sulla correttezza dell'impianto contabile della società che chiede di accedere al concordato preventivo.

Il ruolo del Commissario Giudiziale e gli atti in frode

Nel disegno del nuovo codice, il Commissario Giudiziale mantiene ovviamente sia la qualifica di pubblico ufficiale (Vedi art. 92 codice della crisi di impresa e dell'insolvenza) che l'attuale ruolo di principale collaboratore del giudice nella gestione della procedura concordataria. L'art. 44, comma primo, lett. b) prevede che “questi riferisca immediatamente al tribunale su ogni atto in frode ai creditori non dichiarato nella domanda ovvero su ogni circostanza o condotta del debitore tali da pregiudicare una soluzione efficace della crisi.”

Così come nella attuale legge fallimentare, il commissario giudiziale è dunque garante della correttezza delle informazioni che la società proponente offre ai creditori e all'organo giudicante; dopo, qualora la proposta di concordato sia stata votata dalla maggioranza dei creditori e si giunga quindi alla omologazione, vigila sulla corretta esecuzione del piano e sull'adempimento da parte della proponente delle obbligazioni assunte nell'ambito del medesimo ( Vedi art. 118 - Esecuzione del concordato -: “Dopo l'omologazione del concordato, il commissario giudiziale ne sorveglia l'adempimento, secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione”).

Il Commissario Giudiziale è anche il soggetto deputato a far emergere i profili di rilievo penale che eventualmente caratterizzino la vicenda imprenditoriale, in quanto è destinatario, ai sensi dell'art. 92. comma 5 – fedele riproduzione dell'art. 165, comma 5, della L. F. oggi in vigore - dell'obbligo di comunicare “senza ritardo al Pubblico Ministero i fatti che possono interessare ai fini delle indagini preliminari in sede penale e dei quali viene a conoscenza nello svolgimento delle sue funzioni.”

La legge dunque attribuisce al Commissario Giudiziale il compito di approfondire la vicenda societaria con modalità simili a quelle che, in passato, servivano a raccogliere gli elementi di conoscenza necessari per la formulazione di una valutazione di meritevolezza.

Ai sensi dell'art. 105, comma primo – anche in questo caso conforme al vigente art. 172 L.F. - è obbligo del suddetto, infatti, oltre a fare l'inventario dei beni del debitore, redigere una “relazione particolareggiata sulle cause del dissesto, precisando se l'impresa si trovi in stato di crisi o di insolvenza, sulla condotta del debitore, sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte ai creditori.”

Non è dubbio che la norma citata imponga al Commissario Giudiziale un viaggio conoscitivo nei meccanismi che hanno condotto alla crisi di impresa e dunque la possibilità, rectius il dovere, di capire fino a che punto il dissesto sia stato generato o anche solo aggravato da condotte imprenditoriali imprudenti, scorrette, illecite o addirittura criminali.

L'analisi della gestione passata dell'impresa ha, o dovrebbe avere, un'importanza fondamentale per creditori che, con il loro voto, devono decidere se affidare allo stesso imprenditore, che non li ha pagati a suo tempo, nell'ottica della continuità aziendale, le proprie istanze di recupero patrimoniale.

Per rendere ancora più stringente il compito del Commissario Giudiziale, il codice prevede (art. 105, comma 2) l'obbligo di “illustrare le utilità che in caso di fallimento, possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero essere promosse nei confronti di terzi.”

Tali azioni non possono che scaturire dalla individuazione, ad opera del Commissario Giudiziale, di operazioni o atti di gestione che hanno determinato un ingiustificato depauperamento del patrimonio sociale, e quindi un danno per la massa creditoria.

Credo si possa dire, sulla base del dato esperienziale, che le attuali relazioni ex art. 172 L.F. sono sul punto mediamente carenti e superficiali: i Commissari Giudiziali non si soffermano sulla ricostruzione delle pregresse vicende, facendo propria il più delle volte la rappresentazione delle cause della crisi contenuta nel piano concordatario e nella attestazione, e concentrano l'attenzione, invece, sulla descrizione e sulla valutazione del patrimonio residuo dell'impresa che è alla base delle previsioni del piano.

