Il Codice della crisi e le insidie della continuità senza meritevolezza nel concordato preventivo (II)

06 Aprile 2020

L'analisi compiuta nell'articolo precedente (Il Codice della crisi e le insidie della continuità senza meritevolezza nel concordato preventivo - I) conferma che il legislatore del 2019 non ha risentito, nonostante gli allarmanti segnali provenienti dalle aule fallimentari, di alcuna nostalgia per il concetto di meritevolezza, evidentemente considerata ormai retaggio di una visione delle procedure concorsuali obsoleta e felicemente superata. Il che ha avuto però l'effetto, difficile dire se compreso e voluto, di rendere l'accesso alla procedura compatibile con ogni forma di pregressa gestione illecita della società.
La meritevolezza come presupposto necessario per l'accesso alla procedura

L'analisi compiuta nei paragrafi dell'articolo precedente - "Il Codice della crisi e le insidie della continuità senza meritevolezza nel concordato preventivo (I)" - conferma che il legislatore del 2019 non ha risentito, nonostante gli allarmanti segnali provenienti dalle aule fallimentari, di alcuna nostalgia per il concetto di meritevolezza, evidentemente considerata ormai retaggio di una visione delle procedure concorsuali obsoleta e felicemente superata. Il che ha avuto però l'effetto, difficile dire se compreso e voluto, di rendere l'accesso alla procedura compatibile con ogni forma di pregressa gestione illecita della società.

Si è già detto che, anche prima di questa riforma, molte società che andavano in concordato riuscivano in qualche modo a superare il giudizio di meritevolezza nonostante il loro passato non fosse in realtà cristallino e immune da irregolarità, sfruttando l'abilità dei propri consulenti nel mascherare le criticità, o la pigrizia dei Commissari Giudiziari nel rilevarle.

Ma ora la situazione è quasi ribaltata: gravi fatti illeciti che hanno segnato la vita societaria, se rappresentati in corso di procedura, non hanno incidenza sulla ammissibilità del concordato e sulla possibilità della sua omologa, salvo il contrario avviso espresso con il voto dai creditori.

Questo assetto normativo presenta profili di rilevante criticità, soprattutto se parliamo di un concordato basato sulla continuità aziendale, ossia una procedura che contempla la continuazione dell'attività produttiva della società anche, in ipotesi, con la guida dello stesso management che l'ha portata al dissesto, sia pure sotto la sorveglianza del Commissario Giudiziale.

Può dirsi, in buona sostanza, che ancor più di quello attuale, il concordato in continuità che ci sarà consegnato dal nuovo codice si basa su tre pilastri:

  • l'irrilevanza di ogni forma di meritevolezza, includendo nella stessa anche una delle sue declinazioni principali, ossia la tempestività;
  • la finalità di salvaguardia “indiscriminata” dell'azienda del debitore, con grave possibile distorsione dei meccanismi di una sana concorrenza di mercato;
  • il dominio assoluto del criterio della “convenienza economica” dei creditori, svuotato però di un apprezzabile contenuto sostanziale.

L'irrilevanza della meritevolezza e la tempestività “al ribasso”

Il nuovo codice è stato elaborato sulla base di studi e statistiche che dimostrano in modo eloquente quanto, negli ultimi dieci anni, le imprese abbiano avuto accesso al concordato tardivamente e con patrimoni quasi azzerati.

Si è già rilevato che il codice medesimo, nel suo complesso, cerca di porre rimedio alla situazione, inducendo le imprese, con vari istituti, a comportamenti diversi e, segnatamente, ad un utilizzo immediato e leale degli strumenti di composizione della crisi messi a disposizione dall'ordinamento.

Il minimo che può dirsi è che un concordato in continuità senza meritevolezza non apporta alla nobile causa un grande contributo.

Come abbiamo detto, l'accesso alla procedura è consentito ad imprese ed imprenditori che hanno posto in essere le più gravi e diffuse forme di illecito economico, anche di penale rilevanza, recando danni irreparabili agli interessi dei creditori.

Non di rado, ad esempio, le domande di concordato sono precedute da atti di dismissione (mediante compravendita, conferimento, scissione eccetera) di quella parte del patrimonio societario, come i beni immobili, che rappresenta per i creditori la garanzia più solida. Tali operazioni, spesso, sono congegnate e poste in essere al fine di trasferire valori economici positivi ad altri soggetti giuridici, riconducibili al medesimo imprenditore o gruppo imprenditoriale, e si traducono, in sede concordataria, in un'accentuazione della forbice fra passivo e attivo disponibile.

