Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra

Danilo Galletti
14 Aprile 2020

Il D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. Decreto Liquidità) introduce, fra l'altro, una disciplina, in apparenza temporanea, che in sostanza disattiva le principali norme del diritto della crisi, senza introdurre strumenti ad hoc e realmente funzionali all'affermato disegno del superamento della crisi; e ciò anche in assenza di una effettiva preoccupazione per l'esigenza di discriminare in modo efficace fra imprese realmente colpite dalla crisi “CoVid 19”, oppure semplicemente e storicamente inefficienti, ed ancora imprese sane, magari proprio perché più efficienti delle altre; né tantomeno per l'altra non meno importante esigenza che, nel non breve arco temporale di vigenza di tale disciplina, siano effettivamente adottate decisioni finalizzate a conseguire obiettivi di ristrutturazione, e non già anche di matrice solo opportunistica. Ciò darà prevedibilmente causa ad un massiccio fenomeno di “selezione avversa”, che danneggerà proprio le imprese più efficienti, ponendo così anche probabilmente le basi per la definitiva “archiviazione” del Codice della Crisi.
Premessa

Il D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. Decreto Liquidità) introduce, fra l'altro, una disciplina, in apparenza temporanea, che in sostanza disattiva le principali norme del diritto della crisi, senza introdurre strumenti ad hoc e realmente funzionali all'affermato disegno del superamento della crisi; e ciò anche in assenza di una effettiva preoccupazione per l'esigenza di discriminare in modo efficace fra imprese realmente colpite dalla crisi “CoVid 19”, oppure semplicemente e storicamente inefficienti, ed ancora imprese sane, magari proprio perché più efficienti delle altre; né tantomeno per l'altra non meno importante esigenza che, nel non breve arco temporale di vigenza di tale disciplina, siano effettivamente adottate decisioni finalizzate a conseguire obiettivi di ristrutturazione, e non già anche di matrice solo opportunistica.

Ciò darà prevedibilmente causa ad un massiccio fenomeno di “selezione avversa”, che danneggerà proprio le imprese più efficienti, ponendo così anche probabilmente le basi per la definitiva “archiviazione” del Codice della Crisi.

Diritto “di guerra”

Il codice civile, nonché la legge fallimentare, come è noto, furono redatti e promulgati in tempo di guerra; eppure la loro chiarezza stilistica è inconfutabile, e la lungimiranza di tante norme ha fatto sì che esse sopravvivessero intonse sino ad oggi (si pensi solo alla nozione di “insolvenza”, trasferita di peso nell'art. 2 del CCII).

Il DL n. 23/2020 invece si segnala, oltre che per la spesso scarsa qualità della tecnica legislativa, anche per la sua natura asistematica, e per la inconcludenza delle opzioni adottate, tutte proiettate verso il mero disegno di “differire” nel tempo le conseguenze della crisi in atto, senza curarsi minimamente degli effetti non già soltanto a lungo, ma neanche di quelli a medio termine.

Si tratta, in sintesi, di un chiaro esempio di diritto “di guerra”, emanato però in tempo di pace, e dotato di meno coerenza ed efficacia rispetto alle norme che in passato sono state davvero congegnate durante conflitti bellici.

A me pare che un intervento come questo avrebbe dovuto porsi come obiettivi:

  1. quello di rifinanziare velocemente il circolante delle imprese colpite dalla crisi “CoVid”, tralasciando solo quelle palesemente e comunque irrecuperabili;
  2. quello di assicurare alle prime, riconosciuta la inadeguatezza degli strumenti giuridici attuali, rimedi idonei a superare prima la fase di incertezza, e poi a ristrutturare stabilmente le attività;
  3. quello di assicurare nel frattempo la competitività, anche internazionale, delle imprese rimaste sane, o comunque non eccessivamente colpite dalla stessa crisi.

Il tutto pur nella prospettiva di fondo di non assegnare “salvacondotti” per comportamenti opportunistici, e di “congelare” solo il terreno rispetto alla prossima, e soltanto differita, entrata in vigore del CCII.

