Sopravvenuta inabilità fisica al lavoro: i ragionevoli accomodamenti dell'impresa e il limite dell'intangibilità della posizione dei colleghi
06 Aprile 2020
Massima
Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratoredivenuto parzialmente inabile allo svolgimento della prestazione di lavoro, il datore di lavoro, in sede di prova dell'impossibilità di repechage ha l'onere di dimostrare l'impossibilità di adottare “accomodamenti ragionevoli” in favore del suddetto prestatore di lavoro, al fine di consentire un proficuo reimpiego dello stesso all'interno dell'azienda, nel rispetto di quanto stabilito dal legislatore Italiano ex art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2003, nonché da quello europeo con la direttiva 78/2000/CE del 27/11/2000, concernente la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro. L'obbligo di adottare tali accomodamenti ragionevoli, finalizzati a garantire la parità di trattamento a tutti i lavoratori impiegati nell'impresa, trova un limite nella necessità che essi non incidano negativamente sulle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido e non comportino un onere economico eccessivo e sproporzionato per l'impresa. La Corte d'appello di Napoli, confermando la sentenza impugnata nella parte in cui aveva dichiarato l'illegittimità del recesso datoriale per violazione dell'obbligo di repechage, rigettava il reclamo con cui la Società si doleva della decisione assunta dal Tribunale, sia in fase sommaria che di opposizione, e condannava l'appellante al pagamento delle spese del grado di giudizio.
Nello specifico, la Corte d'appello adita disattendeva la tesi prospettata dalla Società secondo cui la stessa avrebbe fornito piena prova dell'impossibilità di impiegare diversamente il lavoratore divenuto parzialmente inabile allo svolgimento della mansione, in particolare mediante la produzione dell'organigramma aziendale, dal quale era emerso che tutte le postazioni lavorative erano stabilmente occupate e che, pertanto, non vi era alcuna possibilità di ricollocare proficuamente il prestatore compatibilmente col mutato stato di salute. Pertanto, la Società, impossibilitata a servirsi della prestazione offerta dallo stesso ex 1464 c.c., decideva di recedere dal rapporto.
Secondo la Corte d'appello di Napoli, la mancata soppressione della posizione di lavoro cui era addetto il lavoratore e, soprattutto, l'omogeneità e la fungibilità delle mansioni svolte dai vari dipendenti all'interno della Società, costituivano un insieme di fattori di cui la stessa avrebbe dovuto tenere maggiore considerazione al fine di rinvenire all'interno dell'azienda postazioni di lavoro compatibili col nuovo stato di salute del lavoratore, anche attraverso lo spostamento dei colleghi dello stesso da una posizione lavorativa ad un'altra, in ragione della perfetta fungibilità delle stesse.
La Corte di merito adita concludeva, dunque, nel senso che la Società avrebbe dovuto, valorizzando l'effettiva omogeneità delle mansioni proprie delle guardie giurate (mansione cui era adibito l'originario ricorrente) individuare, tra le posizioni esistenti, quella maggiormente compatibile con le mutate condizioni di salute del dipendente, in modo tale da consentire, pur senza creare una postazione ad hoc e, dunque, nel rispetto dell'assetto organizzativo insindacabilmente dettato dall'imprenditore, lo svolgimento dell'attività lavorativa da parte dello stesso solo nei turni diurni, ritenuti compatibili con la sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento della propria attività, senza apportare alcuna modifica all'organizzazione aziendale prescelta dal datore di lavoro ma modificando i turni degli altri colleghi di lavoro.
Per la Cassazione della pronuncia proponeva ricorso la Società datrice di lavoro, affidato ad un unico complesso motivo illustrato da memoria; il prestatore di lavoro resisteva con controricorso e l'Ufficio del Procuratore depositava memoria. La questione
Il caso in esame consente di approfondire il tema degli “accomodamenti ragionevoli”, che possono essere definiti come quegli adattamenti organizzativi che il datore di lavoro è tenuto a compiere, entro certi limiti, in favore del lavoratore che, divenuto parzialmente inabile allo svolgimento della mansione di adibizione, si riveli inutilizzabile all'interno dell'impresa.