Tali carenze recano ovviamente danno alla possibilità, da parte dei creditori, di valutare adeguatamente lo scenario comparativo della liquidazione giudiziale – nel cui ambito il Curatore potrebbe attivare le azioni di cui sopra – e privano il Pubblico Ministero di un importante supporto conoscitivo per lo sviluppo delle indagini penali.

Né, a giustificare lo scarso scrupolo dei Commissari Giudiziali nell'indagine retrospettiva, può bastare la circostanza, talvolta ricorrente, che i soggetti destinatari delle possibili azioni recuperatorie, revocatorie e risarcitorie siano divenuti medio tempore incapienti e che dunque le azioni suddette possano non essere concretamente proficue per la massa dei creditori.

Va peraltro rilevato che è destinata a perpetuarsi l'ingiustificata asimmetria informativa già ricavabile dagli attuali artt. 33 e 172 della L.F.: infatti nel nuovo codice la trasmissione delle relazioni del Curatore nella liquidazione giudiziale è prevista dall'art. 130, comma 7, mentre l'art. 105, dedicato alla relazione del commissario giudiziale, nulla prevede sul punto.

Non è dubitabile, tuttavia, che la disciplina dell'accesso al concordato contenga, nel già riportato art. 44, un forte richiamo al Commissario Giudiziale ad interloquire immediatamente con il Tribunale laddove condotte fraudolente del debitore pongano a rischio il corretto e proficuo sviluppo della procedura.

È opportuno pertanto chiedersi, sulla base delle norme del nuovo codice, quale rilievo possa avere sull'ammissibilità del concordato, e comunque sul suo complesso iter, l'emersione di pregresse condotte imprenditoriali illecite.

Richiamando il concetto già espresso nella parte generale dall'art. 44 citato, nella normativa che disciplina specificamente il concordato preventivo (art. 106) il nuovo codice prevede che “Il commissario giudiziale, se accerta che il debitore ha occultato o dissimulato parte dell'attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività inesistenti o commesso altri atti di frode, deve riferirne immediatamente al Tribunale.” Da tale segnalazione, come previsto anche dall'attuale art. 173 L.F., può scaturire, su istanza del debitore o su richiesta del Pubblico Ministero, la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale (oggi ancora “fallimento”).

La condotte di occultamento di attivo, omessa denuncia di crediti ed esposizione di passività inesistenti sono legate al presente, ossia al comportamento della società proponente in costanza di procedura o, al più, nella fase di accesso alla stessa. Nella pacifica interpretazione corrente l'attivo oggetto di occultamento o dissimulazione è quello che ancora è nel patrimonio societario e non quello distratto in precedenza.

Ecco perché l'attenzione degli interpreti si è concentrata sul concetto di atto di frode, potendo tale generica locuzione ricomprendere in ipotesi ogni tipo di condotta fraudolenta pregressa che avesse determinato una lesione della garanzia patrimoniale dei creditori.

Nell'applicazione concreta e nella giurisprudenza civile ormai consolidata, tuttavia, si è andata affermando una nozione di atti in frode ben più ristretta, legata a filo doppio con il concetto di inganno dei debitori e dunque posta a presidio del meccanismo di formazione del c.d. consenso informato degli stessi.

L' atto di frode non è il fatto lesivo della garanzia patrimoniale dei creditori bensì l'occultamento di quel medesimo fatto, o la sua non compiuta o adeguata rappresentazione ai creditori, che dunque non possono in sede concordataria esercitare il proprio diritto di voto in maniera informata e consapevole.

