Nessuna soluzione di continuità per il reato di bancarotta fraudolenta con l'entrata in vigore del codice della crisi

15 Aprile 2020

Le modifiche alle procedure concorsuali conseguenti all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 14/2019 non hanno alcun riflesso sulla disciplina penalistica e quindi non vi è alcuna discontinuità del precetto penale (né la risposta sanzionatoria risulta diversa).
Massima

Le modifiche alle procedure concorsuali conseguenti all'entrata in vigore del D.lgs. n. 14/2019 non hanno alcun riflesso sulla disciplina penalistica e quindi non vi è alcuna discontinuità del precetto penale (né la risposta sanzionatoria risulta diversa).

Il caso

L'amministratore di una società, dopo aver fatto ricorso al rito concordato di applicazione della pena (patteggiamento) per il reato di bancarotta, essendogli stato contestato di aver cagionato il dissesto della società da lui amministrata in conseguenza della redazione di una serie di bilanci mendaci (avendo occultato, nei bilanci di esercizio della fallita, perdite tali da annullare il patrimonio netto, così cagionando il dissesto della stessa), presentava ricorso in cassazione lamentando la mancata rilevazione, da parte del giudice, dell'intervenuta abolitio criminis conseguente all'entrata in vigore degli artt. 389 e 390 d.lgs. n. 14/2019, in quanto la riforma della legge fallimentare, operata con il citato decreto legislativo, avrebbe modificato la legge extrapenale posta a fondamento delle norme penali incriminatrici di cui agli artt. 216 R.D. n. 267 del 1942

La questione

Le modifiche alle disposizioni penali in tema di fallimento di cui agli artt. 216 ss. R.D. n. 267/1942 operate con il D.Lgs. n. 14/2019 sono state pochissime e di scarso rilievo. In particolare, oltre alla nuova sedes della disciplina della bancarotta e degli altri reati fallimentari, la quale oggi è contenuta nel Titolo IX del nuovo Codice, dedicato alle “Disposizioni penali” (artt. 322-347) ed alla sostituzione delle espressioni di fallimento e fallito con quelle di “società in liquidazione giudiziale”, “imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale” o “amministratore di società dichiarata in liquidazione giudiziale“, si registrano abrogazioni di alcune fattispecie di reato, peraltro ormai già in via di prassi scomparse dalle aule di giustizia.

In particolare, limitandosi ai reati che interessano i dirigenti apicali dell'azienda in crisi, sono stati eliminati:

  • l'art. 221 legge fallimentare, in tema di rito sommario nel fallimento, procedura ormai scomparsa;
  • l'art. 235 relativo all'omessa trasmissione dell'elenco dei protesti cambiari al presidente del tribunale, obbligo non più in vigore;
  • il delitto di omissione di beni dell'inventario nella domanda di liquidazione di cui all'art. 14 della vigente Legge n. 3/2012, sul sovraindebitamento.

Sempre con riferimento ai vertici aziendali, sono state poi introdotte alcune nuove fattispecie di reato ed in particolare:

  • l'art. 344, comma 2, del Codice della crisi sanziona il debitore incapiente che, per accedere all'esdebitazione, produce documenti falsi o contraffatti o distrugge quelli che permettono la ricostruzione della propria situazione debitoria;
  • l'art. 345 del medesimo testo normativo sanziona le falsità nelle attestazioni dei componenti degli organismi di composizione della crisi (OCRI) relative ai dati aziendali del debitore che voglia presentare domanda di concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei debiti. Si noti tuttavia che la novità di tale previsione incriminatrice è solo apparente posto che, per espressa indicazione presente nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 14/2019, tale disposizione è modellata su quella dell'art. 342 (falsità in attestazioni per l'accesso al concordato), che, a sua volta, riproduce il contenuto dell'art. 236-bis (falso in attestazioni e relazioni) R.D. n. 267/1942.

