La “svalutazione” del vizio formale oltre i confini generali dell'art. 7, st. lav.
10 Aprile 2020
Massima
Alla luce della generale “svalutazione” dei vizi formali, afferenti la mera omissione e/o irregolarità dell'iter procedimentale in materia di licenziamento disciplinare, la tutela indennitaria c.d. “debole” di cui all'art. 18, comma 6, st. lav., trova applicazione non solo per le ipotesi di violazione dell'art. 7 st. lav., ma anche per i casi di inosservanza delle regole procedimentali “speciali” di cui al r.d. n. 148 del 1931, applicabili ai lavoratori operanti nel settore di riferimento. Il caso
Il lavoratore adiva il Tribunale di Napoli, ai sensi dell'art. 1, comma 5, 1. n. 92 del 2012, avverso l'ordinanza del giudice del lavoro con la quale era stata rigettata la impugnativa del licenziamento comminato per motivi disciplinari. L'illecito addebitato consisteva nella mancata assistenza del familiare durante la fruizione da parte del dipendente di permessi ex art. 104. Il ricorrente reiterava le deduzioni e richieste di cui alla prima fase di giudizio, lamentando la non immediatezza della contestazione e, in particolare, la solo parziale osservanza dalla datrice (azienda esercente il servizio di trasporto pubblico) dello speciale procedimento di cui all'art. 53, r.d. n. 148 del 1931, avendo essa provveduto ad adottare il provvedimento espulsivo senza consentire al dipendente l'accesso agli atti del procedimento, e senza disporre la sua audizione da parte del Consiglio di disciplina. Si doleva, inoltre, della non proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto al comportamento addebitato. Chiedeva, pertanto, la declaratoria della nullità e/o illegittimità del licenziamento intimato, con condanna della società resistente alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento ex art. 18, comma 4, st. lav., ovvero, e subordinatamente, al pagamento di una indennità risarcitoria. La questione
Che tipo di tutela può essere riconosciuta al lavoratore ove vengano violate regole procedurali “speciali” nell'ambito di un licenziamento disciplinare? La soluzione
Superate le doglianze in ordine all'immediatezza della contestazione, il Tribunale di Napoli ha ritenuto non sproporzionata la sanzione espulsiva allorché il dipendente utilizzi i permessi di cui all'art. 33, l. n. 104 del 1992 per esigenze diverse da quelle proprie della funzione alla quale la normativa in questione è preordinata, rectius l'assistenza del familiare disabile. La gravità della condotta addebitata, pertanto, è stata valutata idonea a giustificare il licenziamento ex art. 2119, c.c.
Relativamente alla censura afferente la violazione della procedura di cui all'art. 53, r.d. n. 148 del 1931, il Tribunale ha richiamato la sentenza Sezioni Unite n. 15540 del 2016, con la quale è stata esclusa la configurabilità di un'abrogazione tout court della speciale disciplina di cui al suddetto regio decreto, evidenziando la necessità di integrare o sostituire i singoli istituti ivi disciplinati, nell'ipotesi in cui la relativa specifica regolamentazione risulti incompatibile con il sistema in generale.
Ad avviso del ricorrente l'azienda avrebbe dovuto portare a termine il procedimento disciplinare nelle modalità di cui all'art. 53 prefato, in considerazione delle sue maggiori garanzie difensive, rispetto a quelle di cui all'art.7 St. Lav. Sebbene vi siano state pronunce della Suprema Corte che, accertata la violazione della procedura disciplinare di cui all'art. 53, hanno ritenuto applicabile la tutela reale (reintegrazione), il Tribunale ha evidenziato come tali decisioni afferissero a provvedimenti espulsivi intervenuti prima dell'entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, con la quale è stata ridefinita la disciplina relativa alle tutele applicabili in caso di illegittimità/nullità del licenziamento. In particolare, ai sensi dell'art.18, comma 6, come modificato dalla suddetta legge, qualora il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione, ovvero della procedura di cui all'art. 7, st. lav., o di quella prevista dall' del art. 7, l. n. 604 del 1966, non è più prevista la reintegra del lavoratore, ma soltanto una sanzione risarcitoria, salvo difetto di giustificazione del recesso.