Ne è invece scaturita la confezione di norme, fra l'altro spesso di difficile lettura ed applicazione, che al massimo cercano in modo confuso e parziale di perseguire l'obiettivo n. 1), nulla producono quanto al n. 2), ed addirittura controagiscono rispetto al n. 3.

In tal modo si pongono anche le premesse per il definitivo abbandono del CCII, la cui “filosofia di fondo” è semplicemente in insanabile conflitto con questo approccio.

Ci verrebbe anche da dire, ciò avviene non senza il concorso “sagace” di una certa parte, quella più deteriore, dell'anima “italica”, che non aveva mai recepito di buon occhio la spinta del CCII verso una maggiore sofisticatezza degli assetti organizzativi delle imprese, ed una maggiore responsabilizzazione dei controlli interni; un'anima che è distante mille miglia dalla reale volontà di premiare, o quantomeno di non pregiudicare, le imprese efficienti, incentivando al contempo quelle disfunzionali a dotarsi di assetti adeguati.

Molti ordinamenti occidentali si stanno orientando o si sono già orientati per l'adozione di misure giuridiche che discriminano fra i destinatari delle misure “agevolative”, destinando queste ultime soltanto alle imprese effettivamente colpite dalla crisi “CoVid”. Non così però, parrebbe, quello italiano.

Gestione del rischio delle imprese

All'opposto mi sembra che da un lato le imprese rimaste sane, o perché più patrimonializzate, organizzate in modo più efficiente, anche in modo da riuscire a “gestire il rischio” quasi catastrofico in questione, o perché non colpite in modo esiziale dalle misure di contenimento emergenziali adottate dallo Stato e dalle altre Autorità competenti, debbano essere lasciate libere di competere, potendo beneficiare anche del vantaggio di presentarsi sul mercato come “sane”; dall'altro che le imprese già in crisi irreversibile in precedenza debbano essere lasciate alle cure del diritto “comune”, previgente; ed infine quelle realmente colpite dagli effetti del CoVid, ma “recuperabili”, se esse chiedono tutela ed ”aiuto” allo Stato, debbano da un lato essere “identificate” come tali, con strumenti riconoscibili ed idonei a creare “affidamento”; e dall'altro divenire oggetto di strumenti anche introdotti ad hoc, appositamente destinati a regolare gli effetti di una situazione davvero nuova.

Il DL invece si premura sì da un lato di limitare l'erogazione di “crediti di firma” da parte di SACE a quelle imprese che non rientrassero già nelle categorie rispettivamente comunitaria e bancaria delle imprese “in difficoltà” o delle esposizioni “deteriorate” (art. 1, comma 2°, lett. b); e dall'altro limita l'impiego delle somme così erogate al sostegno di “costi del personale, investimenti o capitale circolante” (lett. n), espressione questa che non appare nemmeno troppo chiara ed esaustiva, costi peraltro relativi a stabilimenti o attività soltanto se ubicati in Italia (norma di dubbia compatibilità con l'ordinamento comunitario); ma nulla si richiede in ordine al previo accertamento della compatibilità di tali impegni con i propositi ristrutturativi; è evidente tuttavia che un eccessivo ricorso ora all'indebitamento (peraltro oneroso), favorito anche dalla ghiotta previsione di un preammortamento di due anni, può risolversi nel pregiudizio delle possibilità di risanamento dopodomani; con il rischio ulteriore che i richiedenti, ottenuto il finanziamento, comunque inutile al fine di perseguire la ristrutturazione, proprio per questo lo distolgano dalla funzione legale, distraendolo (magari, perché no, a vantaggio di patrimoni criminali, arrivandosi così persino a confermare i timori della peggiore stampa scandalistica tedesca); a tal fine non è previsto alcun controllo che possa apparire efficace: i (soli) finanziatori sono tenuti peraltro a rendicontare a SACE periodicamente (art. 1, comma 9°), anche in ordine al “rispetto da parte dei soggetti finanziari e degli stessi soggetti finanziatori degli impegni e delle condizioni”.