Con la riforma sono state poi introdotte alcune cd. misure premiali ovvero incentivi rivolti agli imprenditori o amministratori di società affinché operino per far emergere tempestivamente la crisi d'impresa e consentire alle aziende ancora sane di evitare l'insolvenza, agevolando lo svolgimento di trattative tra debitore e creditori. Alcuni di tali benefici – richiamati dal primo comma dell'art. 25 D.lgs. n. 14/2019 - riconosciuti all'imprenditore che si attiva prontamente per la rilevazione dello stato di crisi della sua azienda, hanno una valenza prettamente economica (si pensi alla riduzione degli interessi sui debiti tributari ed alla riduzione delle sanzioni per l'inadempimento degli obblighi di versamento delle imposte), mentre il comma 2 dell'art 25 prevede che, “quando nei reati di cui agli articoli 322, 323, 325, 328, 329, 330, 331, 333 e 341, comma 2, lettere a) e b) [ovvero, tutte le fattispecie di bancarotta, il ricorso abusivo al credito, i reati dell'institore, i reati commessi in sede di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione], limitatamente alle condotte poste in essere prima dell'apertura della procedura, il danno cagionato è di speciale tenuità, non è punibile chi ha tempestivamente presentato l'istanza all'organismo di composizione assistita della crisi d'impresa ovvero la domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza di cui al presente codice se, a seguito delle stesse, viene aperta una procedura di liquidazione giudiziale o di concordato preventivo ovvero viene omologato un accordo di ristrutturazione dei debiti”.

Fra le modifiche che hanno interessato la formulazione lessicale delle disposizioni di cui agli artt. 216 ss. R.D. n. 267/1942, rientra anche la parziale riformulazione dell'art. 223, comma 2, nn. 1 e 2, il quale, nella versione attualmente in vigore, punisce gli amministratori, i sindaci, i direttori generali ed i liquidatori che, con varie modalità, cagionino il fallimento della società, mentre, dopo la riforma, all'espressione “fallimento” è subentrata l'espressione “dissesto”, sicché appunto è quest'ultimo (e non più il fallimento) ad essere l'esito finale della condotta delittuosa dei dirigenti dell'impresa. La modifica è di scarso rilievo, giacché da sempre la giurisprudenza ha ritenuto che l'espressione “fallimento” che compare nel comma secondo del citato art. 223 vada intesa non come riferita alla pronuncia giudiziaria che apre la procedura concorsuale (evento rispetto al quale, trattandosi di una sentenza, non è ipotizzabile attribuire efficace causale al comportamento del singolo), bensì allo stato di crisi dell'azienda (il dissesto economico appunto), il quale viene appunto cagionato da condotte delittuose dell'amministratori o altri soggetti apicali (Cass., sez. V, 29 aprile 2003, n. 19806); di talché la modifica lessicale del termine altro non ha fatto che prendere atto dell'interpretazione giurisprudenziale.

La soluzione giuridica

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Cassazione.

La Suprema Corte osserva in primo luogo come le norme in base alle quali il Tribunale ha pronunciato la sentenza di patteggiamento risultano ancora in vigore, posto che le nuove norme incriminatrici contenute nel decreto legislativo 12 gennaio 2019 n. 14 entreranno in vigore, a norma dell'art. 389 del medesimo decreto, solo decorsi diciotto mesi dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 14 febbraio 2019, e, quindi il 15 agosto 2020.

In secondo luogo, si evidenzia che le nuove norme appaiono in perfetta continuità normativa con le precedenti norme contenute del Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267. In particolare, la Cassazione – raffrontando la lettera dell'attuale 223, comma 2, n. 1, R.D. n. 267 del 1942 e l'art. 329 del d.lgs. n. 14 del 2019 – evidenzia che non vi è alcuna discontinuità del precetto penale (né la risposta sanzionatoria risulta diversa) che subentrerà all'attuale disciplina.