La normativa in commento non solo non contiene alcuno strumento di dissuasione rispetto a tali condotte, ma anzi contiene regole che costituiscono, al di là della loro funzione immediata, un incentivo alla depatrimonializzazione delle società.

Va considerato, infatti, che per l'ammissibilità di un piano in continuità aziendale, è necessario che lo stesso indichi le ragioni per cui la continuità sia “funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori” (vedi art. 87, comma primo, lett. f) del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza.), e comunque preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale, aspetto che ovviamente deve essere oggetto di specifica attestazione (vedi art. 87, comma terzo, codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza che recita: “In caso di concordato in continuità la relazione del professionista indipendente deve attestare che la prosecuzione dell'attività d'impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.”).

Ora, laddove la proponente abbia ancora, ad esempio, un patrimonio immobiliare consistente, o importanti crediti di sicura esigibilità, diventa oggettivamente più difficile rappresentare nel piano uno scenario di continuità attestabile dal professionista indipendente come migliore per i creditori rispetto all'immediata liquidazione dell'attivo, così da approfittare della maggior economicità del concordato in continuità e soprattutto evitare lo spossessamento del patrimonio aziendale.

E non è tutto qui: giungere al concordato con un patrimonio incapiente offre alla società la possibilità di ottenere anche la falcidia dei crediti privilegiati, che altrimenti dovrebbero essere pagati per intero.

Se infatti il patrimonio liquidabile non è sufficiente a pagare crediti privilegiati, gli stessi possono essere trattati, per la parte in eccesso, come chirografo (vedi sul punto l'art. 85, comma 7, del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza il quale prevede: “I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, possono essere soddisfatti anche non integralmente, purché in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato, in caso di liquidazione, dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, avuto riguardo al loro valore di mercato, al netto del presumibile ammontare delle spese di procedura inerenti al bene o diritto e della quota parte delle spese generali, attestato da professionista indipendente. La quota residua del credito è trattata come credito chirografario”) e quindi a loro volta significativamente ridotti.

Nulla di strano dunque che, prospettandosi la necessità o l'opportunità di accedere ad un concordato preventivo in continuità, la società ponga in essere atti di gestione che in realtà minano la sua già compromessa capacità di far fronte ai debiti pregressi.

Altrettanto pericolosa è l'indifferenza normativa alla evidente e frequentissima emersione, nel corso della procedura concordataria, di fatti di falso in bilancio.

È circostanza assolutamente nota a chiunque si occupi di crisi di impresa, che gli amministratori commettono quel diffusissimo reato (punito dagli artt. 2621 e 2622 del codice civile, recentemente rimodulati dalla Legge n. 69/2015) soprattutto alla scopo di mascherare le perdite di esercizio e quindi procrastinare quel redde rationem che impone all'impresa la scelta fra scioglimento della società e ricapitalizzazione della stessa (vedi artt. 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482 bis ,commi quarto, quinto e sesto, 2482 ter, 2484 n. 4 e 2545 duodecies del codice civile, peraltro richiamati dall'art. 89 del codice della crisi d'impresa, che ne esclude l'applicazione fra il deposito della domanda di concordato e fino all'omologazione dello stesso.) e che, spesso, fa emergere lo stato di dissesto che imporrebbe un immediato accesso alle procedure concorsuali.

Insomma, il falso in bilancio è una delle principali condotte illecite poste in essere dagli imprenditori disonesti per sottrarsi agli obblighi di tempestività nell'accesso alle procedure ed è quella che, più di ogni altra, emerge in maniera naturale dalle attestazioni ai piani di concordato, piene di sconcertanti svalutazioni delle componenti attive risultanti dall'ultimo bilancio della società proponente.

Ebbene, l'evidenza del fatto che la società che chiede di accedere al concordato abbia occultato, magari per anni, la totale dissoluzione del suo capitale, e ciò nonostante abbia continuato l'attività producendo altre perdite e aggravando il dissesto, anche in questo caso non può avere di per sé alcun rilievo ai fini della prosecuzione della procedura.

Come già sottolineato, il nuovo codice, pur avendo fatto della emersione tempestiva della crisi la propria “bandiera”, ha lasciato comunque spazio per l'ammissione anche di concordati “tardivi”, considerando la tempestività non come condizione di accesso alla procedura bensì come presupposto per l'attribuzione di misure premiali a favore dell'impresa e dell'imprenditore, con effetti anche sulla applicazione delle sanzioni penali a quest'ultimo.

