Nessuna ragione per escludere il fallimento di una società sottoposta a sequestro preventivo ed amministrazione controllata

07 Aprile 2020

Il codice antimafia prevede che un'azienda sottoposta a sequestro penale possa continuare la propria attività alle condizioni stabilite dall'art. 41 del codice antimafia stesso, ma non esclude affatto che questa impresa, se insolvente, possa essere dichiarata fallita. In altri termini, il sequestro penale di un'azienda attiva non conferisce all'impresa alcuna patente di infallibilità, per cui, in mancanza di disposizioni in senso contrario, si deve affermare che, così come un'impresa in attività può essere dichiarata fallita, anche un'impresa attiva e sottoposta a sequestro penale possa essere dichiarata fallita.
Massima

Il codice antimafia prevede che un'azienda sottoposta a sequestro penale possa continuare la propria attività alle condizioni stabilite dall'art. 41 del codice antimafia stesso, ma non esclude affatto che questa impresa, se insolvente, possa essere dichiarata fallita. In altri termini, il sequestro penale di un'azienda attiva non conferisce all'impresa alcuna patente di infallibilità, per cui, in mancanza di disposizioni in senso contrario, si deve affermare che, così come un'impresa in attività può essere dichiarata fallita, anche un'impresa attiva e sottoposta a sequestro penale possa essere dichiarata fallita.

Il caso

La Procura presso il Tribunale di Milano chiedeva dichiararsi il fallimento di una società in ragione del debito fiscale, accertato dalla Guardia di Finanza, pari ad €. 9.419.491, corrispondente all'I.V.A non versata, con conseguente rilevanza penale della condotta degli amministratori della società insolvente. In particolare, nel corso di un procedimento penale pendente presso il Tribunale di Milano era stato contestato ad una serie di soggetti, che rivestivano la qualifica di amministratori di fatto e di diritto della società di cui si richiedeva il fallimento, di essersi avvalsi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti al fine di evadere l'imposta sul valore aggiunto per una somma di € 9.419.491, anche omettendo di versare le somme dovute a titolo di imposte/contributi assistenziali e previdenziali per un valore di ulteriori €. 845.580 utilizzando i crediti IVA inesistenti di cui sopra; il procedimento penale si concludeva con la condanna degli imputati e la confisca diretta del denaro e degli altri beni fungibili della società per un valore di €. 9.404.882,58.

Nel procedimento innanzi al tribunale fallimentare la società convenuta si costituiva, sia nella persona del legale rappresentante che degli amministratori giudiziali dell'intero compendio aziendale, nominati in forza del provvedimento di sequestro penale emesso dal Tribunale di Bari nell'ambito di altro procedimento penale, e si opponeva alla richiesta di fallimento eccependo in primo luogo l'inammissibilità della domanda in forza degli artt. 41 e 63 del D.lgs. 159 del 2011 (c.d. codice antimafia) per difetto di interesse ad agire e di legittimazione attiva del pubblico ministero in quanto, a dire della resistente, solo il Pubblico Ministero di Bari avrebbe potuto, nell'ambito del procedimento per la gestione dell'azienda sequestrata, contestare la sussistenza dei requisiti, nel caso di specie ritenuti sussistenti, per la continuazione dell'attività d'impresa e, in caso di insolvenza, richiedere il fallimento della società, risultando di contro improponibile da parte del pubblico ministero la richiesta di fallimento di una società sottoposta a sequestro penale e di cui sia stata disposta la prosecuzione dell'attività d'impresa con il consenso della Procura.

In secondo luogo, si contestava l'insolvenza della società evidenziando come la gestione giudiziale della stessa avesse portato un recupero della legalità dell'impresa, un equilibrio economico e finanziario sostenibile, con la salvaguardia di oltre 400 posti di lavoro, risultando, in ogni caso, allo stato un debito fiscale di solo circa €.40.000 per somme iscritte a ruolo e non di oltre €. 9 mln come affermato dal pubblico ministero, risultando attualmente un risultato economico positivo della società.

La questione

Il tema della legittimazione del pubblico ministero ad avanzare istanza di fallimento è stato affrontato diverse volte dalla giurisprudenza, la quale ha assunto sul punto un atteggiamento decisamente largheggiante, sostenendo che la volontà legislativa che emerge dalla lettura delle ipotesi alternative previste dall'art. 7, comma 1, n. 1, l.fall., una volta venuta meno la possibilità di dichiarare il fallimento d'ufficio, è chiaramente nel senso di ampliare la legittimazione della Procura alla presentazione della richiesta per dichiarazione di fallimento a tutti i casi nei quali l'organo abbia istituzionalmente appreso la notitia decoctionis, trovando tale soluzione interpretativa conforto sia nella previsione dell'art. 7, comma 1, n. 2, l.fall., che si riferisce al procedimento civile senza limitazioni di sorta, sia nella Relazione allo schema di decreto legislativo di riforma delle procedure concorsuali, che fa riferimento a qualsiasi notitia decoctionis emersa nel corso di un procedimento penale.