La nozione di “accomodamenti ragionevoli”, originariamente assente nell'ordinamento giuridico italiano, viene mutuata dall'esperienza comunitaria ed internazionale e, precisamente, dal dato normativo di cui all'articolo 4, comma 2, della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, che li identifica come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Sul piano del diritto interno, tale nozione è stata “interiorizzata” mediante l'introduzione del comma 3-bis all'articolo 3 del d. lgs. n. 216 del 2003, così come integrato dal d.l. n. 76 del 2013, con cui il legislatore ha inteso recepire l'art. 5 della direttiva n. 78/2000/CE del 27/11/2000 in materia di parità di trattamento in termini di occupazione e lavoro, finalizzata ad imporre agli Stati membri l'obbligo di adottare misure idonee a consentire alle persone con disabilità di accedere al lavoro, di svolgerlo, di ricevere una promozione ed un'adeguata formazione, con l'esclusione dei provvedimenti che comportino un onere finanziario sproporzionato per l'azienda datrice di lavoro.
Nello specifico, la norma in questione è stata inserita nel nostro ordinamento in seguito alla pronuncia con cui la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha condannato lo Stato italiano per inadempimento all'obbligo di recepire, integralmente, il provvedimento normativo citato. Per la Corte Europea, infatti, la mera predisposizione di misure pubbliche di incentivo e sostegno (quali appunto quelle adottate dall'Italia) non sarebbe stata sufficiente a consentire la realizzazione del fine indicato, rendendosi, piuttosto, necessaria l'adozione, da parte degli Stati membri, di provvedimenti pratici ed efficaci, atti a favorire misure idonee a garantire ai lavoratori disabili un miglioramento delle proprie condizioni di lavoro, nel rispetto di quanto disposto ai Considerando 20 e 21 della direttiva su citata.
Poste tali succinte ma doverose premesse, è bene rilevare che la questione oggetto della pronuncia in esame è stata già, di recente, sottoposta al vaglio della Corte di cassazione, che pronunciandosi sul tema, con le sentenze n. 6798 e n. 27243 del 2018, ha sancito il principio di diritto per cui in caso di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore (derivante da una condizione di handicap) gravi in capo al datore di lavoro l'obbligo della previa verifica della fattibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro, purché rispettosi delle condizioni di lavoro godute dai colleghi dell'invalido, e a condizione che l'onere finanziario derivato sia proporzionato alle dimensioni dell'impresa.
In sostanza, l'esame dei precedenti della giurisprudenza di legittimità mostra con evidenza come, alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede, la sopravvenuta inutilizzabilità della prestazione del lavoratore divenuto inabile possa costituire giustificato motivo di licenziamento solamente quando risulti impossibile riassegnare il lavoratore ad altre attività, utilizzabili nell'impresa e confacenti alle mansioni dallo stesso originariamente svolte. L'ulteriore passaggio è costituito dall'affermazione secondo cui la necessità di bilanciare la tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti di ciascun lavoratore con la libertà di iniziativa economica dell'imprenditore, comporti che l'assegnazione, del prestatore divenuto fisicamente inidoneo allo svolgimento dell'attuale attività, ad attività diverse ma riconducibili alla stessa mansione o a mansioni inferiori, possa essere legittimamente rifiutata dall'impresa solamente quando ciò comporti oneri organizzativi eccessivi, da valutarsi in base alle peculiarità dell'azienda ed alle risorse finanziarie della stessa, o quando ciò implichi - a carico dei colleghi dell'invalido – una modifica peggiorativa delle concrete modalità di svolgimento della prestazione che alteri quindi l'organizzazione aziendale disposta dall'imprenditore.
Pertanto, una lettura dell'art. 3 comma 3-bis costituzionalmente orientata, nonché misurata alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, induce inequivocabilmente a ritenere che il diritto del lavoratore disabile all'adozione di accorgimenti del datore di lavoro che consentano l'espletamento della prestazione lavorativa, incontri un limite non solo nell'organizzazione interna dell'impresa, ma anche - rectius soprattutto - nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate ed, in ogni caso, delle attività che ne custodiscano e valorizzino l'esperienza e la professionalità nel tempo acquisite. Le soluzioni giuridiche
Tirando le fila del discorso, da un'analisi della pronuncia annotata emerge il punto fermo che la Corte di cassazione ha inteso fissare riguardo i ragionevoli accomodamenti che l'impresa è tenuta ad adottare in favore del prestatore divenuto parzialmente inabile al lavoro, quando, la prestazione dallo stesso offerta risulti non più utilizzabile all'interno dell'azienda.