Proprio dall'analisi delle scriminanti e delle attenuanti previste in sede penale per l'imprenditore (art. 25 del codice) emerge una nozione di tempestività piuttosto riduttiva. I suddetti benefici, infatti, risultano applicabili all'imprenditore qualificato come “tempestivo” secondo i criteri del precedente art. 24, purchè “il valore dell'attivo inventariato o offerto ai creditori assicuri il soddisfacimento di almeno un quinto dell'ammontare dei debiti chirografari e comunque il danno complessivo cagionato non supera l'importo di due milioni di euro”.

La norma non chiarisce se potranno essere considerati fra i richiamati “debiti chirografari” anche i crediti privilegiati degradati a chirografo secondo la previsione del citato art. 85 comma 7. Colpisce negativamente, comunque, che la premialità sia legata ad una percentuale di soddisfazione minima dei creditori chirografari (il 20%) così bassa e peraltro coincidente con il limite di ammissibilità del concordato liquidatorio. Per non parlare del fatto che oggi, nelle aule penali, un danno di due milioni di euro viene contestato come aggravante ai sensi dell'art. 219, comma primo, L.F. ed è comunque un importo di assoluto rilievo soprattutto se parametrato a una dimensione medio piccola dell'impresa.

In termini più generali, in una procedura attivabile anche quando l'impresa è in crisi–insolvenza meramente prospettica che non ha ancora avuto manifestazioni esteriori appare davvero immotivata la consegna di una “patente di tempestività” all'imprenditore che si è reso inadempiente nella restituzione di quattro quinti dei debiti contratti con i creditori che gli hanno accordato credito e fiducia senza pretendere garanzie.

La salvaguardia indiscriminata dell'azienda

L'art. 84 del nuovo codice, a dispetto della sua impegnativa rubrica (“finalità del concordato”), ha contenuto meramente descrittivo dell'istituto e spiega che: “Con il concordato preventivo il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio.”

L'articolo prevede che la continuità possa essere diretta o indiretta e la prima è “in capo all'imprenditore che ha presentato la domanda di concordato”; in questo caso “il piano prevede che l'attività di impresa è funzionale ad assicurare il ripristino dell'equilibrio economico finanziario nell'interesse prioritario dei creditori, oltre che dell'imprenditore e dei soci.”.

Il comma 3 specifica poi che: “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino” e poi aggiunge che: “La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da una attività di impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso.”

Anche nel caso di continuità indiretta la norma impone che nel titolo contrattuale che affida la prosecuzione dell'attività produttiva ad un nuovo soggetto sia previsto “il mantenimento o la riassunzione d un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione.” (vedi art. 84, comma secondo, del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza).

Tali norme consentono dunque di accedere ai benefici del concordato in continuità (assenza di spossessamento e di soglia minima di soddisfacimento del chirografo) anche se dalla prosecuzione dell'attività non derivi affatto la maggior parte delle risorse a disposizione dei creditori, purchè la continuità consenta la salvaguardia dei posti di lavoro nei limiti e per il periodo previsti dalle norme richiamate.

È evidente l'intenzione del legislatore di legare le norme di favore previste per il concordato in continuità alla salvaguardia dei livelli occupazionali anche se, come si è visto, le garanzie per i posti di lavoro sono parziali e soprattutto limitate nel tempo: all'impresa in fondo si impone di mantenere impiegata per due anni almeno la metà dei propri dipendenti.

A suscitare le maggiori perplessità, tuttavia, è proprio la scelta legislativa di incentivare una procedura che preveda il salvataggio di una azienda senza imporre che si valuti seriamente la presenza storica della stessa sul mercato, e dunque capire se la stessa, al netto dei fattori di difficoltà di natura esogena e contingente, abbia mai manifestato una reale capacità di produrre utili rispettando gli obblighi civili, fiscali e contributivi; un'azienda, insomma, che meriti di essere salvata.

Non può dirsi che questo profilo di impresa sia oggi molto comune; estremamente diffuse nel nostro tessuto economico, invece, sono imprese che basano la loro competitività proprio sulla sistematica omissione del versamento di tasse, imposte e contributi, conquistando spazi di mercato e possibilità di crescita economica a discapito delle imprese rispettose delle regole. Imprese e imprenditori consapevoli di andare verso il dissesto in un arco temporale di due-tre anni, se non altro per l'accumulo inesorabile di debiti erariali e contributivi, con i relativi interessi e sanzioni.