Alla luce di queste considerazioni, si è affermato che il pubblico ministero è legittimato a richiedere il fallimento, ai sensi dell'art. 7, n. 1, l.fall., non solo qualora apprenda la notitia decoctionis da un procedimento penale pendente, ma anche ogni qualvolta la decozione emerga dalle condotte specificamente indicate nella norma sopra indicata, le quali non sono necessariamente esemplificative di fatti costituenti reato e non presuppongono come indefettibile la pendenza di un procedimento penale (Cass., sez. I, ord. 14 gennaio 2019, n. 646). Nello stesso senso si è affermato che il pubblico ministero è legittimato a chiedere il fallimento dell'imprenditore, ai sensi dell'art. 7, n. 1, l.fall., in tutti i casi in cui abbia appreso istituzionalmente una notitia decoctionis, a prescindere dalla circostanza che il tribunale competente per la dichiarazione di fallimento sia diverso da quello presso cui svolge le sue funzioni nei procedimenti penali, sicché non è necessaria la rinnovazione della detta richiesta da parte del pubblico ministero che sia intervenuto all'udienza davanti al giudice competente (Cass., sez. I, 25 agosto 2017, n. 20400).

In pronunce particolarmente aderenti al caso di specie, si è poi affermato che il pubblico ministero è legittimato a chiedere il fallimento dell'imprenditore, ai sensi dell'art. 7, n. 1, l.fall., anche quando la notitia decoctionis sia stata appresa nel corso di un procedimento penale, anche se avviato nei confronti di soggetti diversi dal medesimo imprenditore e conclusosi con esito favorevole alle persone sottoposte alle indagini (Cass., sez. I, 25 agosto 2017, n. 20400. In dottrina, DE LEO, Istanza di fallimento: la legittimazione attiva del Pubblico Ministero, in Giur. It., 2017, 2415; MACAGNO Gian Paolo, La Suprema Corte apre nuovi orizzonti all'iniziativa del Pubblico ministero, in Fall., 2015, 190; CATALDO, L'istanza del pubblico ministero per la dichiarazione di fallimento ex art. 162 l.fall., ivi, 2017, 1303).

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato rigettato dalla S. Corte, ma solo con riferimento al profilo attinente l'insolvenza della società, mentre l'istanza del Pubblico Ministero è stata ritenuta ammissibile.

Con riferimento a tale ultimo profilo, secondo il Tribunale fallimentare di Milano, il giudice delle indagini preliminari presso il tribunale di Bari ha disposto il sequestro dell'azienda di cui si avanzava istanza di fallimento, a norma dell'art. 321, comma 1, c.p.p., ragione per cui non avrebbe trovato diretta ed integrale applicazione il codice antimafia, quanto piuttosto l'art. 104-bis disp. att. c.p.p., che rimanda alle disposizioni del codice antimafia limitatamente a quelle indicate al libro I, titolo III e, quindi, alle disposizioni sull'amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati. In questo quadro normativo, deve ritenersi che, se è disposto un sequestro preventivo a norma dell'art. 321, comma l, c.p.p., l'azienda deve essere amministrata e gestita dall'amministratore giudiziario secondo le disposizioni del codice antimafia, senza però che nulla consenta di ritenere che non possa essere dichiarato il fallimento della società titolare dell'azienda oggetto di sequestro, nemmeno se per la migliore gestione del compendio sequestrato sia stata disposta la continuazione dell'attività d'impresa, non essendovi in proposito alcun ostacolo né normativo né logico.

Il codice antimafia prevede che un'azienda sottoposta a sequestro penale possa continuare la propria attività alle condizioni stabilite dall'art. 41 del codice antimafia stesso, ma non esclude affatto che questa impresa, se insolvente, possa essere dichiarata fallita: il sequestro penale di un'azienda attiva, in altri termini, non conferisce all'impresa alcuna patente di infallibilità, per cui in mancanza di disposizioni in senso contrario si deve affermare che, così come un'impresa in attività può essere dichiarata fallita, anche un'impresa attiva e sottoposta a sequestro penale possa essere dichiarata fallita.

Questa conclusione, secondo i giudici milanesi, non presenta alcun profilo di contrasto rispetto alla disciplina fallimentare, posto che – a prescindere dalla sorte dell'impresa oggetto di provvedimenti di sequestro antimafia - anche in ipotesi di fallimento può essere disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa, quando ciò non arrechi pregiudizio ai creditori (art. 104 1.f.) e, anzi, la salvaguardia dei beni aziendali ancora vitali costituisce, anche nell'ordito della legge fallimentare, il punto di tendenza della procedura concorsuale, essendo normalmente preferita la vendita dell'intero complesso aziendale all'ipotesi di vendita atomistica dei beni che la compongono (art. 1051.f.).