In sintesi il controllo sul corretto impiego, e prima ancora sulla congruità della stessa richiesta, è sostanzialmente rimesso da una parte all'autoresponsabilità dell'imprenditore (chiamato in sostanza a “documentare ed attestare” il rispetto delle condizioni - art. 1, comma 2°, lett. n), e dall'altra allo scrutinio ed ai controlli espletati dagli stessi finanziatori (l'art. 1, comma 6°, lett. b, fa esplicito riferimento ad una “delibera di erogazione”), non si sa peraltro alla luce di quali criteri (non possono infatti certo valere al riguardo le regole ordinarie, che indagano la meritevolezza creditizia in tempo “di pace”), e con quali poteri.

Sembra consentito che i finanziamenti siano concessi ed erogati anche più volte, sino al 31 dicembre 2020; ma il rispetto di principi di “corretta amministrazione”, clausola generale valida ed applicabile, se “adattata”, pur in questo periodo, vorrebbe che le imprese sopperissero “d'urgenza” alle esigenze immediate di finanziamento del circolante solo se la situazione non sia manifestamente irrecuperabile, attivando subito un percorso di autoanalisi delle proprie condizioni, e degli scenari futuri concretamente prevedibili, in modo da poter in tempi ragionevoli, non appena la situazione generale si sia consolidata, elaborare un piano di ristrutturazione che appaia pur “sostenibile”.

Ciò potrebbe essere compatibile con un'erogazione immediata nella misura strettamente necessaria per “riavviare” la dinamica del circolante, e con una successiva nuova richiesta di fondi che sia però compatibile con un disegno pianificatorio più strutturato.

Ma chi assicura che ciò accadrà veramente? E nel modo corretto?

Non certo i soggetti finanziatori, che anzi si troveranno in condizioni persino peggiori del solito nell'attività di screening delle richieste, pressati dall'”ondata emotiva” che colloca immancabilmente al primo posto la finalità di “evitare la chiusura di ogni impresa, ad ogni costo”.

La peculiarità della situazione, unitamente all'assenza di qualsiasi norma che attenui o regoli la eventuale successiva responsabilità del finanziatore (il cui rischio di secondo livello potrà anche essere coperto quasi integralmente dalla garanzia SACE, ma ciò non esclude che esso possa rispondere poi verso i terzi per una gestione malaccorta del rapporto creditizio, così come il personale medico e sanitario), farà sì che o i finanziamenti verranno concessi in assenza di qualsiasi controllo efficace (reputando la verifica impossibile, e “necessaria” l'erogazione, nello stesso spirito della Legge, per “rimettere in moto ad ogni costo” la macchina); oppure che essi non verranno concessi affatto, riscontrandosi la mancanza di “copertura” nella disciplina di vigilanza vigente, e così per il timore di incorrere poi in stigmatizzazioni a posteriori di un proprio comportamento troppo “coraggioso”.

Dunque o tale disciplina approderà a conseguenze non desiderabili (cfr. supra); oppure non conseguirà nemmeno quegli obiettivi (pur in gran parte errati) che si pone, ivi compreso il rifinanziamento rapido del circolante; ma comunque essa produrrà con certezza e comunque il differimento di tutti gli istituti principali del diritto della crisi, in modo pressoché automatico (v. infra); e questo anche se in favore di imprese che non possono o non riescono ad accedere alle “provvidenze”.

Tale assetto normativo, comunque, anche ove le erogazioni avvenissero copiosamente, renderà a mio avviso impossibile creare un reale affidamento nelle controparti dei soggetti finanziati, incapaci le prime di discriminare fra imprese che ce la possono fare, ed imprese che in realtà non hanno nessuna speranza, ma vengono tenute soltanto in stato di “vita apparente”; come non renderà possibile per le imprese realmente “sane”, non toccate se non marginalmente dalla crisi CoVid, segnalare ai terzi la propria maggiore qualità.

Con un conseguente massiccio effetto di selezione avversa, che paradossalmente colpirà e danneggerà proprio le imprese più efficienti.

