La Cassazione ammette la rideterminazione discrezionale in fase esecutiva della pena accessoria nei giudicati di condanna per bancarotta fraudolenta

Lorenzo Cattelan
14 Aprile 2020

È consentito anche al giudice dell'esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dall'art. 216…
Massima

È consentito anche al giudice dell'esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dall'art. 216, quarto comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare), quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni.

Il caso

La vicenda origina dal caso di D.L., condannato per bancarotta fraudolenta, con sentenza della Corte d'Appello di Milano divenuta irrevocabile nel marzo 2015, alla pena di anni due di reclusione nonché, in via accessoria, all'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e all'incapacità ad esercitare uffici direttivi per la durata di anni dieci (art. 216, ultimo comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267).

Nel 2018, e quindi in data successiva alla condanna passata in giudicato, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale proprio dell'art. 216, comma 4, l. fall. nella parte in cui prevedeva la durata di tali pene in misura fissa e pari a dieci anni, anziché quella variabile fino a dieci anni (Corte Costituzionale, 25 settembre 2018, n. 222). Va da sé che, in questo modo, si è introdotta una modifica che rende più favorevole il trattamento sanzionatorio del condannato, dovendo il giudice, alla stregua dei parametri indicati dall'art. 133 c.p., individualizzare e modulare caso per caso anche la specifica pena accessoria (artt. 3 e 27, commi 1 e 3, Cost.).

Nel caso di specie, confidando nella portata della richiamata decisione costituzionale, D.L. ha presentato incidente di esecuzione presso la Corte d'Appello competente volta ad ottenere la rideterminazione della durata delle pene accessorie comminategli nella misura pari a quella della sanzione principale di due anni di reclusione e, per l'effetto, la declaratoria di estinzione delle stesse sanzioni per avvenuta espiazione.

La Corte d'Appello di Milano, nel maggio 2019, ha rigettato l'istanza del ricorrente.

Contro tale decisione, il legale dell'interessato ha proposto ricorso per Cassazione dolendosi della genericità della motivazione proposta dal giudice dell'esecuzione. In particolare, viene lamentata la mancata valorizzazione della concessione delle attenuanti generiche, così come dell'avvenuto risarcimento del danno in favore della curatela fallimentare. Inoltre, il ricorrente sottolinea come il giudice dell'esecuzione abbia omesso una qualsivoglia indagine circa il ruolo del condannato nella compagine societaria che ha rappresentato l'occasione criminogenetica del reato accertato.

La questione

Il tema affrontato con la vicenda in esame attiene alla cedevolezza del giudicato rispetto ad una pena c.d. illegale. Più nello specifico, la questione affrontata è relativa all'esercizio dei poteri cognitivi da parte del giudice dell'esecuzione, con particolare riferimento alla commisurazione temporale di sanzioni accessorie inflitte con sentenza passata in giudicato.

La peculiarità del giudizio de quo si rinviene nella presa di posizione da parte della Corte Costituzionale (sent. 222 del 2018) con cui - in data successiva all'irrevocabilità della decisione del giudice di merito - si è stabilità l'illegittimità della previsione contenuta nella legge fallimentare (art. 216, ultimo comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267) che prevedeva la durata fissa di (anziché variabile fino a) dieci anni per le pene accessorie dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualunque impresa.

In questo senso, la citata pronuncia costituzionale ha posto la giurisprudenza ordinaria dinnanzi ad un duplice problema. In primo luogo, guardando essenzialmente al futuro, si è trattato di stabilire il criterio sulla base del quale il giudice della cognizione, nei processi pendenti o da instaurare, debba commisurare la pena accessoria, astrattamente applicabile «fino a dieci anni». La risposta a tale interrogativo è stata fornita nel 2019 dalle Sezioni Unite nel caso Suraci (Cass., SS.UU., 28 febbraio 2019, n. 28910), su cui ci si soffermerà nella parte dedicata alle osservazioni. In seconda battuta, con il caso in esame e volgendo l'attenzione al passato, si è reso necessario approfondire la questione attinente alla sorte delle condanne passate in giudicato con cui era stata applicata automaticamente una pena accessoria pari a dieci anni sulla base della previgente formulazione dell'art. 216 l. fall.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione sviluppa le proprie argomentazioni partendo da generali considerazioni sull'ammissibilità e sui limiti del potere del giudice dell'esecuzione di incidere sulle statuizioni inerenti alle pene accessorie coperte da giudicato allorquando sia intervenuta una specifica dichiarazione di incostituzionalità della norma afferente al c.d. trattamento sanzionatorio accessorio.

