Una autentica solidarietà sociale come eredità del coronavirus: per una diversa destinazione dei risarcimenti del danno alla salute
17 Aprile 2020
A fine 2019, il giorno 11 novembre, la salute è stata protagonista delle undici sentenze di San Martino. Di quelle sentenze, di tutti i vari e diversi temi da esse affrontati, voglio ricordarne tre, che si sono occupate di come quantificare il danno non patrimoniale alla salute. Riguardano il risarcimento della perdita di chance non patrimoniale, cioè la perdita della mera possibilità di un miglioramento delle condizioni di salute (n. 28993); riguardano le situazioni straordinarie in cui è concesso di personalizzare il risarcimento del danno biologico, situazioni straordinarie tra quali è specificamente menzionata la cosiddetta cinestesi lavorativa (n. 28988); riguardano infine la quantificazione del danno risarcibile nel caso di menomazioni preesistenti che abbiano concorso a determinare un danno permanente alla salute, da calcolarsi secondo una sorta di meccanismo differenziale (n. 28986).
Sono sentenze che parlano di errori medici e di quanti soldi dare a chi ne sia vittima. Denaro da versare anche se la vittima già era compromessa; anche se il danno si risolve nel fatto che si lavora con più fatica; oppure nel fatto che forse si sarebbe potuto stare un po' meglio (ma solo forse, perché se non c'è stato il miglioramento che avrebbe dovuto esserci allora il danno sta in quello).
Denaro che nessuno si sentiva di negare a persone sfortunate, la cui vita era peggiorata – o peggio che peggiorata – a causa di un altrui comportamento inaccettabile. A fine 2019, nel giorno di San Martino, dire qualcosa di diverso, porre il problema di una diversa logica del sistema risarcitorio per il danno non patrimoniale, era infatti considerato quasi scandaloso, era considerato in conflitto con la dignità della persona. Guai a ventilare il problema di come, in quel modo, si alimenta lo spirito di vendetta; di come in quel modo si incoraggiano le lamentazioni; di come in quel modo il denaro viene impiegato in modo poco efficiente. Il delitto di lesa Costituzione era subito sventolato da accademici, paladini dei doveri di solidarietà dell'art. 2; da avvocati, attenti alle proprie fonti di reddito; da giudici, ben contenti del loro palcoscenico.
Solo capitava di prendere la parola nell'ambiente dei medici o dei ricercatori biomedici si incontrava qualche ascoltatore interessato a una diversa logica. Non per timore di proprie responsabilità, ma per amore del progresso scientifico e per attenzione al benessere sociale.
Poi è arrivato il 2020, e con lui il Coronavirus.
La salute acquista una nuova dimensione. La tutela della salute come bene individuale scolora di fronte alla esigenza di tutelare la sua dimensione collettiva. Quegli interrogativi che poco tempo fa erano non semplicemente ignorati, ma addirittura rifiutati, sono interrogativi che improvvisamente acquistano un altro sapore. Diventano possibili e legittimi.
E allora. Le somme accordate a titolo di risarcimento del danno alla salute sono in linea di massima più elevate in Italia che altrove. E possiamo anche accettare che l'autore del danno, o il soggetto che ne deve rispondere, sia costretto a sostenere un simile costo. Il meccanismo assicurativo lo rende non irragionevole, tenendo presente che qui vengono in considerazione non già lesioni di beni o interessi economicamente valutabili, ma appunto il danno non patrimoniale alla salute.
Ma è davvero consigliabile che la somma accordata a titolo di risarcimento vada per intero al danneggiato?
La vittima va di certo consolata o soddisfatta, in ossequio alla funzione della responsabilità civile per i danni non patrimoniali che ormai da lungo tempo è stata collocata al di fuori di un sistema risarcitorio (ed è definita appunto consolatoria o satisfattoria). Va bene cioè lasciare alla persona pregiudicata una qualche disponibilità finanziaria che la possa ripagare del patimento (e anche che la possa incentivare all'iniziativa giudiziale, altrimenti tutto il discorso crolla).
Ma, viene da chiedersi, non è meglio che una parte dell'importo – da decidere quale: la metà, un terzo, una percentuale variabile – accordato per la lesione della integrità psico fisica, cioè della salute individuale, vada a beneficio della salute collettiva, e quindi al sistema sanitario, alla ricerca, alla assistenza? Tanto più che in questo modo si tutela (indirettamente, ma si tutela) anche la salute dell'individuo danneggiato?
La soluzione sarebbe operativamente assai facile – è sufficiente costituire un patrimonio destinato con un conto dedicato a fungere da collettore degli importi versati dai responsabili e dalle loro assicurazioni. Non sarebbe neppure difficile la sua giustificazione normativa. La premessa è come, se pacificamente il risarcimento dei danni non patrimoniali non è un risarcimento, allora il denaro non può essere un ‘equivalente' risarcitorio. Sulla base di questa premessa, non ci vuole molto per ammettere un'idea di risarcimento in natura (concesso all'art. 2058 c.c. in alternativa a quello per equivalente) consistente nel fornire alle strutture deputate a curare e assistere i portatori di patologie cliniche, magari simili a quelle provocate dal responsabile dell'illecito, nel fornire loro i mezzi per migliorare i propri servizi e quindi fornire a tutti, ivi compresa la vittima dell'illecito, un'assistenza e cure più adeguate, più specializzate, più capaci di aiutare la guarigione o il miglioramento delle condizioni di vita.
Per di più, la solidarietà sociale è un dovere, lo dice la Costituzione. E non si può né vuole mettere in discussione il fatto che in nome della solidarietà sociale l'autore dell'illecito possa essere costretto a risarcire anche danni non patrimoniali. Ma la solidarietà sociale è un dovere di tutti, questo dice in verità la Costituzione. Di tutti vuol dire del danneggiante non più e non meno che del danneggiato.
Credo allora che imporre anche al danneggiato l'adempimento dei doveri di solidarietà sociale sia addirittura necessario per rispettare la norma. E credo che la solidarietà sociale vista dal lato del danneggiato possa e debba consistere proprio nel far dirottare una componente dell'obbligazione risarcitoria verso la tutela della salute pubblica.
Proviamo a immaginare, i questi giorni di isolamento, all'aiuto che la febbrile ricerca di cure e vaccini contro il Coronavirus potrebbe avere, o meglio ancora che potrebbe avere avuto, se ci fosse stato un surplus di finanziamento proveniente dalle migliaia e migliaia di risarcimenti accordati o concordati ogni anno a fronte di danni alla salute. O all'aiuto che avrebbe potuto avere e potrebbe avere l'opera di contenimento della diffusione del virus. E ricordiamo anche il fatto che negli Stati Uniti le legislazioni di almeno dieci Stati prevedono che nel caso di condanna a danni punitivi una parte della somma accordata a quel titolo vada non al danneggiato, ma a soggetti pubblici, e talora al sistema sanitario statale. La logica è la stessa, ed è una logica rispettosa della vera essenza della solidarietà: è la logica di una solidarietà sociale diffusa, e imposta davvero a tutti.
Mi pare che l'esperienza di questi giorni possa aiutare una nuova consapevolezza. Certo, non credo saggio che certe modifiche vengano decise sull'onda dell'emozione o dell'emergenza, e credo quindi che al momento nulla debba cambiare. Ma credo anche che questi momenti drammatici possano aiutare l'avvio di una riflessione serena e soprattutto liberata dai preconcetti che, fino a San Martino del 2019, l'hanno invischiata.
(FONTE: giustiziacivile.com) |