Nello specifico, la sentenza de quo assume una particolare rilevanza poiché, ripercorrendo i principi di legge sanciti sul tema, sia a livello interno che internazionale, e gli arresti della giurisprudenza di legittimità sul punto, dirime ogni dubbio circa i doveri ed i limiti che ciascun datore di lavoro è tenuto ad osservare nel disporre tali adattamenti organizzativi per il lavoratore divenuto parzialmente inabile alla mansione.
Come noto, la Suprema Corte aveva, piuttosto di recente, avuto modo di pronunciarsi sulla questione, valorizzando la disciplina italiana che, sulla falsariga di quella europea, aveva individuato un vero e proprio obbligo, in capo al datore di lavoro, di realizzare adattamenti ragionevoli nell'impresa, al fine di riallocare diversamente il prestatore che, colto da inabilità fisica, fosse divenuto parzialmente inabile al lavoro, obbligo che il datore di lavoro avrebbe dovuto assolvere prima di poter legittimamente recedere dal rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.
Assodata la perentorietà di tale obbligo in capo all'imprenditore, ciò su cui pare doveroso condurre un'accurata riflessione è lo speculare profilo concernente i limiti che il datore di lavoro deve rispettare al fine di evitare che mediante la disposizione di tali adattamenti organizzativi possa inficiare tanto la posizione lavorativa ricoperta dai colleghi dell'invalido - i quali potrebbero vedersi adibiti a mansioni differenti da quelle proprie o organizzati in turni maggiormente gravosi - quanto l'equilibrio economico finanziario dell'impresa stessa.
Tale profilo è stato puntualmente analizzato dalla Corte di cassazione nella sentenza commentata che ha cassato con rinvio la sentenza d'appello per non avere la Corte di merito adita applicato i principi normativi e giurisprudenziali sanciti sul punto; emerge con evidenza infatti come, nella sentenza di seconde cure, i Giudici abbiano omesso ogni indagine circa le misure che, in concreto, il datore avrebbe dovuto adottare prima di procedere al licenziamento del prestatore di lavoro, al fine di reinserirlo utilmente nell'impresa quando, a causa della sopravvenuta inabilità fisica parziale, la prestazione sia divenuta non più utilizzabile nell'intera organizzazione aziendale ex art. 1464 c.c.
Ed infatti, disattendendo i principi normativi e giurisprudenziali sul tema, la Corte d'appello ha rigettato la tesi avanzata dalla società datrice di lavoro, sull'assunto per cui la stessa, facendo leva sulla perfetta fungibilità ed omogeneità delle funzioni proprie delle guardie giurate (mansione cui era adibito il lavoratore divenuto parzialmente inabile al lavoro), avrebbe potuto – rectius dovuto - riallocarlo nell'impresa, in ragione della comprovata sussistenza in azienda di posizioni lavorative che, seppur non libere, in quanto occupate dai colleghi dell'invalido, erano però perfettamente compatibili col mutato stato di salute del prestatore divenuto parzialmente inabile al lavoro.
È dunque evidente l'errore in cui è incappata la Corte di merito che, suggerendo una modifica delle mansioni e/o dei turni di lavoro praticati dagli altri colleghi senza tener conto dei possibili effetti peggiorativi delle condizioni di lavoro degli stessi,, sembrerebbe legittimare alcune modifiche dell'assetto organizzativo aziendale, in contrasto con i principi di cui alla direttiva europea in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro n. 78/2000/CE e con i parametri che la giurisprudenza di legittimità aveva già precedentemente individuato al fine di non ledere la posizione lavorativa di coloro che, a vario titolo, prestano la propria attività nell'impresa.
