Inidoneità sopravvenuta alla mansione: obbligo di accomodamenti ragionevoli e legittimità del licenziamento
15 Aprile 2020
Massima
Nel caso di licenziamento del lavoratore disabile, il datore di lavoro è tenuto a provare che non vi sia la possibilità di adottare ragionevoli accomodamenti al fine del mantenimento del posto di lavoro.
In tale ipotesi, infatti, sul datore di lavoro non grava un semplice obbligo di repechage, ma l'obbligo di adottare provvedimenti di natura organizzativa al fine di mutare il contesto lavorativo in funzione delle esigenze del lavoratore disabile ed eventualmente individuare, nell'ambito della propria organizzazione lavorativa, mansioni che il lavoratore disabile possa utilmente svolgere. Tale obbligo, tuttavia, deve essere contemperato con le necessità organizzative aziendali e non può arrivare a comportare lo stravolgimento del contesto organizzativo. Il caso
Un lavoratore era divenuto inabile alla mansione cui era addetto. Il giudizio di inidoneità reso dal medico competente non era stato oggetto di impugnazione.
In ragione di ciò, il datore di lavoro comunicava al lavoratore il licenziamento per impossibilità sopravvenuta della prestazione, in quanto l'inidoneità definitiva alla mansione non consentiva più la “sua proficua utilizzazione e […] all'interno dell'Azienda non si ravved[evano] possibilità di sua diversa assegnazione lavorativa". Le questioni
La questione è inerente al difficile bilanciamento fra interesse alla tutela del lavoratore disabile e tutela alla libertà economica.
Se, da un lato il lavoratore disabile ha certamente diritto al lavoro, nonostante la propria condizione fisica, occorre tuttavia chiedersi a quali comportamenti ritenere obbligato il datore di lavoro al fine di perseguire tale diritto del lavoratore. Deve infatti essere altresì preservato il libero esercizio dell'attività economica che dovrebbe garantire al datore di lavoro la massima libertà organizzativa.
Si deve precisare che la questione attiene al lavoratore divenuto inabile successivamente all'instaurazione del rapporto di lavoro: per le norme relative al collocamento dei disabili si v. invece l. n. 68 del 1999. Soluzioni giuridiche
Tradizionalmente, l'orientamento lavoristico italiano propendeva in maniera pressoché assoluta verso l'interesse datoriale.
Secondo il precedente – e assolutamente dominante – orientamento giurisprudenziale in materia, infatti, la sopravvenuta inidoneità parziale alla mansione del lavoratore comportava pacificamente il diritto di recesso datoriale, inquadrato entro le maglie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cfr. Cass., sez. un., n. 7755 del 1998).
L'unico limite riconosciuto alla libertà di licenziamento era la verifica del repechage: il datore di lavoro doveva dimostrare che nessuna altra collocazione libera in azienda era compatibile con lo stato di salute del lavoratore.
In tale contesto l'Italia ha dovuto recepire l'art. 5, direttiva CE n. 2000/78 che affronta il bilanciamento fra interessi del lavoratore divenuto disabile e interessi dell'impresa in maniera diametralmente opposto rispetto all'orientamento tradizionale italiano.
Il recepimento della norma eurounitaria è infatti avvenuto “forzatamente” a seguito della pronuncia della Corte di giustizia di condanna per l'Italia (causa C-312/2011 del 4 luglio 2013), attraverso l'adozione dell'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003. Tale norma stabilisce che “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
La norma, poi , non può che essere interpretata alla luce dell'art. 5 direttiva europea che precisa il significato della locuzione “accomodamenti ragionevoli” statuendo espressamente che “Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
Il 21° considerando della direttiva statuisce inoltre che “Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
Il mutato quadro normativo ha condotto a un mutamento dell'orientamento giurisprudenziale?
Devono segnalarsi due precedenti della Suprema Corte ove iniziano a vedersi in nuce i primi passi verso la trasazione ad un più moderno bilanciamento di interessi (Cass. n. 27243 del 2018; Cass. n. 34132 del 2019). In tali pronunce la Corte, pur astrattamente richiamando i principi europei, finisce tuttavia per ritenere sproporzionato lo sforzo richiesto alla parte datoriale sicché non è agevole il loro inquadramento.
La sentenza in commento, invece, sposa pienamente il nuovo orientamento discendente direttamente dalle norme eurounitarie elencando una serie di principi che da essi discendono sino ad affermare che l'obbligo di ragionevoli adattamenti condiziona il potere di licenziamento. Il licenziamento, in altri termini, diviene possibile solo là dove i ragionevoli adattamenti siano impossibili.
E' infatti affermato che “il datore di lavoro [ha] uno stringente obbligo di adottare provvedimenti di natura organizzativa al fine di mutare il contesto lavorativo in funzone delle esigenze del lavoratore disabile ed eventualmente valutare ed eventualmente individuare nell'ambito della propria organizzazione lavorativa, mansioni che il lavoratore disabile […] possa utilmente disimpegnare”, salvo, ovviamente, il caso in cui ciò comporti uno stravolgimento del contesto lavorativo.
Non sarebbe più il caso, dunque, di parlare di mero obbligo di repechage ma di un ben più gravoso onere posto dall'ordinamento in capo al datore di lavoro quale misura attiva di tutela del lavoratore divenuto disabile. Osservazioni
A parere di chi scrive, la pronuncia in commento è sicuramente da salutare con favore.
Sia le norme nazionali sia quelle europee sono chiarissime nell'imporre l'obbligo al datore di lavoro di adottare tutte quelle ragionevoli misure di adattamento che siano richieste dalla situazione concreta al fine di evitare il licenziamento del lavoratore, quand'anche queste consistessero in modifiche dell'assetto organizzativo aziendale.
Le specifiche previsioni delle leggi a tutela del lavoratore disabile devono oggi essere interpretate alla luce di questo principio generale, di esplicito recepimento dell'art. 5 della direttiva europea. Di talché l'adibizione a mansioni equivalenti o, in mancanza, inferiori, costituisce solo una tipizzazione (ex art. 1, comma 7, l. n. 68 del 1999 nonchè art. 42, d.lgs. n. 81 del 2008) dei possibili adattamenti che il datore di lavoro è tenuto a porre in essere in virtù dell'obbligo generale imposto dall'art. 2, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2003.
Minimi riferimenti bibliografici
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