I giudici di Piazza Cavour osservano, infatti, che il fondamento di un simile potere si rinviene nell'art. 136 Cost. letto in combinato disposto con l'art. 30 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87. Ivi, dopo aver sottolineato l'impossibilità di dare applicazione ad una norma illegittima dal giorno successivo alla pubblicazione della relativa declaratoria, si stabilisce esplicitamente che quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali. Orbene, l'interpretazione della pacifica giurisprudenza(ex multis, Cass. pen., S.U., 29 marzo 2007, n. 27614)è nel senso di ammettere l'efficacia retroattiva delle decisioni della Corte in materia di disposizioni penali sostanziali non solo avendo riguardo alle norme incriminatrici – invero, le uniche a cui si riferisce l'art. 673 c.p.p. – bensì anche alle norme statuenti il trattamento punitivo del fatto. L'intuibile ratio del richiamato orientamento è da ravvisarsi nell'esigenza di garantire che la sopravvenuta illegalità della pena determini la cessazione del vincolo esecutivo in corso.

Tanto premesso, col caso in esame la Corte di Cassazione conferisce al principio suesposto massima latitudine interpretativa, estendendo il medesimo criterio a tutte le manifestazioni del potere punitivo e consentendo conseguentemente al giudice dell'esecuzione il potere discrezionale di rideterminare la durata della pena accessoria.

Nel giungere a questa conclusione viene sconfessato l'approdo della nota sentenza Basile del 2014 (Cass. pen., Sez. Unite, 27 novembre 2014, n. 6240) con cui si era giunti ad affermare, per il tramite dell'art. 183 dis. att. c.p.p., che anche la correzione della pena illegale avrebbe dovuto arrestarsi in mancanza di predeterminazione legislativa circa la durata e la specie della specifica sanzione e che, pertanto, avrebbe dovuto escludersi la rideterminazione di quelle pene accessorie implicanti un qualche margine di valutazione discrezionale da parte del giudice dell'esecuzione. La più chiara conseguenza del richiamato precedente era da inquadrarsi proprio nella preclusione per il giudice dell'esecuzione di effettuare interventi manipolativi in relazione alla statuizione coperta da giudicato. Tutt'al più la giurisprudenza – sconfessata nel 2019 con la citata sentenza Suraci – imponeva al giudice della cognizione di procedere alla commisurazione delle pene accessorie secondo il criterio dettato dall'art. 37 c.p. (secondo cui quando la durata della pena accessoria non è espressamente determinata ha durata eguale a quella della pena principale inflitta).

Allo scopo di confutare l'incompatibilità tra il potere di intervento del giudicato e l'esercizio di discrezionalità da parte del giudice dell'esecuzione, la Cassazione richiama la copiosa elaborazione giurisprudenziale di legittimità elaborata per le ipotesi in cui la declaratoria di incostituzionalità investa diposizioni riguardanti l'entità delle pene principali.

Fondamentale, in questo senso, è il riferimento alle Sezioni Unite del caso Gatto (2014), con cui si è statuito, in termini generali, che le sentenze della Corte costituzionale debbano avere applicazione retroattiva, prevalendo sul giudicato di condanna, non soltanto nel caso in cui comportino la riduzione dell'area del penalmente rilevante, ma altresì qualora, dichiarata illegittima una norma diversa da quella incriminatrice, producano l'effetto di mitigare il trattamento sanzionatorio (Cass. pen., Sez. Unite, 29 maggio 2014, n. 42858; il caso è dipanato dalla pronuncia 251/2012 con cui la Consulta ha stabilito l'illegittimità del divieto ex art. 69, comma 4, c.p. di prevalenza della allora attenuante della lieve entità nei delitti in materia di stupefacenti sulla recidiva reiterata). La ragione di fondo è facilmente rinvenibile nell'esigenza di garantire che la privazione della libertà personale rimanga conforme ai dettami costituzionali sia nel momento della sua inflizione sia durante l'intero arco della conseguente vicenda esecutiva. Conformemente a questa necessità, nel caso in cui all'esito della declaratoria di illegittimità diventi applicabile una disciplina punitiva meno severa di quella in vigore al momento del fatto, è compito del giudice dell'esecuzione, adito ai sensi dell'art. 666 c.p., rideterminare la pena inflitta nel vigore della norma viziata, tenendo conto del mutato quadro sanzionatorio, «anche se la nuova decisione da assumere non sia a contenuto predeterminato, dovendo farsi riferimento a penetranti poteri di accertamento e di valutazione». Peraltro, ricorda la Cassazione, simili conclusioni trovano conforto nella motivazione della sentenza della Consulta n. 210 del 2013 con cui si è statuito che «in fase esecutiva possa esercitarsi il sindacato sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo, ma anche la sua modifica o il suo superamento».

