Il mancato ricorso al fatto notorio non è sindacabile in sede di legittimità

14 Aprile 2020

La pronuncia in esame si sofferma sul concetto di “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” di cui all'art. 115, comma 2, c.p.c. e sui limiti di sindacabilità della scelta del giudice di ricorrere o meno, ai fini della decisione, ai cd. fatti notori.
Massima

In tema di prova civile, il ricorso alla nozione di “comune esperienza” (fatto notorio), da interpretare in senso rigoroso come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, costituendo una deroga al principio dispositivo ex art. 112 c.p.c. e al principio di disponibilità delle prove ex art. 115 c.p.c., rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sicché può essere censurata in sede di legittimità la sola inesatta nozione di “fatto notorio” utilizzata dal giudice, ma non anche la sua mancata applicazione ove il giudice, invece, non abbia ritenuto necessario, ai fini della decisione, avvalersi della stessa.

Il caso

La società alfa impugnava, dinanzi alla commissione tributaria provinciale, gli avvisi di accertamento emessi nei propri confronti dall'Agenzia delle entrate in relazione alla detrazione dell'iva e di altre imposte su fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, nonché per infedele dichiarazione, essendo state le fatture emesse da un concedente diverso dall'effettivo cedente del bene.

La commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, con sentenza confermata dalla commissione tributaria regionale.

L'Agenzia delle entrate proponeva ricorso per cassazione con un unico motivo, col quale deduceva la violazione dell'art. 115 c.p.c. in quanto il giudice d'appello non aveva fatto ricorso ad una elementare massima di esperienza, quella secondo cui chi si impegna ad un acquisto immobiliare di notevole entità non può non informarsi sulla titolarità del bene e sui recenti passaggi di proprietà dello stesso, sicchè non può non sapere, con l'uso della diligenza media, che l'operazione invocata a fondamento del diritto alla detrazione è riconducibile ad un'evasione o una frode fiscale.

La questione

La pronuncia in esame si sofferma sul concetto di “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” di cui all'art. 115, comma 2, c.p.c. e sui limiti di sindacabilità della scelta del giudice di ricorrere o meno, ai fini della decisione, ai cd. fatti notori.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte premette che il ricorso alle nozioni di “comune esperienza” (fatti notori), comportando una deroga al principio dispositivo di cui all'art. 112 c.p.c. ed al principio di disponibilità delle prove di cui al comma 1 del medesimo art. 115 c.p.c., in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, e quindi come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile.

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, invero, non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione di analoghe controversie.

In sostanza, a parte le espresse previsioni di legge che consentono al giudice di acquisire prove d'ufficio – cd. principio inquisitorio (artt. 117, 118, 191, 213, 253, 254, 257, 281-terc.p.c.) -, una rilevante deroga al principio di disponibilità della prova è rappresentata proprio dalle nozioni di fatto che “rientrano nella comune esperienza”, il ricorso alle quali, tuttavia, costituisce una facoltà discrezionale per il giudice, con la conseguenza che il vizio della pronuncia può configurarsi solo nel caso in cui il giudice abbia fatto positivamente ricorso al “notorio” (ex multis, Cass. civ., 26 settembre 2018, n. 23026; Cass. civ., 3 marzo 2017, n. 5438; Cass. civ., 18 maggio 2007, n. 11643; Cass. civ., 18 aprile 2007, n. 9244, per le quali la sussistenza del fatto notorio può essere censurata in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio), mentre in caso contrario – ossia qualora il giudice non abbia ritenuto necessario, ai fini della decisione, avvalersi della nozione di comune esperienza - non è configurabile alcun vizio, tanto meno di motivazione, e dunque non può essere censurato in sede di legittimità il mancato ricorso al notorio, venendo la pronuncia ad impingere in una valutazione di merito, non sindacabile dalla Suprema Corte (Cass. civ., 20marzo 2019, n. 7726).

Occorre, tuttavia, operare una distinzione temporale tra:

  1. la censura di motivazione di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., prima delle modifiche di cui al d.l.n. 83/2012 (conv., con modif., dalla l. n. 134/2012), applicabile alle sentenze pubblicate a decorrere dall'11-9-2012, essendosi al riguardo affermato che il giudice è tenuto ad avvalersi, come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove, che l'argomentazione di tipo presuntivo, delle massime d'esperienza (o nozioni di comune esperienza), il mancato ricorso alle quali, da parte del giudice del merito, in quanto interferente sulla valutazione del fatto, è suscettibile di essere apprezzato sotto il profilo del vizio della motivazione (Cass. civ., 28 ottobre 2010, n. 22022; Cass. civ., 10 aprile 2012, n. 5644);
  2. la censura di motivazione in relazione al nuovo art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in ordine al quale, invece, si è affermato che il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stato posto a base della decisione una “inesatta nozione del notorio”, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo, e non anche per inesistenza o insufficienza di motivazione, non essendo il giudice tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, laddove, del resto, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, l'inveridicità del preteso fatto notorio può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi, non di ricorso per cassazione (Cass. civ., 22 maggio 2019, n. 13715).