Imprese alle quali sarà poi realmente difficile far digerire in futuro l'esigenza di adottare le sofisticate misure preventive adottate dal CCII; imprese che magari avevano già iniziato a dare attuazione all'art. 2086 c.c., e che realizzeranno bruscamente che, come al solito, nel nostro paese, cercare di porsi in posizione di compliance con le prassi più virtuose non può che risolversi in uno svantaggio competitivo.

Non migliore sembra poter essere la valutazione delle norme che sono apprestate per esentare le imprese dal rispetto di alcuni obblighi il cui permanere indifferenziato potrebbe in effetti compromettere, data la eccezionalità della situazione, proprio l'obiettivo del risanamento.

Se quasi tutte le voci che si erano sollevate in tale direzione avevano esplicitamente suggerito di limitare le esenzioni alle sole imprese concretamente colpite dagli effetti della crisi CoVid, invece il Legislatore ha perseguito un obiettivo di assai più basso profilo: dunque da un lato tutti gli obblighi legali di ricostituzione del capitale sociale sono sospesi sino al 31 dicembre 2020 (art. 6), ma questo per tutte le imprese, senza operare distinzioni, e con un intervento che sembrerebbe “mimare” l'art. 182sexies l.f., e purtuttavia con elementi gravemente distonici: l'esenzione prescinde completamente da qualsiasi “controllo pubblicistico”, posto che viene concessa a prescindere dall'applicazione di qualsiasi disciplina che presupponga l'assegnazione di “poteri” a soggetti terzi in grado di fare verifiche sulla gestione; e la “curiosa dimenticanza”, nella “ricopiatura”, del comma 2° dell'art. 182sexies, legittima addirittura il sospetto che si sia inteso non solo l'art. 2486 c.c., ma anche la sua logica di fondo (ispirata alla tutela del ceto creditorio sulla base dell'art. 2394 c.c.) come radicalmente inapplicabili in questo periodo; con conseguenze in quest'ultimo caso potenzialmente più catastrofiche dello stesso virus.

Perché a cambiare non possono e non devono essere la gerarchia fra i valori tutelati dall'ordinamento, bensì gli strumenti utilizzabili a tal fine: l'ordinamento ora non deve tutelare la prosecuzione dell'impresa in sé, anche nella prospettiva dello “accanimento terapeutico”; ma deve tutelare sempre, ma in modo nuovo e “diverso” dalla situazione pre- CoVid, la continuità come soluzione che nella ordinarietà dei casi consente di massimizzare la cura del vero valore tutelato, che è e resta quello dei creditori.

Come il malato di CoVid, che non si può pensare di curare efficacemente sottraendo risorse necessarie a tutti gli altri malati, anche per patologie diverse ma sempre gravi: occorre piuttosto rinvenire soluzioni “di sistema”.

“Disattivazione di fatto” del concetto di continuità aziendale

Ancora più singolare è l'art. 7, ove viene in sostanza recepita la “disattivazione di fatto” del concetto di continuità aziendale;

concetto divenuto finalmente centrale, nel diritto della crisi, grazie all'interpolazione dell'art. 2086 c.c., già in vigore, ed a proposito del quale il Legislatore “di guerra” sembra aver rinunziato a priori a qualsiasi tentativo di adattamento interpretativo alla situazione eccezionale prospettatasi; dunque la continuità può essere comunque adottata come principio di redazione nei bilanci ancora da approvarsi, a condizione che tale presupposto fosse rinvenuto nei bilanci già chiusi, ossia redatti, in data antecedente al 23 febbraio 2020; l'approvazione di tali bilanci potrà avvenire, in forza dell'art. 106, comma 1°, del D.L. n. 18/2020, comunque entro il 30 giugno 2020, ma in ogni caso l'appostazione delle varie grandezze potrà essere fatta sulla base della prospettiva di continuità, parrebbe di capire, a prescindere dal suo riscontro positivo attuale, a condizione che tale criterio fosse stato adottato nell'ultimo bilancio chiuso prima del 23 febbraio 2020, anche se non ancora approvato.