Infine, non rilevano, secondo la Cassazione, nel caso di specie, le modifiche introdotte nelle norme civilistiche che presiedono ai presupposti della liquidazione dell'impresa ed alla procedura da seguire, posto che la sostituzione dell'espressione "fallimento" con quella di "liquidazione" non modifica il presupposto, l'"insolvenza dell'impresa", su cui si fondano le norme penali, che, difatti, sono rimaste immutate, tranne nell'aggiornamento del lessico dei nuovi presupposti di applicabilità –, così parimenti non rilevano la diversa distribuzione di compiti e poteri del giudice delegato, del curatore, dei creditori e del soggetto interessato e le diverse scansioni processuali.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione è sicuramente corretta nella parte in cui esclude che la modifica della disciplina della procedura concorsuale possa aver determinato una “frattura” nella continuità normativa della normativa in tema di bancarotta fraudolenta.

Tuttavia, va evidenziato come la figura di reato della bancarotta da dissesto societario, sia nella sua forma dolosa disegnata dall'art. 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267 del 1942, che nella sua tipologia colposa cui fa richiamo il numero 2 del successivo art. 224 dello stesso testo normativo, possa venire ad assumere una diversa portata applicativa non in ragione di modifiche espresse apportate dalla riforma alle predette previsioni incriminatrici, quanto considerando come nell'impostazione presente nel d.lgs. n. 14 del 2019 la gestione della crisi economica rappresenti la modalità comportamentale richiesta all'imprenditore per anticipare, prevenire e contenere le conseguenze dannose del possibile stato di insolvenza dell'azienda: si pensi in proposito al combinato disposto:

1) del secondo comma all'art. 2086 c.c. - oggi significativamente rubricato “Gestione dell'impresa” -, che estende a tutti gli imprenditori l'obbligo «di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale»,

2) dell'art. 3 d.lgs. n. 14 del 2019 (Obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell'insolvenza), con cui si precisa che l'imprenditore collettivo «deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell'art. 2086 del codice civile ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell'assunzione di idonee iniziative»,

3) e dell'art. 14 dello stesso testo (Obbligo di segnalazione degli organi di controllo societari), che, al primo comma, pone a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e della società di revisione, ciascuno nell'ambito delle proprie funzioni, «l'obbligo di verificare che l'organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l'assetto organizzativo dell'impresa è adeguato, se sussiste l'equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l'esistenza di fondati indizi della crisi».

Indiscutibilmente, la violazione di tali obblighi di previsione e/o prevenzione della crisi aziendale e di ottimale gestione dell'eventuale successivo stato di insolvenza rivestirà un rilievo primariamente civilistico, ma pare di poter sostenere altresì che, quando si sia in presenza di una intenzionale mancata adozione degli strumenti per la valutazione e gestione dei rischi di insolvenza dell'impresa e tale inadempienza si rilevi un fattore causativo del fallimento (melius, se ne evidenzi la rilevanza eziologica sull'ammontare del dissesto registrato al momento dell'apertura della procedura concorsuale), la scellerata scelta degli origani di vertice dell'azienda potrà senz'altro essere sussunta all'interno della previsione di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267 del 1942.

Del pari, allorquando l'inadeguatezza della compliance sarà stata determinata da negligenza o mancata cautela, nulla impedirà di richiamare il meno severo reato di cui all'art. 224, numero 2, L.F..

Analoga conclusione potrebbe essere assunta in caso di inadeguatezza dell'assetto organizzativo e/o del piano di risanamento, posto che assai agevolmente, laddove dovessero emergere lacune nelle procedure che hanno portato ad una determinata scelta organizzativa – poi rivelatasi dannosa – o una superficiale e scarsa istruttoria, o una incompleta ricognizione delle condizioni operative dell'impresa, si potrebbe sostenere la sussistenza di una negligenza gestionale che si è poi riflessa in un'errata scelta organizzativa.

In particolare, tale soluzione sarebbe obbligata quando si dovesse dimostrare un'effettiva incidenza causale dell'inidoneità del sistema organizzativo adottato rispetto al verificarsi (o aggravarsi) del dissesto, potendo la distanza tra la regola di comportamento attesa e assunta come doverosa, ed il comportamento tenuto nel caso specifico, fungere da elemento di valutazione per la ricostruzione dell'elemento soggettivo che ne ha accompagnato la realizzazione.

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