Tanto premesso, la Suprema Corte evidenzia il radicamento dei principi formulati con la sentenza Gatto facendo riferimento ad ulteriori conformi assesti della giurisprudenza costituzionale. In questo senso, vengono menzionate: la sent. 249/2010 sull'incostituzionalità dell'aggravante della clandestinità ex art. 61, n. 11-bis, c.p.; la sent. 32/2014 sull'illegittimità dell'equiparazione a fini sanzionatori tra droghe pesanti e leggere, con conseguente reviviscenza del più favorevole trattamento per queste ultime; la sent. 40/2019 inerente alla incostituzionalità del minimo edittale fissato ad otto anni di reclusione per i reati legati alle droghe pesanti.

Nel medesimo percorso argomentativo la Cassazione richiama anche le Sezioni Unite Jazouli (2015), in cui si è giunti ad affermare la possibilità di rideterminare la pena anche nel caso in cui quella divenuta irrevocabile rientri nei limiti edittali risultanti dalla successiva declaratoria di illegittimità (Cass., S.U., 26 febbraio 2015, n. 33040). Anche in queste ipotesi, inoltre, si è stabilito che la rideterminazione della pena non deve compiersi seguendo criteri aritmetico- proporzionali, bensì attraverso l'esercizio di poteri discrezionali adeguatamente motivati.

Giunta alla conclusione del primo passaggio decisionale, la Corte propone delle argomentazioni per arrivare a sostenere che l'intervento discrezionale del giudice dell'esecuzione è legittimo solo se guidato dal rispetto dei canoni di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

Recuperando la specificità del caso in esame, gli ermellini evidenziano che l'unica differenza sussistente rispetto ai molteplici precedenti suesposti è rappresentata dal fatto che ad essere illegale è una pena accessoria (e non principale).

Tuttavia, tale peculiarità non legittima una scissione della proporzione fra riformata previsione normativa e concreta risposta punitiva, dal momento che la legalità del trattamento punitivo deve essere oggetto di verifica in tutto il corso del procedimento. In questo senso depone il dato letterale dell'art. 676 c.p.p. che attribuisce al giudice dell'esecuzione una generale competenza a decidere in ordine alle pene accessorie.

In aggiunta, la Cassazione sostiene che la portata dell'art. 183 disp. att. c.p.p. così come interpretata nel caso Basile – che ha relegato il potere correttivo del giudice alla sussistenza di una pena predeterminata per specie e durata – deve ritenersi circoscritta alle ipotesi di determinazione di effetti sfavorevoli per l'interessato, ossia ai soli casi di aggiunta di una pena accessoria erroneamente omessa nella sentenza di condanna.

Pertanto, i giudici di Piazza Cavour enunciano il principio di diritto secondo cui è consentito anche al giudice dell'esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dall'art. 216, quarto comma, l. fall. quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni.

Infine, la Suprema Corte, alla luce di quanto sopra evidenziato, censura il concreto esercizio del potere di rideterminazione del giudice dell'esecuzione, annullando con rinvio l'ordinanza impugnata.

Superato il principio di simmetria di cui all'art. 37 c.p., la pronuncia in commento stabilisce che il giudice dell'esecuzione – astrattamente legittimato a confermare la severità dell'originaria configurazione edittale della pena accessoria, dal momento che la Corte Costituzionale stabilisce la conformità alla Grundnorm della durata variabile delle pene accessorie previste dall'art. 216 l. fall. col solo limite massimo dei dieci anni – avrebbe dovuto accompagnare la propria decisione con un adeguato supporto motivatorio. In concreto, pertanto, si è riconosciuto che la Corte d'Appello di Milano ha errato nel non verificare la compatibilità fra la gravità della fattispecie delittuosa posta in essere dal condannato e la pena accessoria originariamente comminata (e, di fatto, confermata). Tale illogicità, peraltro, è resa ancor più evidente dalla valutazione complessiva della vicenda, assunto che appare connotata da requisiti, quali la reclusione nel minimo edittale e il riconoscimento delle attenuanti generiche, espressivi di una complessiva lieve entità offensiva.