D'altro canto per concludere comunque nel senso della permanenza della continuità bisognerebbe prestare fiducia nei confronti della logica dell' #andratuttobene: rectius occorrerebbe avere la quasi certezza che comunque lo Stato salverà “tutte” le imprese. Ma nel frattempo di strumenti giuridici realmente idonei a tal fine non se ne vedono proprio (cfr. infra).

La norma sembra dover essere interpretata in tal senso, atteso che essa precisa che il criterio deve sì essere illustrato nella nota integrativa del bilancio interessato, ma “anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente”.

La qualità dell'intervento è invero modesta, le incertezze non poche, e soprattutto il concetto di “continuità” che sembra emergerne è stantio, esclusivo della materia dei bilanci, ed apparentemente scisso dalla prospettiva, ormai affermatasi, anche grazie all'introduzione del comma 2° dell'art. 2086 c.c., per cui si tratta di una condizione che deve accompagnare la vita della società per tutta la sua durata, e da accertarsi non solo periodicamente, in occasione dell'approvazione del bilancio annuale di esercizio.

Mi pare tuttavia che difficilmente potrà ritenersi ex post che gli amministratori dovessero prendere atto tempestivamente della perdita della continuità aziendale, nel corso dell'esercizio 2020, anche in conseguenza degli effetti della crisi CoVid, ed attuare i comportamenti di cui all'art. 2086 c.c., qualora il presupposto oggettivo in discussione fosse suscettibile di essere mantenuto, secondo l'art. 7, a proposito del bilancio dell'esercizio in corso.

Tutto ciò a condizione che l'accertamento della continuità fosse contenuto in un bilancio “chiuso”, id est redatto (non si comprende davvero, a causa della povertà tecnica della redazione della norma, se anche approvato dal c.d.a.), prima del 23 febbraio 2020.

Risulta però evidente che altrettanto difficilmente i c.d.a. delle società italiane avranno approvato i progetti di bilancio relativi all'esercizio 2019, prima del 23 febbraio 2020; nel qual caso dovrà farsi riferimento ai bilanci del 2018; e la Legge non individua d'altro canto modalità per considerare attendibili le effettive datazioni dei bilanci approvati successivamente; non pare però potersi dubitare che il Legislatore abbia accettato di “fidarsi” di documenti comunque datati prima di tale spartiacque, a prescindere dalla “certezza” del riferimento temporale.

Nel Paese di Pulcinella, dunque, l'invito a precostituirsi disinvoltamente le condizioni per l'applicazione delle norme “di favore” mi pare palpabile; con l'analogo risultato di concedere una esenzione dall'applicazione di norme poste a tutela dei terzi per qualsiasi impresa, a prescindere dal fatto che essa sia stata realmente interessata dalle conseguenze della crisi CoVid, e dalle dimensioni concrete di tale influsso.

E questo senza nemmeno riflettere sulla eventuale possibilità di “adattare” il concetto di continuità alla peculiarità della situazione, in modo da non abbandonarne incondizionatamente le virtù precettive.

Ancora, l'applicazione delle norme di cui agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., in tema di postergazione del credito del socio finanziatore della società, viene sospesa sino al 31 dicembre 2020 (art. 10), senza fare alcun tipo di discriminazione; e questo nonostante la oramai acquisita considerazione sistematica del ruolo di norme “materiali”, di “ordine pubblico economico”, poste a tutela di un principio generale di “correttezza del finanziamento all'impresa”; chiaro indice del fatto che si persegue la finalità della ricerca di liquidità “ad ogni costo”, ed a prescindere da qualsiasi considerazione sulla adeguatezza della struttura finanziaria dell'impresa.

Obiettivo che non viene perseguito solo in una “fase iniziale”, nella prospettiva della necessaria “ripartenza”, in attesa di poter formulare previsioni e pianificazioni più affidabili, ma sino al 31 dicembre 2020 (salve eventuali ulteriori proroghe, che non è poi così difficile ipotizzare).