Risulta del tutto congrua, pertanto, in tale ottica, la previsione del codice antimafia (come richiamato dall'art. 104-bis disp. att. c.p.p.) secondo la quale l'azienda prosegue nelle proprie attività, se possibile, dovendo provvedere altrimenti il giudice a disporne la liquidazione. Il codice antimafia (art. 41, co. 5) afferma espressamente, poi, che "in caso di insolvenza, si applica l'articolo 63, comma l", disposizione che conferma la regola generale secondo cui, in caso di insolvenza, l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento spetta al debitore, ai creditori o al Pubblico Ministero, senza che dalla collocazione del richiamo al citato art. 63 (nel comma dedicato alla scelta della liquidazione anziché della continuazione dell'azienda sequestrata) possa inferirsi la conclusione per cui un'azienda soggetta a sequestro penale e per la cui gestione si sia scelta la prosecuzione dell'attività non possa essere dichiarata fallita o non possa essere dichiarata fallita su istanza del Pubblico Ministero presso il Tribunale competente.

Quanto poi alla circostanza che il pubblico ministero, prima di presentare istanza di fallimento, avesse prestato il suo assenso alla continuazione dell'attività aziendale mediante la nomina di un amministratore giudiziario, tale scelta, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, non pregiudica in alcun modo la possibilità per la Procura di modificare la propria idea circa la prosecuzione o meno dell'attività e perciò non impedisce di richiedere il fallimento dell'azienda la cui attività eventualmente prosegua, ove questa sia insolvente.

Come detto, il rigetto della istanza del pubblico ministero è stato determinato dalla mancanza dello stato di insolvenza della società.

Anche con riferimento a questo profilo, la decisione richiama per più aspetti il codice antimafia e la considerazione e valorizzazione della disciplina ivi contenuta fa concludere per il non accoglimento dell'istanza di fallimento del pubblico ministero, nonostante il sostanziale stato di decozione dell'impresa.

Il punto di partenza della decisione è l'art. 41 del codice antimafia, il quale prevede che l'amministratore giudiziario nominato a seguito del sequestro penale dell'azienda possa proporre la prosecuzione dell'attività d'impresa corredando la proposta, tra l'altro con "una dettagliata analisi sulla sussistenza di concrete possibilità di prosecuzione o di ripresa dell'attività, tenuto conto ... della forza lavoro occupata e di quella necessaria per il regolare esercizio dell'impresa, della capacità produttiva e del mercato di riferimento nonché degli oneri correlati al processo di legalizzazione dell'azienda"; il tutto deve essere "corredato ... della relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, terzo comma, lettera d), del Regio Decreto n. 267/1942 che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del programma medesimo e per tutto il tempo necessario alla predisposizione della proposta”.

Nel torno di tempo necessario per la predisposizione di tale documentazione è previsto che non operino le cause di scioglimento e gli obblighi di ricapitalizzazione della società per perdita del capitale sociale. Alla luce di quest'ultima previsione, si pone evidentemente il problema di definire quale debba essere la sorte dei debiti erariali – anche se non iscritti a ruolo (come è nel caso di specie) – sicuramente sussistenti, perché, ad esempio, come accaduto nel caso di specie, accertati con una sentenza penale di condanna. Infatti, ove tali debiti, anche potenziali, fossero considerati nel bilancio della società, magari solo come fondo rischi, in caso di loro rilevante ammontare sarebbe difficile anche solo ipotizzare la prosecuzione dell'attività aziendale, perché potrebbe essere impossibile ricostituire il capitale sociale e un'attività economica, pur vitale, sarebbe destinata irrimediabilmente al fallimento.

Secondo il Tribunale milanese, questa conclusione contrasterebbe con le finalità del codice antimafia e con la stessa adozione di sequestri cautelari in via preventiva, in quanto durante il sequestro l'azienda risulta amministrata nel rispetto della legalità e sotto la vigilanza di un giudice e a seguito del sequestro, anche preventivo, due sono le alternative: o l'azienda verrà confiscata dallo Stato o l'azienda verrà restituita all'avente diritto una volta venuto meno il vincolo. Nel primo caso, ovvero in caso di confisca, i debiti erariali si estinguono per confusione a norma dell'art. 1253 c.c., sicché l'azienda non insolvente al tempo del sequestro continuerà a mantenere un patrimonio netto positivo non intaccato dai debiti fiscali pregressi; in caso, invece, di restituzione dell'azienda all'originario titolare i debiti tributari, in precedenza sospesi (come disposto dall'art. 50 cod. antimafia,, secondo cui quando anche le pretese erariali fossero iscritte a ruolo, l'Agente della Riscossione non può ottenere la soddisfazione coattiva delle proprie ragioni di credito che restano sospese durante il sequestro, così come sospeso resta, ovviamente, il decorso del termine prescrizionale del diritto dell'Agente della Riscossione), torneranno ad essere esigibili con ogni conseguenza sulla tenuta della società.