Spiega sul punto una recente sentenza della Suprema Corte (Cass Civ. 26 giugno 2018, n. 16856): “si configurano come atti di frode le condotte del debitore idonee ad occultare situazioni di fatto suscettibili di influire sul giudizio dei creditori, ossia tali che, qualora conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e che siano state accertate dal commissario giudiziale, cioè da lui scoperte, essendo in precedenza ignorate dagli organi della procedura o dai creditori. Rientrano, peraltro, tra i fatti "accertati" dal commissario giudiziale, ai sensi dell'art. 173 L. fall., non solo quelli "scoperti" perchè prima del tutto ignoti nella loro materialità , ma anche quelli non adeguatamente e compiutamente esposti nella proposta concordataria e nei suoi allegati, i quali, ancorchè annotati nelle scritture contabili, rivelino una valenza decettiva per i creditori”.

Sul punto il nuovo codice non offre chiarimenti.

La dizione un pò maldestra dell'art. 44 citato, che invita il Commissario Giudiziale a riferire al Tribunale di “ogni atto di frode non dichiarato nella domanda”, sembra comunque un chiaro riferimento alla giurisprudenza formatasi nel vigore dell'attuale art. 173 L.F.

Dunque l'entrata in vigore delle nuove norme, verosimilmente, non potrà incidere sull' assetto interpretativo, ormai consolidato, secondo cui un fatto di bancarotta “confessato” nel piano, o quanto meno compiutamente descritto nella sua oggettività, e nelle sue conseguenze, non può mai essere considerato atto di frode e quindi non obbliga il commissario giudiziale alla comunicazione ex art. 106 al Tribunale, né legittima quest'ultimo a dichiarare l'apertura della liquidazione giudiziale.

Perché si profili un atto in frode, dunque, il Commissario Giudiziale deve “scoprire” un fatto che non sia stato rappresentato ai creditori (ancorchè annotato nelle scritture contabili) negli atti a loro destinati.

Ciò detto, pare evidente che le sorti di molti concordati dipendono dalla intraprendenza, capacità e onestà (intellettuale e non solo) dei Commissari Giudiziali, che peraltro, laddove svolgano con scrupolo la loro funzione, interrompono la procedura contro il loro interesse personale, posto che dalla prosecuzione della stessa derivano per loro compensi professionali di quasi certa riscossione in quanto qualificati ex lege come prededucibili (Vedi codice della crisi di impresa e dell'insolvenza nell'art. 6 lett. d)) e quindi pagati con precedenza rispetto anche ai creditori privilegiati.

Va inoltre tenuto conto del fatto che il commissario giudiziale lavora sui dati e sui documenti messi a disposizione da una società che è ancora nella mani dell'imprenditore, tutt'altro che interessato a far emergere operazioni illecite, e che il Commissario Giudiziale, per quanto pubblico ufficiale, non può contare su strumenti investigativi che gli consentano di andare oltre la mera verifica documentale. E' quindi reale il rischio che anche il più solerte dei Commissari Giudiziali non sia in grado di scoprire il fatto illecito, o di qualificarlo senza incertezze come tale.

Come detto, tuttavia, l'aspetto più problematico in linea di principio è proprio quello dei fatti gestionali illeciti – di natura documentale o patrimoniale - descritti nel piano e nell'attestazione.

La sentenza sopra citata aveva ad oggetto il caso del silenzio serbato nel piano concordatario su un'operazione di scissione che la società proponente aveva operato quando era già insolvente; operazione consistita nel conferimento di immobili ad una società controllata, le cui quote erano state successivamente cedute a terzi.

In quel caso la Cassazione ha confermato la pronuncia della corte territoriale che aveva riconosciuto in quel silenzio, per l'appunto, un atto in frode ai creditori.

È interessante chiedersi quale sarebbe stata la decisione se, in quel piano concordatario, l'operazione di scissione fosse stata descritta in modo asettico, oggettivo e completo. Di certo in quel caso la scissione, pur avendo determinato in sostanza l'azzeramento della garanzia patrimoniale dei creditori, ben difficilmente avrebbe potuto influire in senso negativo sulla prosecuzione del percorso concordatario.

E allora viene da domandare: una descrizione del fatto gestionale “oggettiva” e “asettica” potrebbe per ciò solo essere considerata “inadeguata”?