In conclusione

Infine, il DL introduce una serie di disposizioni dedicate al concordato preventivo ed agli accordi di ristrutturazione (art. 9), ma con riferimento esclusivo alle procedure già omologate, o ancora pendenti.

Dunque per i concordati (e gli accordi) in corso di esecuzione, il termine per l'adempimento viene prorogato ex lege di sei mesi; fanno eccezione, parrebbe, i concordati ove l'inadempimento sia già maturato, e quelli ove il termine scada dopo il 31 dicembre 2021. Nessun accertamento è richiesto circa la eziologia del ritardo, rispetto agli effetti della crisi CoVid: ancora una proroga indiscriminata. E nessuna possibilità di modificare il piano omologato, con o senza il concorso dell'approvazione del ceto creditorio (la procedura, del resto, è ormai chiusa).

Nei concordati pendenti, giunti alla fase dell'omologazione, il debitore può invece modificare il piano (la legge dice “presentare un nuovo piano”, ancora una volta con scarsa precisione ed aderenza alla realtà dei fenomeni), nel qual caso il ceto creditorio (parrebbe) dovrà essere nuovamente chiamato ad esprimersi; ancora una volta non si richiede un accertamento circa l'impatto della crisi “Covid”; tale accertamento sembra invece necessario se il debitore sceglie di procrastinare solo il termine per l'esecuzione, degli stessi sei mesi “monetizzabili” nei piani in corso di esecuzione; diversamente non si comprenderebbe perché l'art. 9 richieda il deposito della “documentazione che comprova la necessità della modifica”; in tal caso parrebbe però che non occorra una nuova pronuncia dei creditori; ma va ricordato anche che l'art. 179 l.f. consente comunque al creditore di costituirsi nel giudizio di omologa quando siano variate le condizioni di fattibilità, e pare arduo non rinvenire i presupposti per applicare quest'ultima norma.

L'accertamento in concreto della ricorrenza degli effetti della crisi CoVid sembra poi richiesto esplicitamente quanto alla proroga del termine (di soli novanta giorni) per redigere il piano e la proposta, nel concordato “con riserva”; anche se la norma del DL non sembra porsi il problema del coordinamento con l'eventuale proroga del termine già riconosciuta automaticamente in forza del “periodo cuscinetto” dell'art. 83 D.L. n. 18/2020.

Infine qualsiasi ricorso per la dichiarazione di fallimento, od anche per l'accertamento dello stato di insolvenza, proposto, parrebbe, da chicchessia (persino dal debitore!) fra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020 (termine quest'ultimo che sembra “naturalmente” destinato ad una o più future proroghe, come tutti quelli introdotti sinora dalla legislazione “emergenziale”), è destinato alla improcedibilità; rectius, parrebbe, il procedimento non potrà essere trattato, e non sarà anche immediatamente oggetto di una pronunzia di rigetto/chiusura, esattamente come quando la pendenza dell'istruttoria prefallimentare è contemporanea a quella del concordato; peccato però che non si richieda, a tal fine, la pendenza di nessuna procedura concorsuale.

E peccato che così non si consenta nemmeno l'auto-fallimento dell'impresa che avverta di essere ormai palesemente irrecuperabile, magari per cause tutte antecedenti alla manifestazione del terribile morbo; rivelando dunque l'obiettivo reale, nemmeno tanto recondito, ed intriso di propositi di auto-legittimazione politica, dell' “avanti tutte, ad ogni costo”.

E peccato anche che le istanze di fallimento formulate dai legittimati nell'ambito dei concordati pendenti, nelle fasi tipiche in cui il procedimento è chiamato ad arrestarsi (artt. 162- 173- 180 l.f.), richiami l'art. 15 solo quanto alle forme: non si tratta dunque di “ricorsi ai sensi dell'art. 15”; dunque si potrà fallire in esito alla chiusura di un concordato, e non in via autonoma? E perché discriminare le situazioni dei debitori i quali siano stati destinatari di istanze di fallimento in via autonoma, riunite o comunque trattate parallelamente al concordato (che sono veri “ricorsi ai sensi dell'art.15”), e quelli che invece siano destinatari di richieste analoghe ma “interinali”? Ancora una volta una maggiore conoscenza della realtà non avrebbe guastato, anche quanto alla tecnica legislativa.