Nel caso in esame si verteva in una fattispecie di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti, ragion per cui andava applicato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui è onere dell'Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in deduzione il costo ovvero in detrazione l'iva pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall'effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere (in tal senso anche Corte di Giustizia UE 22 ottobre 2015,causa C-277/14), con l'uso della diligenza media, che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si era iscritta in un'evasione o in una frode. La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto, il contribuente è stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti, per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l'emissione della relativa fattura, evaso l'imposta o compiuto una frode (Cass. civ., 27 febbraio 2020, n. 5339; Cass. civ., 28 febbraio 2019, n. 5873).

Qualora l'Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. civ., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass. civ., 20 aprile 2018, n. 9851).

Ebbene, nel caso in esame, secondo il giudice tributario d'appello, l'Amministrazione ricorrente non aveva indicato elementi indiziari idonei a dimostrare la conoscenza o conoscibilità della condotta illecita posta in essere dalla società cedente, ed anzi esistevano molti elementi che dimostravano, al contrario, che la cessionaria non poteva sapere che scopo della cedente fosse quello di non versare l'iva sull'importo ricevuto a titolo di corrispettivo della compravendita.

Da tali considerazioni si desume che la commissione tributaria regionale non ha mai fatto ricorso, ai fini della decisione, a massime di esperienza, ma solo ad elementi indiziari, sicchè, trovando applicazione “ratione temporis” la nuova formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ed avendo la ricorrente lamentato – non l'inesatta nozione di notorio utilizzata dal giudice del merito, ossia l'errore nell'individuazione della massima di esperienza applicabile, bensì – l'omesso ricorso al fatto notorio, il motivo di impugnazione dedotto con il ricorso per cassazione si palesa inammissibile, stante la non sindacabilità, da parte del giudice di legittimità, della mancata applicazione di massime di esperienza ai fini della decisione.

Osservazioni

La pronuncia in esame risulta condivisibile, in quanto mira a ribadire e consolidare il recente orientamento giurisprudenziale che - facendo leva anche sul rilievo per cui, dopo il d.l.n. 83/2012, il vizio denunciabile ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. deve consistere in un omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti – limita la sindacabilità in cassazione della violazione del comma 2 dell'art. 115 c.p.c. all'ipotesi in cui giudice abbia fatto positivamente ricorso al notorio” (basando la decisione su un'inesatta ovvero su una non chiarita nozione di “notorio”),mentre in caso contrario – ove, cioè, il giudice non abbia ritenuto necessario, ai fini della decisione, avvalersi della nozione di comune esperienza - non è configurabile alcun vizio, tanto meno di motivazione, e dunque non può essere censurato in sede di legittimità il mancato ricorso al “notorio”, venendo la censura ad interessare una valutazione di merito, insindacabile dalla Suprema Corte (Cass. civ., 20 marzo 2019, n. 7726; Cass. civ., 26 settembre 2018, n. 23026; Cass. civ., 15 marzo 2016, n. 5089).

Pertanto, come si legge nella pronuncia in esame, è censurabile per violazione di legge, ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., solo l'assunzione da parte del giudice di merito di una inesatta nozione di fatto notorio (Cass. civ., 3 marzo 2017, n. 5438); inoltre, non può escludersi che anche il giudizio di fatto contrario ad una massima di comune esperienza, quando è preso a base per l'applicazione di una norma di diritto, si risolva in una falsa applicazione della legge e sia, come tale, censurabile in cassazione, ove, trattandosi di un giudizio a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia, deve essere valutato in base al vizio concretamente dedotto (in tal senso, già Cass. civ., 5 novembre 1971, n. 3118).

Appare, poi, opportuno precisare, come peraltro si desume anche dalla motivazione della pronuncia in commento, che la nozione di “massime di esperienza” va tenuta concettualmente distinta da quella di “notorio”, in quanto quest'ultimo attiene esclusivamente a fatti specifici e concretamente avveratisi, mentre le massime di esperienza costituiscono proposizioni di contenuto generale tratte dalla reiterata osservazione dei fenomeni naturali o socio-economici, di cui il giudice può servirsi come regole di giudizio, secondo l'id quod plerumque accidit, trattandosi di canoni di ragionamento destinati a governare l'argomentazione di tipo presuntivo (si pensi al calcolo della strada percorsa da una certa autovettura in determinate circostanze spazio-temporali).