In sede concordataria spesso queste imprese si presentano con un debito erariale imponente, un patrimonio quasi azzerato e l'azienda già trasferita – con contratto presentato come funzionale al concordato e il cui perdurare è legato alla omologa – ad altro soggetto giuridico espressione del medesimo gruppo imprenditoriale.

Inutile in questa sede sottolineare il nesso strettissimo fra pari trattamento fiscale e libera concorrenza fra imprese. Una società commerciale che sceglie deliberatamente di non far fronte ai suoi obblighi nei confronti dell'erario e degli istituti previdenziali è in grado di praticare negli appalti pubblici e privati ribassi imbattibili, perché i suoi costi di produzione sono praticamente dimezzati. Altrettanto può fare una società che, nel partecipare ad una gara, sa che la commessa sarà eseguita da una sua subappaltatrice che non paga le tasse e i contributi, e così via.

Per simili imprese, le quali peraltro il più delle volte operano nell'ambito di un ben strutturato gruppo di imprese, il concordato preventivo in continuità diretta o indiretta (in cui la prosecuzione dell'attività è devoluta ad una newco consorella) rappresenta un'occasione ghiotta per chiudere i conti con il passato, acquisendo definitivamente – mercé la falcidia concordataria – i benefici derivanti dal risparmio fiscale e contributivo illecitamente attuato.

Ecco dunque il rischio maggiore.

Per le sue caratteristiche, prima fra tutte quella di non prevedere lo spossessamento tipico del fallimento, il concordato preventivo in continuità, pensato per affrontare impreviste e indesiderate difficoltà imprenditoriali, rischia di diventare un tassello di collaudate e già estremamente diffuse strategie illecite, e quindi rafforzare nell'imprenditore la spinta a premeditare inadempimenti, a concentrare posizioni debitorie di gruppo in una unica impresa (quella da avviare alla procedura), a distrarre risorse economiche e beni, a regolare conti infragruppo con compensazioni difficilmente verificabili e finanche a simulare o creare artatamente una situazione di crisi proprio per lucrare i vantaggi del concordato.

Il timore è che già adesso, e sempre più il futuro, il concordato in continuità diventi per i grandi gruppi di imprese, ma anche per l'imprenditore medio a cui il commercialista consiglia sempre di aprire almeno due società per lo stesso business, una sorta di “condono fiscale permanente”, che induca inadempimenti fiscali e contributivi motivati dalla fondata speranza di godere degli sconti concordatari.

Difficile immaginare una modifica normativa che impedisca del tutto la realizzazione di simili strategie.

Oggi tuttavia il legislatore si comporta come quel genitore che regala il motorino al figlio, appena bocciato a scuola, perché il suddetto ha promesso che l'anno successivo si metterà a studiare e farà due anni in uno con un'ottima media.

Sembra assurdo, ma quasi tutti i concordati in continuità seguono questa logica: la società giunta al vaglio del Tribunale in stato di dissesto generatosi negli anni per pesanti perdite di esercizio – magari occultate con falsi in bilancio ma ben evidenti in sede concordataria – presenta un business plan per gli anni successivi, dal quale emerge la capacità della medesima società, o meglio per la medesima azienda, di produrre tali flussi di ricavi da sostenere i costi di esercizio e destinare il surplus al pagamento dei debiti pregressi nelle percentuali proposte nel piano.

La valutazione del Tribunale, dunque, di fatto ha ad oggetto un'azienda futura, frutto di una riorganizzazione che, non si capisce mai perché, l'imprenditore non ha operato anni prima quando erano già evidenti i segnali della crisi.

Con l'omologa del Tribunale si valuta insomma un'azienda che non è mai esistita concretamente e si dà continuità, di fatto, ad un'altra azienda – quella reale – che andava talmente male da generare sistematicamente perdite e non essere più in grado di far fronte alle proprie obbligazioni.

E' questo l'effetto perverso che più di tutti dovrebbe essere evitato: consentire ad un'impresa - per le sue caratteristiche - poco competitiva e gestita in maniera antieconomica, di stare dapprima sul mercato violandone le regole, per poi esservi riammessa sulla base di un semplice piano industriale di risanamento e ottimizzazione, per quanto persuasivo esso sia.

Far questo, ossia premiare imprese che violano le regole della concorrenza, è un lusso che non possiamo permetterci, una contraddizione interna del sistema che lancia un messaggio ambiguo ai protagonisti della vita economica, lasciando intravedere una sorta di percorso di “purificazione” economica in grado di redimere quasi ogni peccato, rendendo ancor più confusi ed impercettibili i confini di legalità dell'agire imprenditoriale.