In sostanza, secondo il Tribunale, pur gravando sull'azienda un debito erariale particolarmente significativo, lo stesso non sarebbe attualmente esigibile e quindi la domanda di fallimento come proposta viene essere rigettata per difetto del presupposto dello stato di insolvenza.

Osservazioni

La sentenza in commento, per quanto ci consta, rappresenta un unicum – così come assolutamente originale era la vicenda su cui la stessa si innestava – nel quadro giurisprudenziale in tema di società sottoposte, da un lato, a misure di prevenzione antimafia e versanti, dall'altro, in crisi economica, in ragione degli illeciti la cui commissione ha appunto determinato l'adozione del provvedimento cautelare.

Nella decisione, in maniera opportuna riteniamo, il giudice milanese ha inteso privilegiare le ragioni della continuità aziendale, sulla scorta della circostanza che i debiti erariali che gravano sull'azienda o erano destinati a rimanere insoddisfatti in caso di confisca della società o erano destinati ad essere adempiuti successivamente in caso di restituzione dell'impresa (e quindi, in questa seconda ottica, non si presentavano attualmente esigibili).

Questa impostazione ci pare coerente con la filosofia che governa il codice antimafia, specie dopo la riforma del 2018, con riferimento alla disciplina della tutela dei terzi nell'ambito delle misure di prevenzione e ai rapporti con le procedure fallimentari.

Nel regolamentare le ipotesi in cui il provvedimento ablatorio adottato in sede di prevenzione vada ad incidere sulla sfera giuridica e sugli interessi patrimoniali di soggetti estranei a tale procedura, il legislatore ha inteso raggiungere tre diversi obiettivi (Petrini, La tutela dei terzi, in AA.VV. (a cura di Furfaro), Misure di prevenzione, Torino 2013, p. 645; ID., La prevenzione patrimoniale: la tutela dei diritti dei terzi, in AA.VV. (a cura di Bargi – Cisterna), La giustizia patrimoniale penale, I, Torino 2011, p. 521; Cassano, Confisca antimafia e tutela dei diritti dei terzi, in Cass. Pen., 2005, p. 829; Di Legami - Chinnici, Amministrazione giudiziaria e tutela dei terzi nel codice antimafia. Aggiornato con il commento alla Legge 24 dicembre 2012 n. 228 (legge di stabilità 2013), Pisa University Press, Torino 2013; NICASTRO, L'Amministrazione e la destinazione dei beni, in AA. VV. Le Misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, Orientamenti di Merito, Milano, 2010; Orlando, La procedura prefallimentare e i reati fallimentari problematiche vecchie e nuove. Il rapporto tra i provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri, misure di prevenzione, confisca) ed i processi esecutivi individuali/concorsuali: esigenze di tutela dei terzi, Incontro di studio CSM, Milano 2012, 11).

Il primo è diretto a dare luogo ad una disciplina che garantisca una più ampia e concreta tutela dei terzi estranei ai fatti delittuosi, con la individuazione di un vero e proprio sub-procedimento per l'accertamento della loro estraneità – essendo tale loro non coinvolgimento negli episodi illeciti il presupposto fondamentale per essere qualificati come terzi rispetto al procedimento di prevenzione.

Il secondo profilo di intervento ha condotto alla cosiddetta “fallimentarizzazione” del procedimento di accertamento e verifica dei crediti dei terzi con la successiva composizione dello stato passivo e liquidazione dell'attivo: si è voluto meglio regolamentare questo aspetto essenziale della procedura di prevenzione e si è inteso pervenire a questo risultato richiamando gran parte di quanto previsto con riferimento alle procedure concorsuali.

In terzo luogo, e si tratta di considerazione decisiva nel caso di specie, prendendo atto della “triste sorte” che spesso incontrano i beni confiscati - i quali, di frequente, vengono lasciati a sé stessi e perdono ogni utilità o ogni funzione di creazione di profitto -, il legislatore ha inteso favorire una gestione dinamica dei beni sottoposti a sequestro o confisca, specie quando si tratti di imprese o di rami aziendali, riconoscendo all'amministratore giudiziario – ove siano stati sequestrati complessi aziendali e produttivi o partecipazioni societarie di maggioranza e prima che sia disposta la confisca definitiva - il potere di proporre domanda per l'ammissione al concordato preventivo o per la predisposizione di un accordo di ristrutturazione dei debiti. A tale impostazione, evidentemente, si ispira la decisione in esame.

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