Il legislatore ha dunque sostanzialmente “svalutato” il vizio formale, ossia la mera omissione/irregolarità nello svolgimento dell'iter procedimentale. La soprarichiamata giurisprudenza di legittimità non poteva, pertanto, trovare applicazione nel caso di specie. Secondo il Tribunale, infatti, se il mutato sistema di disciplina opera in generale per i vizi del procedimento disciplinare previsto dall'art. 7, st. lav., a maggior ragione dovrebbe essere valutata la concreta ricaduta delle irregolarità/omissioni procedurali, relative alla normativa speciale del r.d. n. 148 del 1931, sulle tutele che possono essere riconosciute, nei singoli casi, ai lavoratori di tale settore. Le doglianze del ricorrente sono state ritenute dal giudice partenopeo inidonee a pregiudicarne il diritto di difesa in sede disciplinare, trattandosi piuttosto di una violazione di carattere formale/procedurale parziale, con conseguente applicazione del nuovo art. 18, comma 6, st. lav.
Il Tribunale ha valorizzato il principio ispiratore della suddetta novella legislativa, ossia l'intento di limitare ai soli casi di eliminazione sostanziale dei diritti difensivi del lavoratore incolpato l'equiparazione con il difetto di giustificatezza del recesso. Nelle altre ipotesi, riconducibili a vizi di minore portata, è riconosciuta la sola tutela indennitaria. Osservazioni
L'orientamento legislativo espresso nella l. n. 192 del 2012 ha trovato un sostanziale consolidamento nel successivo d.lgs. n. 23 del 2015: l'indennità risarcitoria è divenuta la regola, operando invece quale eccezione la tutela reale. Il diritto alla reintegrazione sussiste, infatti, oltre che nei casi di nullità del licenziamento (art. 2), solo qualora, una volta accertata l'illegittimità del recesso, sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato (art. 3), ovvero in relazione a quella specifica condotta, il CCNL applicato predisponga l'applicazione di una sanzione conservativa (art. 12, l. n. 604 del 1966).
Il d.lgs. n. 23 del 2015, nel disciplinare i vizi formali e procedurali del licenziamento, prevede che la violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, l. n. 604 del 1966, ovvero della procedura disciplinare ex art. 7, st. lav., comporta l'estinzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, con condanna del datore al pagamento di un'indennità pari ad un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità (l. n. 87 del 2018; C. cost. n. 194 del 2018).
Gli elementi di analogia rispetto all'art. 18, comma 6, st. lav. sono evidenti, sebbene il baricentro venga spostato sulla tipologia di vizi anziché sulla “gravità” della violazione. Il dibattito emerso in seguito alla modifica del 2012 dell'art. 18 st. lav. sembra in ogni caso poter trovare continuazione nella nuova normativa. Appare utile, pertanto, richiamare talune questioni aventi rilievo nella materia in esame:
1. Una riflessione merita innanzitutto il problema afferente le conseguenze della mancata affissione del codice disciplinare. La giurisprudenza ha sostenuto che laddove la condotta contestata al lavoratore appaia violatrice non di generali obblighi legali, ovvero rientranti nel cd. minimo etico ed acquisiti dalla coscienza sociale, bensì di regole comportamentali negozialmente introdotte, funzionali al miglior svolgimento del rapporto di lavoro, l'affissione del codice disciplinare deve ritenersi necessaria. (Cass., n. 54 del 2017). La tutela applicata, tuttavia, è quella prevista per le ipotesi di vizi formali-procedurali (Corte app. Roma, sez. lavoro, 12 novembre 2019).
2. Ulteriore questione è sorta in merito ai casi di assenza di contestazione. Al lavoratore sarebbe sostanzialmente preclusa la possibilità di fornire le proprie giustificazioni rispetto all'addebito, non potendo conoscere il fatto disciplinarmente rilevante. La giurisprudenza ha equiparato la totale mancanza di contestazione ad un vizio sostanziale, con applicazione dell'art. 18, comma 4 (Cass., n. 2513 del 2017 e n. 25745 del 2016; in senso difforme: Cass. n. 12231 del 2018), in quanto si configurerebbe un'ipotesi di inesistenza del procedimento disciplinare, piuttosto che una mera violazione delle norme procedurali. La medesima soluzione non opererebbe qualora la contestazione, sebbene sussistente, non sia specifica. L'art. 7, st. lav., infatti, si limita a prevederne la forma scritta, senza alcun riferimento al contenuto sostanziale della stessa. La garanzia del diritto di difesa può realizzarsi anche mediante una contestazione per relationem con riferimento a documenti conosciuti o conoscibili dal lavoratore (Trib. Civitavecchia, 5 giugno 2019).