Tanto più che, come vedremo meglio più avanti, questa “purificazione” ha costi elevatissimi non solo per i creditori privati, ma anche per quelli pubblici, e quindi indirettamente per la collettività. Basti pensare che, ai sensi dell'art. 101, comma primo, del nuovo codice: “Quando è prevista la continuazione della attività aziendale, i crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma effettuati, ivi compresa l'emissione di garanzie, in esecuzione di un concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ed espressamente previsti nel piano ad essi sottostante sono prededucibili”.

Dunque è possibile che l'imprenditore rappresenti una continuità aziendale possibile solo a condizione di ricevere nuovo credito dal sistema bancario, credito che la legge, in questo caso, qualifica come prededucibile ossia da soddisfare con l'attivo concordatario prima di tutti gli altri crediti, anche quelli privilegiati, e dunque anche quelli erariali e contributivi!

Non può tacersi, da ultimo, che la scelta di salvaguardare a queste condizioni, e a questi costi, una azienda improduttiva e gestita illegalmente, allo scopo di ottenere una salvaguardia peraltro miserrima dei livelli occupazionali, sembra corrispondere ad una visione statica ed irrealistica delle dinamiche di mercato.

Quando una azienda muore, ma esiste ancora un mercato e una clientela di riferimento, il suo posto viene rimpiazzato dai competitors vecchi e nuovi, i quali hanno bisogno di solito di dipendenti esperti del settore.

Logica imporrebbe dunque di favorire, anche in sede di risoluzione delle crisi di impresa, il passaggio del personale dipendente da aziende illegali ad aziende virtuose, piuttosto che intestardirsi nel consentire alle prime di prevalere commercialmente sulle seconde.

La convenienza “modesta” dei creditori

Come più volte ricordato, rimossa la meritevolezza dai requisiti di ammissione del concordato, di fatto il criterio della convenienza per i creditori è quello sui cui convergono gli sforzi di tutti i protagonisti della vicenda concordataria; la proponente e i suoi advisors, l'attestatore, il commissario giudiziale, tribunale e pubblico ministero lavorano per consegnare al voto dei creditori un piano fattibile e logico che risulti per loro più conveniente in relazione alla consistenza del patrimonio residuo della società e comparativamente alle possibilità di soddisfazione delle loro spettanze nello scenario alternativo, ossia quello della liquidazione giudiziale/fallimento.

Dunque i creditori sono arbitri finali del concordato e, sulla base di informazioni complete e corrette sull'attuale condizione economico patrimoniale della società, sono chiamati a decidere della propria convenienza; in nome della convenienza intesa come massima soddisfazione delle ragioni creditorie, tutto il resto passa in secondo piano.

La verità è che molto di rado i creditori, specie quelli chirografari, sono chiamati a votare piani concordatari che prevedano una loro reale soddisfazione, perché il patrimonio residuo a loro disposizione è stato eroso il più delle volte dalle condotte imprenditoriali illecite, proprio quelle che, in assenza di meritevolezza, non rilevano più quali cause di inammissibilità della domanda di concordato.

Nel vigore dell'attuale art. 186-bis L.F., a fronte di piani che prevedevano la soddisfazione dei chirografari in percentuali prossime all' 1-2%, i tribunali hanno dovuto porsi il problema della loro ammissibilità, giungendo alla conclusione che la soddisfazione delle ragioni creditorie potesse essere modesta purché non irrisoria (Vedi Cass. Civ., SS.UU. n. 1521/2013, la quale ha stabilito che il controllo del Tribunale “ deve attuarsi innanzitutto mediante la diretta verifica dell'effettiva realizzabilità della causa concreta del concordato, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento che, pur privo di un contenuto fisso e predeterminabile in quanto dipendente dalla tipologia della proposta formulata, è pur sempre inserito nel quadro generale di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell'imprenditore e all'assicurazione di un soddisfacimento, anche ipoteticamente modesto purchè non irrisorio, dei creditori”.)

Già il fatto che i giudici abbiano dovuto affrontare una simile questione, tuttavia, dà un'idea efficace del tipo di convenienza di cui oggi siamo costretti ad occuparci in sede concordataria.

Il legislatore del nuovo codice si dimostra sul punto molto realistico, forse anche troppo rassegnato. Nel disciplinare il concordato in continuità si è astenuto dal richiedere all'impresa l'impegno a garantire il pagamento ai creditori chirografari di una percentuale minima del loro credito.