Osservazioni

Nella parte dedicata all'analisi delle Questioni si è accennato al fatto che, a seguito della richiamata sentenza n. 222 del 2018 della Corte Costituzionale, gli interpreti sono stati chiamati a stabilire il criterio sulla base del quale il giudice della cognizione, nei processi pendenti o da instaurare, debba commisurare la pena accessoria di cui all'art. 216 l. fall., astrattamente applicabile «fino a dieci anni». La risposta è stata fornita dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., S.U., 28 febbraio 2019, n. 28910) attraverso una motivazione applicabile in generale a tutte le pene accessorie di durata non fissa. Infatti, contro l'orientamento in allora prevalente, la Cassazione escludendo l'applicabilità dell'art. 37 c.p. (che avrebbe imposto la parificazione temporale della pena accessoria con quella della pena principale), ha affermato che il rischio di automatismi nella fase sanzionatoria è scongiurabile solamente attraverso il richiamo all'art. 133 c.p. e ai conseguenti poteri del giudice di commisurazione in concreto della pena da comminare. Invero, il riconoscimento dell'autonomia della prevenzione speciale negativa alle pene accessorie ben può condurre – subordinatamente all'assolvimento di un rafforzato onere motivatorio da parte del giudice – al risultato pratico di una loro applicazione in misura temporale anche maggiore rispetto alla pena principale concretamente inflitta.

Tanto premesso, il risultato cui giunge la Prima Sezione con la pronuncia in commento anziché rappresentare la manifestazione di un nuovo principio, esprime continuità all'opera di precisazione del campo applicativo del principio di legalità delle pene in rapporto al giudicato.

Da questo punto di vista, il passaggio forse più impegnativo compiuto nelle motivazioni dai giudici di Piazza Cavour, è rappresentato dalla precisazione dei confini applicativi del principio di diritto espresso dal caso Basile nel 2014 e, conseguentemente, della portata dell'art. 183 disp. att. c.p.p., da cui si sarebbe potuto ricavare un limite all'intervento del giudice dell'esecuzione su pene accessorie di durata “non predeterminata” dalla legge.

Ecco allora che emerge la decisiva opera di distinguishing con cui la Cassazione ha evidenziato la possibilità di tenere separate le ipotesi di correzione con effetti peggiorativi per il condannato – per le quali trova applicazione l'art. 183 disp. att. c.p.p. – e ipotesi di rideterminazione in melius (come quella di specie), in relazione alle quali, difettandone la ratio, la norma citata non opera.

In ogni caso i giudici difettano nel fornire un qualsisivoglia approfondimento in relazione alla nozione di determinazione legale della durata della pena accessoria cui fa riferimento l'art. 183 disp. att. c.p.p.

Orbene, assunto che per pene accessorie non determinate dalla legge non possono intendersi le pene per cui la legge stabilisce minimo e massimo o solo un massimo, alle quali pertanto si è ritenuto inapplicabile l'art. 37, analoga lettura dovrebbe darsi del (quasi) identico sintagma contenuto nell'art. 183. Solamente tale osservazione consentirebbe di ritenere non più pertinente il principale riferimento normativo individuato dalla pronuncia Basile per escludere interventi in sede esecutiva che implichino esercizio di discrezionalità, con il vantaggio di poter richiamare a tal fine i numerosi argomenti proposti dalle Sezioni Unite del caso Suraci.

Volendo spendere qualche ulteriore considerazione a sostegno della scelta dei giudici di legittimità di escludere la portata dell'art. 183 nel caso in esame e, al contempo, di superare per altro verso il principio affermato nella Basile, basti sottolineare quanto segue. Mentre l'art. 183 fa riferimento all'ipotesi in cui la pena accessoria sia illegale a causa di un errore del giudice contestuale alla sua irrogazione, nel caso della pronuncia in commento la sanzione accessoria si rivela illegale a seguito della sopravvenuta declaratoria di illegittimità della relativa previsione normativa. Il caso de quo non riguarda, per azzardare un paragone con categorie concettuali civilistiche, un'ipotesi di nullità originaria – incidente sul momento genetico della comminazione della sanzione – bensì di annullabilità, afferente ad un vizio sopravvenuto rispetto al sorgere della condanna.

Com'è già stato notato, sul piano strutturale la descritta differenziazione trova conforto nel diritto vivente.