Come noto, infatti, il limite dell'inviolabilità in pejus delle posizioni lavorative godute dagli altri lavoratori impiegati nell'azienda era già stato posto nelle precedenti pronunce con cui la Corte aveva sancito l'illiceità di tutte le misure idonee ad incidere negativamente sulle mansioni o, comunque, sulle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido.
In definitiva da un'organica lettura della normativa e dei precedenti giurisprudenziali sul punto, si evince come il diritto del lavoratore disabile a che il datore adotti accorgimenti organizzativi che favoriscano un reimpiego dello stesso nel complesso organizzativo aziendale in linea con la sopravvenuta inabilità parziale, incontra un limite non solo nell'organizzazione interna dell'impresa ed, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari della stessa, ma anche nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate o di quelle che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisite.
Tali principi, non sono evidentemente stati recepiti dalla Corte di merito che, ha disatteso la tesi della Società, qualificando come illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, irrogato per violazione dell'obbligo di repechage, in ragione della mera sussistenza di posizioni lavorative nell'impresa che, seppur occupate da altri colleghi, risultavano, però, pienamente compatibili con le mansioni cui il prestatore avrebbe potuto essere adibito compatibilmente al suo stato di salute in seguito all'inabilità.
In conclusione, alla luce di tutto quanto detto, avendo la Corte di merito omesso ogni accertamento circa la proporzionalità e l'adeguatezza delle misure di accomodamento ragionevole adottate o adottabili dall'azienda, la Corte di cassazione non avrebbe potuto disporre altrimenti, se non cassando con rinvio per una nuova valutazione delle circostanze di causa, al fine di consentire il raggiungimento del delicato punto di equilibrio tra il diritto del disabile a non essere discriminato, quello dell'imprenditore ad organizzare l'azienda secondo le proprie libere ed insindacabili scelte e quello degli altri lavoratori a non essere lesi nello svolgimento delle proprie mansioni , rimuovendo definitivamente ogni dubbio riguardo l'illegittimità delle misure organizzative volte ad incidere negativamente sulla posizione lavorativa ricoperta dai colleghi del lavoratore divenuto inabile. Osservazioni
Da una complessiva analisi della questione giuridica esaminata, è interessante osservare come la vicenda oggetto di studio contempli una peculiare ipotesi di recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo che rende doveroso, accanto a quello di repechage, principalmente l'obbligo di praticare in favore del lavoratore divenuto parzialmente inabile al lavoro “accomodamenti ragionevoli” identificabili come quelle modifiche ed adattamenti necessari che non comportino un onere economico sproporzionato per l'azienda e che necessitano d'essere adottati per garantire ai prestatori divenuti parzialmente inabili al lavoro l'esercizio ed il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nell'auspicato fine di favorire il rispetto della parità di trattamento nei luoghi di lavoro, in ottemperanza ai principi del diritto interno ed internazionale.
Nella vicenda all'uopo esaminata la Suprema Corte, precisando che la legittimità del recesso datoriale sussiste tutte le volte in cui la prestazione del lavoratore risulti inutilizzabile a seguito di una sopravvenuta inabilità fisica parziale al lavoro, a condizione che il datore abbia previamente accertato la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse e di pari livello attraverso i necessari adattamenti organizzativi, ha ribadito la necessità che ciò avvenga senza arrecare alcun pregiudizio all'attività praticata dai colleghi, sì da evitare alterazioni dell'organigramma aziendale mediante un differente riparto delle mansioni e/o dei turni di lavoro, in modo tale da realizzare un equilibrato bilanciamento tra i valori dell'ordinamento interno di pari rilievo costituzionale (artt. 4 e 41 Cost.).
In conclusione, alla luce del principio di diritto sancito nella pronuncia ivi annotata, il diritto del lavoratore divenuto inabile all'adozione di accorgimenti che consentano l'espletamento della prestazione lavorativa incontra un limite nell'organizzazione interna dell'impresa ed in particolare nel mantenimento degli equilibri finanziari della stessa, nonché - soprattutto - nel diritto degli altri prestatori alla conservazione delle mansioni assegnate o di mansioni che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisite, senza che tali accorgimenti possano incidere in pejus sulla posizione e sull'organizzazione del lavoro dagli stessi assunta.
Guida all'approfondimento.
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