Dice infatti l'art. 84, comma 3: “A ciascun creditore deve essere assicurata un'utilità specificamene individuata ed economicamente valutabile. Tale utilità può anche essere rappresentata dalla prosecuzione rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa” (Vedi art. 84 comma terzo del codice della crisi di impresa e dell'insolvenza).

Per un creditore, essere “soddisfatto” mediante la prosecuzione di un rapporto commerciale con una società che in precedenza non lo ha pagato magari non sarà irrisorio, ma di certo suona un pò beffardo.

Anche nel prossimo futuro dunque, con riferimento ai crediti chirografari – ma attenzione, anche al chirografo che sempre più spesso deriva dalla degradazione di crediti privilegiati (Vedi art. 14 del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza) – parleremo di percentuali di soddisfazione estremamente basse.

II nuovo concordato parte, da questo punto di vista, con le stesse ridotte ambizioni della Legge fallimentare, ossia si prefigge di fatto lo scopo di una modesta convenienza, definita nel basso dal limite – peraltro dai confini indistinti – della mera specifica individuabilità e valutabilità economica che, se vogliamo, è anche peggio della non irrisorietà.

Anche la presunta funzionalità della continuità al miglior soddisfacimento dei creditori rispetto alla ipotesi liquidatoria viene sovente, e lo sarà in futuro, attestata con differenziali minimi.

Il legislatore avrebbe potuto, analogamente a quanto stabilito per l'apporto di risorse esterne nel concordato liquidatorio, quantificare in quale percentuale minima dovesse consistere il miglioramento della soddisfazione dei creditori in caso di continuità; ma non lo ha fatto.

Non vi sono dunque novità normative che possano modificare le prassi attuali.

Oggi il professionista attesta validamente, e potrà farlo in futuro, un piano che preveda mediante la continuità aziendale il pagamento, ad esempio, in 5 anni del 7% dei crediti chirografari a fronte di un 5% nella ipotesi liquidatoria!

Parliamo dunque di poche migliaia, se non di poche centinaia di euro di differenza a fronte di importanti esposizioni debitorie.

A ciò si aggiunga che il calcolo del ricavato della prosecuzione dell'attività, anche se effettuato con perizia e prudenza, è pur sempre soggetto ad un'alea maggiore rispetto alla determinazione del valore di mercato dei beni in una liquidazione giudiziale.

I piani in continuità hanno spesso lunga durata (di solito dai due ai cinque anni) e in quell'esteso lasso temporale l'andamento di un'attività commerciale può essere influenzato da molteplici fattori, alcuni dei quali imprevedibili e del tutto estranei alla sfera di controllo dell'imprenditore.

L'alea della prosecuzione dell'attività è in buona sostanza “a carico” dei creditori i quali, al più, possono contare sulla vigilanza del commissario giudiziale, tenuto a comunicare al tribunale, ai sensi dell'art. 118, primo comma, del nuovo codiceogni fatto dal quale possa derivare pregiudizio ai creditori” e che hanno la facoltà anche individualmente, così come il commissario giudiziale, di chiedere la risoluzione del concordato per inadempimento ex art. 119, comma primo, innestando un procedimento destinato a sfociare in una dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale.

È chiaro che in questi casi, anche nella ipotesi di un solerte intervento del tribunale, le ragioni creditorie subiscono un ulteriore irreparabile danno.

Tutti questi dati ed elementi fattuali, che è dato riscontrare con allarmante frequenza nelle procedure, comunicano la netta sensazione che nei concordati di oggi, così come in quelli di domani, si continuerà a parlare di convenienza (modesta) dei creditori, ben sapendo che la convenienza (rilevante) del concordato è quasi sempre quella dell'imprenditore, del suo gruppo imprenditoriale e dei professionisti che a vario titolo intervengono nella procedura.

In conclusione

Nel trarre le conclusioni sul futuro del concordato preventivo, in particolare di quello che si basa sulla continuità aziendale, e sui rapporti fra questa procedura e le dinamiche del tessuto economico del paese, va ribadito che il nuovo codice contiene un innovativo complesso di regole, raccolte nel Titolo II “Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi”, alle cui norme già abbiamo fatto riferimento, che persegue l'obiettivo di una pronta e tempestiva emersione della crisi di impresa.

Lo fa con l'imposizione di obblighi di segnalazione di dati significativi di una crisi in atto – di particolare importanza quelle imposte agli organi di controllo societari* e ai creditori pubblici (vedi art. 15 del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza) - e concessioni premiali fin troppo generose, definendo una nozione di tempestività “al ribasso” che proprio per questo dovrebbe risultare sostenibile anche per imprese, come quelle nostrane, abituate da decenni ad un accesso last minute alla procedura concordataria.