Sorprendente poi è l'affermazione della possibilità di trattare la sola richiesta di fallimento presentata dal P.M. con istanza per la concessione di provvedimenti cautelari (art. 15, comma 8°, l.f.), e non già anche dell'istanza del legittimato privato che pure abbia instato per la concessione di analoghi provvedimenti; e questo benché la trattazione dei procedimenti cautelari sia consentita ordinariamente anche quando il processo è sospeso.

Niente di specifico a tutela delle posizioni contrattuali di cui sono titolari gli imprenditori in difficoltà, che costituiscono spesso il vero “attivo” delle imprese, e che potrebbero venire risolti in questo periodo per inadempimento, o per l'uso di poteri convenzionali di scioglimento; niente se non la fumosa e sibillina clausola di cui all'art. 91 DL n. 18/2020, destinata a creare non pochi grattacapi ai giuristi.

Il giudizio in ordine a tali innovazioni legislative non pare poter essere altro che negativo.

Il Legislatore ha così posto le basi, come si accennava prima, per una potente ondata di “selezione avversa”, ove le imprese “sane” troveranno quasi impossibile segnalare la propria maggiore efficienza, e dunque saranno valutate dalle controparti in modo deteriore rispetto alla loro oggettiva “meritevolezza”; di contro, molte imprese, anche in realtà non meritevoli, che avranno beneficiato di questa ondata di benefici “a pioggia”, saranno sopravvalutate da operatori economici che così impareranno, per il futuro, che il mercato italiano non offre alcuna premialità per i soggetti più meritevoli, anzi, tutt'il contrario.

E dire che le opzioni disponibili non erano così scarse.

La peculiarità assoluta della crisi “Covid19”, crisi di natura non solo finanziaria, ma anche economica, a dispetto di quanto spesso si ode, consiste nella circostanza per cui non risulta possibile, allo stato attuale, pianificare in termini precisi il percorso teso alla ristrutturazione; né è parimenti possibile prevedere, con ragionevole probabilità, gli scenari futuri prospettabili; dunque gli istituti tradizionali del concordato preventivo (ed anche dell'amministrazione straordinaria) appaiono inadeguati a fornire la via d'uscita.

Invece di assecondare le istanze più bieche ed opportunistiche del ceto imprenditoriale, e di cedere ancora una volta all'emotività (la logica del “se non si aprono le porte dell'hangar sarà un'ecatombe”), il Legislatore avrebbe potuto e dovuto:

  • Introdurre un procedimento, semplice e rapido, affidato al Giudice fallimentare in composizione monocratica, al fine di accertare la incidenza sul disequilibrio dell'impresa della crisi “Covid19”; a tal fine si sarebbe potuto trarre esempio ad esempio del procedimento di accertamento tecnico preventivo; tale accertamento avrebbe potuto costituire condizione necessaria per l'accesso ai “benefici”, fra i quali, oltre all'accesso ai finanziamenti “pubblici” e alle altre provvidenze già esaminate, anche la impossibilità di dichiarare il fallimento per un periodo di tempo definito, con il blocco delle azioni esecutive; il vaglio positivo dei presupposti dovrebbe costituire condizione necessaria per l'accesso alle varie “provvidenze” (ivi comprese le “esenzioni” di cui sopra); se del caso, con anticipazione di determinati effetti al momento del deposito del ricorso, salvo conferma successiva (come avviene nel CCII per le misure protettive); ed anche con possibilità di provvedimenti immediati, a partire dal ricorso, che consentano di accedere subito ad erogazioni di finanziamenti nella misura minima necessaria a rifinanziare il circolante, ove non sia già evidente lo status di impresa irrecuperabile, e rinvio dell'accertamento più complesso;
  • Disegnare tale procedimento in modo da assicurare il successivo monitoraggio continuo sull'impresa ammessa ai benefici, anche nel prosieguo, in modo da assicurare in modo efficiente ed imparziale il rispetto delle condizioni di legge: a tal fine si sarebbe potuto “estendere” la sfera di influenza del Giudice dell'ATP dopo il deposito della relazione tecnica, oppure trarre ispirazione da istituti quali l'amministrazione di sostegno; non una procedura concorsuale dunque (le difficoltà anche nell'organizzazione del lavoro dei magistrati rendono tale prospettiva forse assai ardua da percorrere adesso; ma non dimentichiamo che i Magistrati sono pubblici funzionari già addestrati da anni a trattare procedimenti solo in via telematica; perché dovrebbero essere meno capaci di affrontare l'emergenza dei medici? Non sarà che i “timori” espressi rispetto alla loro attuale resilienza sono motivati dal desiderio di affrancarsi dal controllo pubblico? Magari per buttarsi fra le braccia dell'ennesimo “attestatore indipendente” privato?), ma un procedimento ove un soggetto, nominato dal Giudice, continua a monitorare l'azienda, ed a costituire un punto di riferimento tanto per il Giudice quanto per l'imprenditore;
  • Introdurre temporaneamente una nuova procedura concorsuale, semplificata, simile alla vecchia amministrazione controllata, caratterizzata dalla impossibilità di aprire il fallimento, e dal blocco delle azioni esecutive dei creditori; procedura impostata come un “contenitore di sicurezza” per l'impresa in crisi, crisi influenzata negativamente dai provvedimenti emanati per contrastare il virus, con nomina di un Commissario e presenza costante del Giudice, in funzione di monitoraggio, anche sul rispetto delle condizioni di legge per l'erogazione delle varie ”provvidenze”; una “fase di osservazione prolungata”, in attesa di poter individuare il percorso idoneo a conseguire la ristrutturazione, quando la procedura si potrebbe finalmente “convertire” in concordato preventivo.

Un set di strumenti ad hoc per le imprese “contagiate”, insomma; come già avviene per i malati CoVid, e la istituzione di strutture sanitarie “dedicate” al loro trattamento, separate da quelle comuni.

Le imprese la cui crisi trovi causa esclusivamente negli eventi “Covid19” potrebbe accedere a propria scelta a ciascuna delle procedure di cui sopra.

Le imprese già in crisi, ma che comunque abbiano riportato un deterioramento rilevante a seguito di tali eventi, potrebbero invece accedere solo alla neo- “amministrazione controllata”; e i concordati preventivi eventualmente già pendenti per esse, ove sia riscontrabile l'ultima situazione, potrebbero essere “convertiti” in neo-amministrazioni controllate.

Le imprese non “salvabili” invece non potrebbero che essere avviate al fallimento (altro che “improcedibilità”), anche subito.

Non ritengo implausibile nemmeno la valutazione della possibilità che i creditori siano legittimati ad instare presso il Tribunale per l'apertura della neo-amministrazione controllata del loro debitore, ove dimostrino che la permanenza delle condizioni di vita ordinarie, in bonis, o il ricorso ad uno degli altri procedimenti, sia inadeguato a conseguire l'obiettivo della ristrutturazione (e del rispetto delle condizioni di legge per la concessione delle provvidenze).

In tal modo potrebbero essere conseguiti tutti gli obiettivi di immediata “riattivazione” delle imprese, ma solo per quelle “salvabili”, ed al contempo tanto il controllo sul rispetto delle regole di condotta minime essenziali, quanto la competitività di tutte le imprese, soprattutto di quelle ancora “sane”, con esclusione degli effetti più esiziali della “selezione avversa”.

E soltanto in tal modo, ritengo, si potrebbe pensare di essere credibili nel prospettare l'entrata in vigore, sia pure differita, del CCII, altrimenti a mio sommesso avviso destinato alla definitiva “archiviazione” ed all'oblio … insieme con il “sogno di una notte di mezz'estate di vedere le imprese italiane sposare finalmente le prassi più virtuose.

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