Danno all'immagine e risarcimento. I limiti della Cassazione
06 Aprile 2020
Massima
Stabilire se un'espressione, uno scritto, un documento, siano effettivamente lesivi dell'onore e della reputazione altrui costituisce un accertamento in fatto da svolgersi tenendo conto di allegazioni e prova, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, della diffusione dello scritto, della rilevanza dell'offesa e della posizione sociale della vittima. La valutazione del danno morale va svolta con ragionamento inevitabilmente presuntivo, data l'impalpabilità del danno reputazionale. L'esercizio del diritto d'impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata in riferimento alle ragioni che la sorreggono, e da esse non possono prescindere. Il motivo che non rispetti tale requisito va considerato nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, con l'effetto di rendere inammissibile l'impugnazione. Il caso
Tizio e Caia erano stati condannati in primo grado a pagare a Sempronio € 10.000, a titolo di risarcimento del danno all'immagine, per avergli ascritto, in un articolo di giornale, il coinvolgimento in una lottizzazione caduta sotto sequestro. In particolare, Sempronio sarebbe stato indagato per abuso d'ufficio, in quanto responsabile della deturpazione e distruzione di bellezze naturali, nella qualità di direttore dei lavori. Accertato che costui era estraneo ai fatti che gli erano stati attribuiti, il Tribunale aveva dichiarato sussistente il danno all'immagine e gravato i convenuti del risarcimento. L'appello interposto dai condannati non aveva sortito effetto: la Corte aveva confermato la decisione, ritenendola incensurabile sia con riferimento all'an debeatur, sia con riferimento al quantum debeatur. Avverso la sentenza Tizio e Caia si sono rivolti alla Suprema Corte, con ricorso affidato ad un unico motivo, chiedendo la cassazione della decisione della Corte d'Appello. La richiesta di caducazione della condanna muove dalla rivendicazione di una piena innocenza fondata essenzialmente sulla mancata prova del danno da parte del resistente (già attore). La questione
Il Supremo Collegio introduce e sviluppa temi sia di tipo sostanziale che di tipo processuale: la prova per presunzioni, allegazioni, argomentazioni; l'offesa all'immagine nel sindacato giurisdizionale e, in particolare, l'utilizzo del criterio equitativo per la quantificazione del danno da diffamazione; le prerogative del giudice nella stima del pregiudizio subito in concreto dalla vittima, con le complicazioni legate alla misurazione del danno non patrimoniale. Pur tenendo conto dell'ampiezza di contenuti dell'ordinanza, si deve chiarire che non tutti i temi registrano contrasti giurisprudenziali particolarmente significativi. Tuttavia, sull'argomento in qualche modo principale (il fondamento della condanna per danno all'immagine) si registra una querelle senza dubbio importante, tra i sostenitori di un maggior rigore ed i promotori di una posizione contraria. Il punto non è tanto quello di modelli puramente teorici, conseguentemente sottratti ad un effettivo accertamento, quanto quello di stabilire cosa sia sufficiente per sostenere un verdetto di condanna. La regola è una: se l'attore non provasse un pregiudizio concreto e non fornisse elementi di quantificazione del risarcimento del danno la sua richiesta sarebbe infondata; condividere questa regola non basta. Il tema transita inevitabilmente sul piano processuale ove si discorra - è in altra massima di questo provvedimento - della possibilità di sindacare in Cassazione l'articolazione dei mezzi istruttori piuttosto che le ragioni che hanno sorretto il verdetto di condanna. Le soluzioni giuridiche
Le ipotesi più ortodosse di diffamazione - lo è scrivere di taluno cose non vere che ne intacchino l'immagine - segnalano anzitutto i profili generali della corretta definizione del fatto offensivo e dell'individuazione e applicazione di criteri di imputazione oggettiva e soggettiva. Al giudice incombe l'onere di avvalersi di elementi diversi dal fatto in sé, per affrancarsi dal modello del danno in re ipsa (così la Cassazione nell'ordinanza in commento; nei medesimi termini Trib.Siena, 29 ottobre 2018, n.1244). Nel sindacato sul danno all'immagine, l'elaborazione di corretti modelli di funzionamento segue un ventaglio di soluzioni, che spaziano dalla più rigorosa verifica in ordine alla sussistenza e concreta quantificazione del pregiudizio patito dalla vittima, alla piana apertura a forme di presunzione (tema sul quale i ricorrenti evocano l'art. 2727 c.c. per escludere che si possa ritenere provata la loro responsabilità) e/o giudizi lato sensu equitativi (nei medesimi termini dell'ordinanza, Trib. Siena, 29 ottobre 2018, n. 1244), secondo il paradigma della mera indicazione dei profili dei quali tener conto nella stima del danno. Questo, dunque, il tema centrale: la giurisprudenza è da sempre attenta a collegare il danno a una valutazione di fattori causali, o comunque di dati empirici, in mancanza dei quali l'imputazione dell'evento agli autori della condotta (e l'accollo del pagamento della posta risarcitoria) avverrebbe in forza di una fictio iuris. Il contrasto investe il tipo di presunzione; la giurisdizione contabile si accontenta della presunzione semplice (Corte Conti, Sardegna, sez. reg. giurisd., 2 settembre 2014, n. 173, Corte Conti, Trentino-Alto Adige, sez. reg. giurisd., 29 gennaio 2015, n. 5) ed anche la Suprema Corte, in