*In evidenza
(Vedi sul punto anche la previsione dell'art. 85, comma 7, del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza il quale prevede: “I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, possono essere soddisfatti anche non integralmente, purché in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato, in caso di liquidazione, dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, avuto riguardo al loro valore di mercato, al netto del presumibile ammontare delle spese di procedura inerenti al bene o diritto e della quota parte delle spese generali, attestato da professionista indipendente. La quota residua del credito è trattata come credito chirografario”) .

Ad oggi, peraltro, ancora non sappiamo con quale testo definitivo la riforma entrerà in vigore nel 2020, né è chiaro a quali tipologie di imprese la stessa sarà applicabile (l'art. 12, comma 5, del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza prevede un elenco significativo di imprese escluse dall'applicazione degli strumenti di allerta.).

Se le nuove regole entreranno in vigore senza ulteriori modifiche riduttive, se saranno rivolte a un numero significativo di operatori economici e applicate con rigore ed efficienza, le stesse potrebbero indurre gli imprenditori, volenti o nolenti, ad attivarsi di fronte alla crisi in maniera più tempestiva, accedendo alle procedure concorsuali prima e con una dotazione patrimoniale più consistente.

La cosa più importante tuttavia è ricordare che, se anche la riforma dovesse sul punto essere depotenziata o naufragare del tutto, l'attuale legge fallimentare già contiene un sistema di allerta della crisi d'impresa affidato dall'art. 7 ai giudici civili e ai pubblici ministeri, i quali dai loro osservatori privilegiati – le controversie civilistiche e i procedimenti penali che inevitabilmente accompagnano ogni insuccesso imprenditoriale -, possono scorgere per primi, e senza particolari difficoltà, i segnali di una insolvenza conclamata o incipiente.

In questo senso, gli strumenti offerti da nuovo codice non devono essere letti come un motivo di esonero dei magistrati dal compito di vigilare sull'insorgere della crisi d'impresa, ma piuttosto trasmettere loro l'importanza vitale per la nostra economia dello svolgimento tanto più tempestivo e sistematico di quella funzione.

Guai però a non riflettere sulle caratteristiche delle singole procedure, ragionando non solo sulla funzionalità delle loro norme rispetto allo scopo specifico, sulla causa concreta dell'istituto, ma anche valutando la conformità della disciplina del concordato in continuità aziendale con i principi che regolano il mercato e la libera concorrenza fra le imprese.

La verità, infatti, è che il concordato in continuità, per come è regolato oggi e lo sarà domani, e per le molte forme che lo stesso va assumendo nella prassi, non è più una semplice procedura concorsuale, il mero epilogo di una vicenda imprenditoriale destinata ad estinguersi nelle aule dei tribunali; è piuttosto un segmento vivo, una parentesi dinamica nella storia di una impresa che di fatto non esce mai dal mercato e gioca la sua partita su due fronti, confrontandosi in contemporanea con il Tribunale e i creditori da un lato, e con i suoi competitors, dall'altro.

E non solo: è una fase incidentale di rilevante impatto economico che può essere voluta e progettata dall'imprenditore, che ne può persino modularne i tempi e crearne i presupposti.

Un'occasione, in altri termini, per scaricare su altri operatori del mercato e sulla collettività il costo di attività illecite o anche solo della propria mala gestio.

Queste potenzialità di utilizzo strumentale della procedura si moltiplicano e si arricchiscono quando parliamo non di una società isolata – realtà che peraltro va scomparendo –, ma di un “gruppo”, di una molteplicità di imprese che si muovono secondo una regia unica, che sono in grado di trasferirsi reciprocamente, a seconda del vantaggio dell'imprenditore, valori e risorse economiche, posizioni creditorie e debitorie.

Per tutti questi motivi occorre ragionare su come far sì che il concordato preventivo in continuità possa diventare realmente uno strumento di risoluzione di crisi d'impresa di natura esogena, impreviste e non volute, e non già il tassello di strategie imprenditoriali lesive della garanzia patrimoniale dei creditori e dei principi della concorrenza.

Sicuramente, a tale scopo, gioverebbe un ritorno al concetto di meritevolezza, e non per la nostalgia di un passato migliore; piuttosto per l'idea che in futuro il senso e la dignità delle procedure concorsuali richieda un nuovo bilanciamento dei molteplici e contrastanti interessi coinvolti in una crisi di impresa.