Può rinvenirsi l'inadeguatezza o la incompletezza della rappresentazione del fatto gestionale del nel tentativo della società, o del suo attestatore, di mascherare o non dichiarare apertamente le finalità illecite della operazione comunque compiutamente descritta?

In questi casi la risposta è sempre la stessa: bisogna valutare caso per caso.

Difficile tuttavia rinvenire una logica nella scelta di far dipendere la prosecuzione di un concordato preventivo, che talvolta tende a regolare situazioni economiche di rilevante spessore e coinvolge un numero elevatissimo di soggetti, dalla interpretazione di un concetto così labile e sfumato come “l'adeguatezza” della rappresentazione di un fatto gestionale.

Il ruolo del Pubblico Ministero

Sì sottolinea da parte di numerosi commentatori il ruolo nuovo e centrale che il Pubblico Ministero dovrebbe assumere nell'ambito delle procedure concorsuali, e non v'è che da associarsi all'auspicio che i magistrati degli Uffici di Procura possano fare quel salto culturale e professionale che consenta loro di partecipare con consapevolezza e perizia a decisioni e valutazioni estranee alla propria abituale sfera di competenza.

Alla luce di quanto evidenziato nei paragrafi precedenti, tuttavia, è evidente che il Pubblico Ministero possa vivere un disagio nella interlocuzione con i soggetti coinvolti nella procedura, e persino nei confronti del Tribunale, dovendo applicare una normativa che lascia uno spazio nullo o molto ridotto alla tutela di interessi più ampi, diversi dalla “migliore soddisfazione” dei creditori coinvolti e dall'esigenza di salvaguardare singole aziende e i relativi posti di lavoro, a tutela dei quali solitamente agisce soprattutto nello svolgimento delle sue funzioni penalistiche.

Quando il Pubblico Ministero si avvede in sede civile che la presentazione della domanda di concordato è stata preceduta da condotte imprenditoriali illecite e penalmente rilevanti, ha senza dubbio l'obbligo in sede penale di accertare ed eventualmente punire i reati commessi, configurabili come è noto anche in caso di concordato – non importa se liquidatorio o in continuità - grazie al richiamo alle fattispecie penali fallimentari contenuto nell'art. 341, comma secondo, del nuovo codice, fotocopia del vigente art. 236, comma 2, L.F.

I tempi di accertamento della giustizia penale sono però enormemente più lunghi dello spazio temporale in cui il Tribunale Fallimentare è chiamato a prendere le decisioni sulla crisi d'impresa, spesso più lunghi anche dell'arco temporale in cui il concordato, se omologato, deve avere esecuzione.

Dunque, di solito, l'interferenza fra il piano civile e quello penale riguarda l'applicazione, contestuale alle fasi dell'ammissione e dell'omologa del concordato, di eventuali misure cautelari che colpiscano la persona dell'imprenditore (misure cautelari personali) o i beni sociali (misure cautelari reali).

Difficilmente i provvedimenti cautelari personali possono influire sulle vicende concordatarie che prevedono la continuità aziendale, colpendo necessariamente la persona fisica dell'imprenditore e non la società che anzi, spesso, già accede al concordato con una management formalmente rinnovato.

Maggiore impatto possono avere le misure cautelari reali, in particolar modo i sequestri preventivi.

Quello della interferenza fra le procedure concorsuali e i sequestri penali e di prevenzione è uno dei temi più dibattuti, anche per il proliferare, nell'ultimo decennio, di nuove forme di sequestro finalizzato alla confisca di beni. Non a caso il nuovo codice della crisi ha dedicato il titolo VIII (artt. 317 – 321) ai rapporti fra “liquidazione giudiziale e misure cautelari penali”.

Peccato che il codice disciplini solo i sequestri che attingono beni di proprietà di una società in liquidazione giudiziale, mentre nulla dica con riferimento ai concordati preventivi.