In altri termini, il fatto notorio è rappresentato da ciò la cui conoscenza fa parte della cultura normale della generalità, almeno in una determinata zona (cd. notorietà locale) o in un particolare settore di attività o di affari da una collettività di persone di media cultura. Sono, invece, massime di esperienza, per la dottrina, le definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto, da decidersi nel processo, conquistate con l'esperienza ma autonome nei confronti dei singoli casi, dalla cui osservazione sono però dedotte.

Pertanto, le massime di esperienza sono regole per la razionale valutazione della prova, in quanto tali astratte, seppure induttivamente ricavate dall'osservazione di una serie di casi concreti, e costituiscono, quindi, un semplice criterio di valutazione del fatto accertato e non già, come invece il fatto notorio, il mezzo di accertamento del fatto stesso.

Esaminando la casistica giurisprudenziale, tuttavia, i concetti di “fatto notorio” e “massime di esperienza” non vengono sempre tenuti ben distinti, ed anzi spesso sono utilizzati promiscuamente, con una confusione terminologica che risulta generata dalla stessa lettera del comma 2 dell'art. 115 c.p.c., che fa testuale riferimento non al fatto notorio, bensì alle “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.

In ogni caso, è pacifico che tra le nozioni di fatto di comune esperienza, utilizzabili dal giudice ai sensi dell'art. 115, comma 2, c.p.c., non rientrino i dati che richiedono specifiche conoscenze e giudizi tecnici, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi, a meno che tali nozioni non siano certe, incontestabili e acquisite al patrimonio di ogni uomo di media cultura (Cass. civ., 4 giugno 2019, n. 15159).

A titolo esemplificativo, rientrano tra i fatti notori ex art. 115, comma 2, c.p.c.:

  • la rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT (Cass. civ., 11 agosto 1987, n. 6892);
  • i proventi mediamente conseguibili dal deposito del denaro in istituti bancari e, in particolare, i tassi di interesse bancario (Cass. civ., 2 agosto 2005, n. 16132);
  • l'insufficienza di alloggi abitativi ad equo canone (Cass. civ., 15 ottobre 1997, n. 10115);
  • la conoscenza di una crisi edilizia e delle relative conseguenze per i valori degli immobili, stante la diffusione delle rilevazioni statistiche in materia socio-economica, solitamente pubblicate anche dalla stampa, quotidiana e periodica (Cass. civ., 18 marzo 2004, n. 5493);
  • i valori di mercato degli autoveicoli usati, in quanto riportati in moltissime pubblicazioni di stampa a larga diffusione (Cass. civ., 4 giugno 2007, n. 13056);
  • la valutazione dell'incidenza dei postumi di un intervento chirurgico sulla capacità di lavoro generica o specifica (Cass. civ., 17 maggio 2001, n. 6764);
  • le quotazioni OMI, risultanti dal sito web dell'Agenzia delle Entrate (Cass. civ., 21 dicembre 2015, n. 25707).

Restano escluse, invece, dalle nozioni di comune esperienza:

  • le tabelle di liquidazione del danno biologico elaborate da alcuni uffici giudiziari (Cass. civ., 29 febbraio 2008, n. 5505), fatta eccezione per quelle elaborate dal Tribunale di Milano, che ormai rappresentano un parametro di riferimento nazionale per la liquidazione del danno non patrimoniale;
  • le caratteristiche ed il posizionamento dei cartelli stradali in tema di opposizione a sanzione amministrativa (Cass. civ., 19 novembre 2007, n. 23978);
  • la determinazione del valore corrente degli immobili (Cass. civ., 28 febbraio 2008, n. 5232), che richiede acquisizioni specifiche di natura tecnica ed il preventivo accertamento di particolari dati estimativi, salvo che il valore medesimo venga in considerazione non già in funzione del prezzo di scambio dei beni, bensì come indice della capacità del titolare di adempiere le obbligazioni a suo carico, come nel caso di assegno di divorzio, poiché in tale ipotesi la valutazione deve ritenersi svincolata da rigorose determinazioni matematiche e può quindi giustificarsi anche in base a criteri elastici attinti alla coscienza collettiva media (Cass. civ., 3 febbraio 1992, n. 1133);
  • il fatto che il funzionamento delle caldaie a gas possa provocare emissioni di calore, oltre che di fumo, ossido di carbonio e scintille (Cass. civ., 16 dicembre 2019, n. 33154);
  • le opinioni sociologiche meramente soggettive e le regole di parziale valutazione della realtà, che costituiscono fatti a valenza solo suggestiva (Cass. civ., 29 ottobre 2014, n. 22950).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.