3. Il principio di immediatezza della contestazione è strettamente strumentale ad un migliore esercizio da parte del lavoratore del proprio diritto di difesa, tenuto conto anche del possibile affidamento che lo stesso può aver riposto nella scarsa rilevanza disciplinare attribuita dal datore alla condotta inadempiente. Tuttavia, non può non rilevarsi come la contestazione attenga alla “sequenza scansionata di comportamenti” che deve precedere l'irrogazione del provvedimento sanzionatorio, sicché l'intempestività integrerebbe un vizio di natura procedimentale. Sul punto, in seno alla giurisprudenza, sono state seguite due distinte tendenze ermeneutiche, recentemente composte a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite. Secondo un primo orientamento, il fatto tardivamente contestato avrebbe dovuto essere equiparato ad un fatto insussistente, con conseguente operatività della tutela reale. Una diversa soluzione è stata invece sostenuta da chi, collocando tale violazione nelle ipotesi di insussistenza della giusta causa o del g.m.s., ha ritenuto applicabile l'art. 18, comma 5, st. lav. Le Sezioni Unite, con la sent. n. 30985 del 2017 hanno aderito a tale ultima posizione, distinguendo l'ipotesi in cui disposizioni normative o negoziali prevedano un termine entro il quale l'addebito deve essere contestato: tale violazione, configurando in un vizio di natura procedimentale, comporta l'applicazione dell'art. 18, comma 6 (c.d. tutela indennitaria “debole”).
4. Circa il momento dell'irrogazione della sanzione, una parte della giurisprudenza ha qualificato la tempestività come un elemento costitutivo del diritto di recesso, con conseguente incidenza sulla sua giustificatezza, sicché l'intempestività sarebbe da ricondurre alle “altre ipotesi” in cui non sussiste la giusta causa o il g.m.s. (art. 18, comma 5). Laddove, invece, il CCNL applicato fissi un termine entro il quale la sanzione deve essere irrogata, la violazione della previsione negoziale integrerebbe un vizio procedurale punibile ex art. 18, comma 6. Tuttavia, qualora il superamento del termine sia indicato nel CCNL come manifestazione dell'accoglimento delle giustificazioni del lavoratore, al lavoratore dovrebbe essere riconosciuta la tutela prevista per il caso di insussistenza del fatto contestato (Cass., n. 21569 del 2018).
In conclusione, sembrano opportune alcune osservazioni.
Sebbene la ragione della tutela solo indennitaria del lavoratore licenziato, e quindi il passaggio verso una generalizzazione del severance payment in caso di licenziamento ingiustificato o viziato per motivi formali-procedurali, sia individuabile in considerazioni di politica economica circa la mancanza di flessibilità “in uscita” nel mercato del lavoro, una sanzione così blanda, quale quella indennitaria c.d. “debole”, potrebbe indurre il datore a trascendere la rigorosità delle regole procedimentali, con evidente incidenza sul diritto del lavoratore alla propria difesa ed al contradditorio, sebbene lo stesso possa richiedere al giudice la più ampia tutela derivante dal licenziamento ingiustificato. (art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015; art. 18, comma 5, st. lav.).
L'assenza di un principio costituzionale che imponga la reintegrazione quale unica tutela per il lavoratore non rende sindacabile la scelta di far conseguire al licenziamento una tutela meramente indennitaria in luogo di quella c.d. reale. Tuttavia alcune perplessità solleva la misura dell'indennità allorché il vizio formale-procedurale incida notevolmente sui suddetti, costituzionalmente garantiti (artt. 24 e 111, Cost.). Da ultimo un “richiamo”, anche se non giuridicamente vincolante, alla necessaria “adeguatezza, effettività e dissuasività” del risarcimento, a fronte della violazione di un diritto riconosciuto a livello sovranazionale, è pervenuto all'Italia dal Comitato Europeo per i diritti sociali che, relativamente al d.lgs. n. 23 del 2015, ha ritenuto violato l'art. 24 della Carta sociale europea, che sancisce il diritto di ogni lavoratore, licenziato senza un valido motivo, ad “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”. Per approfondire
|