Il fatto che la procedura concordataria non preveda lo spossessamento del debitore il quale, anzi, nel concordato in continuità continua a gestire la sua azienda, sia pure sotto la vigilanza del Commissario Giudiziale, legittima in linea di principio il permanere del vincolo penale anche nella forma del cd. sequestro impeditivo di cui all'art. 321, comma primo, c.p., che, invece, diventa inefficace* laddove abbia ad oggetto beni di una liquidazione giudiziale, dunque ormai nella disponibilità esclusiva del Curatore.

*In evidenza
Vedi norme del Titolo VIII – Liquidazione Giudiziale e misure cautelari penali – del codice della crisi di impresa e dell'insolenza e in particolare l'art. 318, comma primo: “In pendenza della procedura di liquidazione giudiziale non può essere disposto sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 comma 1 del codice di procedura penale sulle cose di cui all'art. 142 (beni del debitore) sempre che la loro fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione non costituisca reato e salvo che la loro fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione possono essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa.” e comma secondo: “Quando, disposto sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 comma 1 del codice di procedura penale, è dichiarata la apertura di liquidazione giudiziale sulle medesime cose, il giudice a richiesta del curatore, revoca il decreto di sequestro e dispone la restituzione delle cose in suo favore.”

In assenza di una regolazione specifica, laddove invece sia il piano concordatario a prevedere l'offerta ai creditori di beni sottoposti a sequestro penale, il Tribunale fallimentare non può che rilevare un problema di fattibilità del piano medesimo e pervenire, in assenza di modifiche della situazione giuridica degli asset, ad un giudizio di inammissibilità della domanda.

Ovviamente, l'incidenza di provvedimenti penali sulla evoluzione di procedure concordatarie è oggi fatto del tutto sporadico e per lo più legato ad attività investigative e ablative precedenti il deposito della domanda di concordato.

Tale incidenza è ancora più marginale per i concordati in continuità nei quali la società non offre beni attuali presenti nel suo patrimonio, ma i flussi economici della sua futura operatività. Spesso, peraltro, l'azienda di una società insolvente viene posta sotto sequestro penale in quanto passata illecitamente ad altro soggetto giuridico; ma nel concordato in continuità l'azienda è ancora nella proprietà della proponente (continuità cd. “diretta”), oppure è destinata ad essere gestita da altra società indicata nel piano (cd. continuità “indiretta”).

Spesso le società, prima di accedere al concordato e in funzione dello stesso, procedono ad affittare l'azienda ad altra società, il più delle volte espressione del medesimo gruppo imprenditoriale. Non può sottacersi che il piano concordatario in continuità indiretta viene, pertanto, ad assomigliare a quelle operazioni imprenditoriali che per anni sono state oggetto di imputazione e condanna in sede penale.

L'attivazione del Pubblico Ministero in sede penale, dunque, può avere come conseguenza l'interruzione dell'iter concordatario in casi sporadici e, per così dire, in situazioni “limite”.

I concordati vanno per lo più comunque avanti ed in essi il Pubblico Ministero recita un ruolo ancora non ben definito né dalle norme né dalle prassi, il cui unico, ma fondamentale, profilo necessario è il potere-dovere di presentare la richiesta di liquidazione giudiziale nei casi in cui la procedura concordataria si interrompa (Come ad esempio nel caso dell'art. 106, comma 3, o dell'art. 47, comma 3, del codice della crisi di impresa e dell'insolvenza), così da evitare che, in assenza di creditori attivi – spesso quelli pubblici non lo sono – una società insolvente possa tornare in bonis e riprendere a gestire liberamente il suo patrimonio residuo.

Il nuovo codice, pur prevedendo un ampliamento complessivo dei poteri del Pubblico Ministero di promuovere l'apertura della liquidazione giudiziale (art. 38 codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: “Il pubblico ministero presenta il ricorso per l'apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza. L'autorità giudiziaria che rileva l'insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al pubblico ministero), non attribuisce al medesimo nuovi compiti e nuove facoltà nell'ambito della procedura concordataria.

