Norme incriminatrici del CCII e della Legge fallimentare: appaiono in perfetta continuità normativa

16 Aprile 2020

Le norme incriminatrici disciplinate dal nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza appaiono in perfetta continuità normativa con le precedenti norme della Legge fallimentare. Non vi è pertanto alcuna discontinuità del precetto penale (né la risposta sanzionatoria risulta diversa) che subentrerà all'attuale disciplina.
Massima

Le norme incriminatrici disciplinate dal nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza appaiono in perfetta continuità normativa con le precedenti norme della Legge fallimentare. Non vi è pertanto alcuna discontinuità del precetto penale (né la risposta sanzionatoria risulta diversa) che subentrerà all'attuale disciplina.

Quanto alle modifiche introdotte nelle norme civilistiche che presiedono ai presupposti della liquidazione dell'impresa ed alla procedura da seguire, solo in minima parte già entrate in vigore, non si ravvisano elementi concreti tali da mutare il presupposto, “l'insolvenza dell'impresa”, su cui si fondano le norme penali che, difatti, sono rimaste immutate, tranne nell'aggiornamento del lessico dei nuovi presupposti di applicabilità.

Il caso

In data 16 maggio 2019, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma applicava all'imputato F. M. la pena concordata fra le parti per i reati di cui agli articoli 110 cod. pen., 223, comma 2 n. 1, in relazione all'art. 2621 cod. civ. (Fatti di bancarotta fraudolenta in relazione al reato di False comunicazioni sociali) e 219 legge fallimentare.

L'imputato proponeva ricorso deducendo unicamente la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla omessa applicazione del disposto dell'art. 129 del codice di procedura penale (Obbligo di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità) in quanto, a seguito dell'entrata in vigore degli articoli 389 e 390 del nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (d.lgs. n. 14/2019), essendo mutata la legge extrapenale posta a fondamento delle norme penali incriminatrici, si era verificata l'ipotesi di “abolitio criminis”.

La Corte di Cassazione riteneva il ricorso inammissibile.

La questione

I motivi addotti dalla Corte per dichiarare il ricorso inammissibile sono stati molteplici. Innanzitutto i giudici di legittimità hanno constatato che le norme in base alle quali il Tribunale ha pronunciato la sentenza di patteggiamento erano, e sono tuttora, in vigore. Invero, le nuove norme incriminatrici contenute nel D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 entreranno in vigore, a norma dell'art. 389 del medesimo decreto, decorsi diciotto mesi dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 14 febbraio 2019, e, quindi, il 15 agosto 2020 (e ora, per effetto del rinvio disposto dal D.L. n. 23/2020, il 1° settembre 2021).

Non solo. Comparando le norme della legge fallimentare con quelle del nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza i supremi Giudici hanno sottolineato come le nuove norme appaiano in perfetta continuità normativa con le precedenti.

La soluzione giuridica

All'imputato è stata ascritta la violazione, in concorso con gli altri amministratori, dell'art. 223, comma 2 n. 1, della Legge fallimentare, in relazione all'art. 2621 c.c., avendo riportato, nei bilanci di esercizio della S.r.l. fallita, fatti non corrispondenti al vero, occultando perdite tali da annullare il patrimonio netto e così cagionando il dissesto della stessa. E raffrontando alla lettera l'art. 223 della Legge fallimentare con l'articolo 329 del nuovo Codice, il quale mantiene perfino la stessa rubrica “Fatti di bancarotta fraudolenta”, la Corte ravvisa chiaramente che non vi è alcuna discontinuità del precetto penale che subentrerà all'attuale disciplina (né la risposta sanzionatoria risulta diversa). Né, nell'odierna fattispecie - chiosano i supremi Giudici - si è fatta questione circa l'applicabilità della, questa sì nuova, causa di non punibilità o, in alternativa (qualora non ricorra il danno di speciale tenuità), circostanza attenuante, previste dall'art. 25, comma 2, del Codice della crisi d'impresa, e peraltro riconducibili ad una iniziativa dell'imprenditore prevista solo dalle nuove norme.

Quanto poi alle modifiche introdotte nelle norme civilistiche che presiedono ai presupposti della liquidazione dell'impresa ed alla procedura da seguire, solo in minima parte già entrate in vigore (in applicazione del comma secondo dell'art. 389 del decreto), sostituendo anche al “fallimento” la “liquidazione” della stessa, la Corte non ravvisa elementi concreti - e certo, precisa, non possono esserlo la diversa distribuzione di compiti e poteri del giudice delegato, del curatore, dei creditori e del soggetto interessato e le diverse scansioni processuali - tali da mutare il presupposto, “l'insolvenza dell'impresa”, su cui si fondano le norme penali, che, infatti, sono rimaste immutate, tranne nell'aggiornamento del lessico dei nuovi presupposti di applicabilità.

Infine, per completezza, si riporta la circostanza che il ricorso è stato ritenuto inammissibile anche prechè l'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. lo consente contro la sentenza di patteggiamento “solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione fra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto ed alla illegalità della pena o della misura di sicurezza”.

Osservazioni

In conclusione, l'importante sentenza in commento certifica – si potrebbe dire “in prevenzione”, trattandosi di valutazione che anticipa di gran lunga l'entrata in vigore del Codice - come il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza non abbia avuto alcun impatto sui cosiddetti reati fallimentari. Ciò alla luce, principalmente, della perfetta continuità normativa con le norme incriminatrici della legge fallimentare e della circostanza che il presupposto delle norme penali - lo stato di insolvenza dell'impresa - sia rimasto sostanzialmente immutato.

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