Il riferimento corre alla questione relativa alla sorte dei provvedimenti di condanna per inosservanza dell'ordine di esibizione del documento di identità e del permesso di soggiorno passate in giudicato dopo che il legislatore, nel 2009, aveva così ridefinito la fattispecie di cui all'art. 6 d.lgs. n. 286 del 1998 (T.U.I.) e prima della sentenza con cui nel 2012 le Sezioni unite hanno stabilito che l'effetto della riforma era stato quello di abolire il reato se commesso da uno straniero “irregolare” (impossibilitato a esibire, per definizione, il permesso di soggiorno). Con riferimento a questa circostanza, il caso Mraidi (Cass., Sez. un., sent. 29 ottobre 2015, n. 26259) è arrivato a statuire la revoca dei giudicati formatisi nel periodo intermedio facendo leva proprio sul fatto che l'abolitio si era già verificata in forza della modifica legislativa del 2009 e che, pertanto, le successive sentenze di condanna avrebbero applicato una pena illegale. Per giungere a questa conclusione le Sezioni Unite Mraidi hanno richiamato il caso Basile; e ciò per evidenziare che la revoca della sentenza rimane comunque subordinata alla constatazione che la condanna sia il risultato di un errore percettivo (il giudice non si è pronunciato sull'abolitio) e non meramente valutativo (il giudice ha esaminato ed escluso, anche implicitamente, l'evenienza dell'abolitio).

Prima di giungere alle conclusioni corre d'obbligo una notazione.

Occorre, infatti, non scordare la distinzione tra l'ipotesi di incostituzionalità (per contrasto diretto con i principi costituzionali ovvero con quelli europei o convenzionali) di una disposizione da quella di semplice modifica legislativa. Infatti, mentre la prima è affetta da una patologia che pregiudica la legalità della norma sin dall'origine – impedendo, dopo la pubblicazione della sentenza, che la norma stessa sia comunque applicabile anche ad oggetti ai quali sarebbe stata applicabile alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo – la seconda appartiene più comunemente alla fisiologia del sistema e soggiace alle regole tipiche dell'art. 2 c.p.

Infatti, il riscontro di un vizio di incostituzionalità conduce ad escludere l'applicazione della lex mitior, pur se abolitrice del reato, ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore (prevale la caducazione ex tunc della disposizione invalidata). Sul versante opposto, in aggiunta, la declaratoria di incostituzionalità in bonam partem possiede efficacia retroattiva e non incontra il limite del giudicato ex art. 2, comma 4, c.p. (sul punto, cfr. Cass. pen., Sez. I, 22 settembre 2016, n. 24834).

In definitiva, tenendo conto della sent. 222/2018, le ipotesi in cui non è ammissibile chiedere la rideterminazione della pena accessoria da parte del giudice dell'esecuzione risultano essere quelle che riguardano condanne divenute definitive dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale e prima della pronuncia a Sezioni Unite del caso Suraci. Infatti, occorre tener presente che quest'ultimo arresto, valorizzando il disposto dell'art. 133 c.p. in luogo di quello contenuto nell'art. 37 c.p., ha astrattamente legittimato l'irrogazione di una pena accessoria dalla durata temporale più ampia rispetto a quella della pena principale. In questa prospettiva, coloro che si trovano nella situazione in esame risultano essere stati destinatari di un trattamento sanzionatorio (quello di cui all'art. 37 c.p.) più mite, del che emerge la carenza di interesse rispetto alla proposizione di un incidente di esecuzione.

Invece, meritevole di interrogativo è il caso di colui che, avendo commesso il fatto prima della sentenza della Corte costituzionale, non fosse stato ancora giudicato irrevocabilmente prima della sentenza Suraci e che pertanto, intervenuto l'approccio rigoroso delle Sezioni unite, sia stato condannato con applicazione di una pena accessoria determinata in base all'art. 133 e non all'art. 37 c.p. Sul punto, in conclusione, basti rammentare che l'art. 7 CEDU – espressivo dell'esigenza di prevedibilità del trattamento punitivo – e il principio del legittimo affidamento incolpevole dell'interessato conducono a ritenere che debba essere privilegiato l'atteggiamento di favore nei confronti del condannato, alla stregua della ratio dell'enunciato di cui all'art. 2, comma 4, c.p.

Guida all'approfondimento

FINOCCHIARO S., Le Sezioni Unite sulla determinazione delle pene accessorie a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale in materia di bancarotta fraudolenta, in Dir. pen. cont., 15 luglio 2019.

LAZZERI F., Pena accessoria illegale nei giudicati di condanna per bancarotta fraudolenta: la Cassazione (a sezione semplice) ammette la rideterminazione discrezionale in fase esecutiva, in Sistema penale, 20 febbraio 2020.

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