Nei grandi uffici, quelli dove è più elevato il tasso di specializzazione dei Sostituti che si occupano di economia, il Pubblico Ministero, cui comunque per legge (art. 161, comma 5, del R.D. n. 267/42 mentre lo stesso obbligo è previsto nel codice della crisi e dell'insolvenza dove l'art. 40, comma 3, prevede la trasmissione al Pubblico Ministero della domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza) il Tribunale deve trasmettere il piano di concordato e la sua attestazione, formula un parere sulla ammissibilità dello stesso e dunque porta un contributo al processo decisionale di competenza del Tribunale Fallimentare, esprimendo la propria opinione su tre questioni fondamentali:

a) se il concordato abbia un impianto logico e contabile degno di affidabilità, attestato in maniera approfondita e coerente;

b) se il concordato proposto possa garantire meglio del fallimento le ragioni creditorie;

c) se, conseguentemente, il concordato è degno di essere sottoposto al voto dei creditori.

Per quanto il Tribunale Fallimentare sia più esperto e competente del Pubblico Ministero nel valutare piani e attestazioni, non bisogna sottovalutare il fatto che quest'ultimo può essere a conoscenza di informazioni sulla vicenda societaria, derivanti da indagini pregresse o in corso, che il primo ignora.

Qualora le informazioni riguardino fatti gestionali che hanno depauperato il patrimonio sociale, è senz'altro nel dovere del Pubblico Ministero verificare se dei medesimi fatti la società abbia dato conto nella sua domanda di concordato, offrendoli alla valutazione del Tribunale, del Commissario Giudiziale e dei creditori, perché in caso contrario si evidenzierebbe, secondo la giurisprudenza già richiamata, un evidente atto in frode, motivo di interruzione della procedura concordataria.

Problematica probabilmente solo teorica è quella relativa alla legittimazione del Pubblico Ministero a segnalare l'atto in frode al Tribunale. Così come nella norma oggi in vigore (art. 173 L.F.), anche il nuovo codice (art. 106) contempla il solo Commissario Giudiziale come autore dell'accertamento e della segnalazione dell'atto in frode, risultando il Pubblico Ministero mero destinatario della sua comunicazione in ordine all' avvenuta segnalazione al Tribunale.

Con riferimento tuttavia all'attuale normativa la giurisprudenza (Vedi Cass. Civ. , n. 1169/2017) ha sottolineato in realtà che l'apertura della procedura di revoca dell'ammissione del concordato in presenza di atti in frode non prevede una “richiesta” del Commissario Giudiziale, ben potendo il Tribunale procedere d'ufficio, come specificato dal tenore letterale della norma in commento, sulla base degli elementi contenuti nelle relazioni del suddetto.

Appare pertanto del tutto ragionevole l'opinione dottrinaria (D. Galletti, La revoca dell'ammissione al concordato preventivo, in Giur. Comm, 2009, 730) secondo cui gli atti in frode - presupposto logico e fattuale dell'apertura della procedura ex art. 173 L.F. – potrebbero risultare anche da atti e memorie presentati al Tribunale dai creditori o dal Pubblico Ministero.

Tali segnalazioni, ovviamente, non avrebbero alcun effetto cogente verso il Tribunale, libero di valutare diversamente i fatti segnalati; costringerebbero però i giudici, in caso di mancata adozione della revoca, a una importante assunzione di responsabilità in ordine alla legittimità della prosecuzione della procedura.

Rimane da valutare se la scomparsa, dal nuovo art. 106 (rubricato: “Atti di frode e apertura della liquidazione giudiziale nel corso della procedura”) del nuovo codice, della specificazione che il Tribunale apre “di ufficio” la procedura possa portare ad interpretazioni diverse, fermo restando che la rappresentazione degli atti in frode da parte del Pubblico Ministero, sia oggi che nel vigore della norma che verrà, ben può essere effettuata con una comunicazione diretta al Commissario Giudiziale il quale, a quel punto, ben difficilmente potrà sottrarsi dall'obbligo di riferire immediatamente al Tribunale i fatti a lui segnalati dall'Ufficio di Procura.

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