Come detto, basta frequentare per qualche tempo le aule di un tribunale per capire che i concordati vivono e si animano per l'interesse economico di imprese – e dei gruppi di imprese in cui operano – ad “incassare” l'abbattimento della esposizione debitoria a fronte del minimo esborso economico e con la garanzia di poter proseguire l'attività.

Il voto dei creditori, certo, è fondamentale.

A parte casi isolati, tuttavia, i creditori votano – ed è comprensibile - sulla base delle consistenze numeriche e percentuali che gli vengono rappresentate e, in questa logica, il sette per cento è meglio del sei, che è meglio del cinque e così via. E spesso partecipano al voto con poca motivazione, perché è evidente che si discute di briciole e che la pagnotta è stata mangiata da altri e già da tempo digerita.

Se dunque si conviene sul fatto che oggi i concordati costituiscono un beneficio per l'imprenditore che li propone, non c'è nulla di irragionevole nel ritenere che tale beneficio debba essere “meritato” e che tale merito possa essere definito come tempestività di accesso, assenza di irregolarità contabili, di falsificazioni di bilancio, di pratiche di concorrenza sleale e di operazioni che abbiano comportato una lesione della garanzia dei creditori.

E se proprio non si vuole reinserire una valutazione di merito sulle condotte imprenditoriali, dovrebbe essere accertato nel corso della procedura, quanto meno, per evitare fenomeni distorsivi delle più elementari regole della concorrenza di mercato, che l'azienda cui si chiede di dare continuità, in epoca precedente e prossima ai fattori che ne hanno determinato la crisi fosse in grado di stare sul mercato in maniera regolare, ossia, da un lato, producendo utili e, dall'altro, facendo fronte ai propri obblighi nei confronti di tutti i creditori, anche quelli pubblici (Erario ed Enti Previdenziali).

In assenza di questa forma di “meritevolezza economica”, appare evidente il contrasto che può determinarsi – e che di fatto si determina – fra gli interessi oggetto di tutela in sede di concordato preventivo in continuità, ossia il miglior soddisfacimento (nei deprimenti termini già evidenziati) dei creditori e la continuità aziendale, e interessi più generali, primo fra tutti quello della salvaguardia del meccanismo della concorrenza, che impongono la eliminazione dal mercato di soggetti economici non competitivi e gestiti in maniera illegale.

Non c'è dubbio che ad evitare questi guasti molto possano contribuire i magistrati del settore penale che tuttavia, per quanto sopra evidenziato, difficilmente possono, mediante misure cautelari legate a specifici presupposti e a termini di durata, impedire all'imprenditore di portare avanti il concordato e di utilizzarlo per consolidare gli effetti economici dei reati commessi.

E allora il quesito di fondo rimane: è utile, eticamente sostenibile e conforme agli interessi generali del nostro sistema economico, prevedere fra gli strumenti di composizione della crisi un istituto, il concordato preventivo in continuità, che può essere l'anello intermedio o finale di una strategia criminosa e che, a dispetto del dichiarato obiettivo di perseguire il miglior soddisfacimento dei creditori, comporta una imponente falcidia delle ragioni creditorie dei più deboli (i chirografari) e pesanti costi per la collettività, avendo quale effetto finale la permanenza sul mercato di aziende gestite in passato con criteri antieconomici e con metodi illegali?

Esiste dunque fra il tribunale fallimentare e il pubblico ministero una divergenza di prospettiva, dovendo il primo occuparsi solo di garantire la cosiddetta e presunta funzionalità del concordato al miglior soddisfacimento dei creditori dell'impresa, spettando invece al secondo, mediante l'utilizzo delle prerogative concessegli dall'ordinamento sia sul piano civile che sul piano penale in tema di crisi di impresa, di salvaguardare interessi economici più generali e in primis la tutela dei meccanismi concorrenziali di una economia di mercato, opponendosi dunque a concordati preventivi, distonici rispetto a quegli interessi ancorchè conformi alle norme civili?

Le norme del nuovo codice sembrerebbero confermarlo: da un lato assegnano al tribunale fallimentare, nei concordati, una mission di verifica dai contenuti allo stesso tempo troppo complessi ed estremamente circoscritti, a cui rimane estranea ogni valutazione sulla rispondenza del piano concordatario ad interessi estranei all'ambito contrattualistico della procedura; dall'altro, relegano il pubblico ministero al suo disagio istituzionale, chiamandolo ad applicare regole che favoriscono, suggeriscono e incentivano le condotte imprenditoriali che lui stesso è chiamato a combattere sul piano penale.

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