una sentenza correntemente portata a sostegno della tesi restrittiva, testualmente scrive che «in materia di responsabilità civile... è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificarsi con qualsiasi con conseguenza pregiudizievole della lesione... di diritti della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all'immagine, il cui pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, deve essere oggetto di allegazione e prova, anche tramite presunzioni semplici» (Cass. civ., sez. III, sent. 13 ottobre 2016, n. 20643). Prevalentemente si richiedono (al meno) i crismi delle presunzioni gravi, precise e concordanti. In posizione surreale, i ricorrenti sembrano ritenere che la difformità al vero dei fatti portati nella pubblicazione possa essere del tutto svilita e risultare in ogni caso inconcludente. Alla richiesta di Tizio e Caia, che parrebbe articolata sull'alternativa secca tra condanna al risarcimento e nessuna condanna ad alcunché, la Suprema Corte risponde tracciando senza esitazione anzitutto il rimedio della pubblicazione della smentita su quotidiani ad ampia diffusione (in evidente connessione tematica con l'art. 186 c.p.); sul quale rimedio c'è poco da “discutere”, salvo eventualmente quali e quante debbano essere le sedi della smentita. Per la ricostruzione di un danno economicamente quantificabile, l'ordinanza aderisce espressamente alla prassi giurisprudenziale che tipizza i criteri di stima, apprezzando, tra l'altro, il disvalore dell'accusa portata a un professionista/personaggio pubblico/figura istituzionale, in grado di intaccarlo nella dimensione pubblica oltre che privata. Altrove, una sensibilità per la sofferenza interiore patita dal soggetto diffamato: «il danno non patrimoniale derivante da diffamazione a mezzo stampa, includendo anche una componente di danno all'immagine, (…) si identifica con la sofferenza interiore, il patema d'animo, il turbamento, che originano da un fatto illecito integrante gli estremi di un reato o, comunque, da un fatto lesivo di interessi costituzionalmente rilevanti e il suo ammontare viene determinato equitativamente dal giudice, avendo riguardo alla gravità del fatto illecito, da cui origina il danno, all'intensità delle sofferenze patite dall'offeso ed a tutti gli elementi peculiari del caso concreto» (Trib. Firenze , sez. II, 12 ottobre 2018 , n. 3103). Quanto al piano che conduce al verdetto di inammissibilità del ricorso, in giurisprudenza (e in letteratura) correttamente si distingue il giudizio di merito da quello di legittimità: la scelta degli elementi di riferimento, per la valutazione del danno (e l'apprezzamento degli stessi come rilevanti) da parte del primo giudice e in sede di appello, non è oggetto di scrutinio in sede di legittimità; la Cassazione, infatti, non può essere richiesta di sostituire il proprio giudizio sui fatti di causa a quello del giudice del merito, in quanto esonderebbe dai confini della propria giurisdizione; il Supremo Collegio può caducare una decisione nei soli casi di insussistenza delle ragioni che sorreggono la decisione assunta in sede di merito, con lo spiraglio della mancanza totale di una connessione logica tra lo scrutinio rappresentato nel provvedimento e la decisione finale adottata. La controversia va dunque risolta sul piano processuale (nel caso di specie, piazza Cavour conclude per l'inammissibilità del ricorso ex art. 360-bis c.p.c.); in quella sede si scioglie il nodo dei limiti dell'intervento della Cassazione, che può solo elevare critiche al processo argomentativo seguito dal giudice del merito, mai interferire con le sue prerogative nell'apprezzamento del fatto. Osservazioni
L'ordinanza è di sicuro pregio sotto il profilo della capacità di sintesi e del richiamo puntuale (anche se incidentale) a numerose tematiche; per di più, la Cassazione non respinge sic et simpliciter le doglianze avanzate dai ricorrenti, bensì ne considera gli argomenti a partire dalle deduzioni sul fatto. Compatibilmente con la sedes materie (un'ordinanza), piazza Cavour si fa carico dell'esigenza sistemica di una risposta riparatoria, anche ad effetto deterrente (di prevenzione generale negativa), necessaria a dissuadere la generalità dei consociati dal tenere il comportamento illecito (per paura di subire la condanna a risarcire la vittima). Al contempo, si rende palese che la legge debba farsi carico di una prospettiva riparatoria concreta per la vittima, focalizzandone il diritto al risarcimento economico per l'offesa subita. Non va sottaciuta - i ricorrenti ne fanno perno delle proprie contestazioni - la reale difficoltà di provare il danno non patrimoniale da offesa all'immagine, ma proprio su questo le parole della Cassazione appaiono di rara efficacia: «La valutazione del danno morale va svolta con ragionamento inevitabilmente presuntivo, data l'impalpabilità del danno reputazionale». Per un riepilogo, ricorso e ordinanza pongono capo a più temi: l'individuazione del danno all'immagine; l'ascrizione del fatto ai ricorrenti; la quantificazione del risarcimento; l'accertamento in sede di merito e il sindacato di legittimità. Al lettore meno esperto, poi, giova senz'altro il richiamo al tema della responsabilità civile per l'illecito di diffamazione (paragrafo 2.1 dell'ordinanza); l'inciso serve infatti a “ricordare” che la quantificazione del danno da diffamazione è affare del giudice civile, anche quando il fatto viene accertato in un processo penale. |