La “portata pervasiva” dell'obbligo di protezione dei lavoratori alla prova del Covid-19
24 Aprile 2020
Premessa
La recente emergenza sanitaria legata alla diffusione pandemica del c.d. coronavirus sollecita, oltre al resto, un ampio spettro di spunti problematici e operativi riguardanti il tema della sicurezza dei lavoratori e dei connessi - stringenti - obblighi di prevenzione del rischio biologico generalizzato incombenti sul datore di lavoro. Più in particolare, i nodi critici e di discussione fin qui emersi con maggiore ricorrenza attengono alle specifiche strategie formali e pratiche da adottarsi a cura della figura datoriale. Ciò sia in relazione al rafforzamento delle condotte prevenzionistiche e al loro coordinamento con quelle già in atto, sia con riguardo all'adozione di nuovi presidi di sicurezza e metodologie di lavoro commisurati all'emergenza, con particolare riferimento allo strumento già da tempo espressamente disciplinato nel nostro ordinamento (artt. 18-23, l. 22 maggio 2017, n. 81) del c.d. smartworking (su tale ultimo punto, cfr., in particolare, L. Pazienza, “Il lavoro agile, c.d. smartworking, nel periodo di emergenza da coronavirus: forme di tutela del lavoratore dipendente”, in questa Rivista, 25 marzo 2020). L'insidiosità dell'urgenza epidemiologica e la eventualità che essa possa dilatarsi nel tempo, schiudono tuttavia anche ulteriori interrogativi e piani di analisi.
La sussistenza di un grave rischio biologico incombente in modo diffuso e pressoché indifferenziato su qualunque organizzazione di lavoro, renderà invero opportuno un attento scrutinio circa l'impatto di questa nuova tipologia di rischio sul vigente sistema della colpa datoriale e sul correlato sistema risarcitorio e di tutela del lavoratore. In questa ottica l'attuale latitudine, già molto ampia, degli obblighi datoriali di prevenzione e sicurezza e, per contro, la necessità che un eventuale danno a carico del lavoratore non venga comunque lasciato là dove è caduto, imporranno forse soluzioni nuove o comunque ispirate a grande prudenza e equilibrio. Con il duplice obiettivo di non amplificare in misura insostenibile i doveri datoriali di protezione, la cui portata è stata plasticamente definita “pervasiva” (Cass. civ., sez. Lav., 25 novembre 2019, n. 30679) e di assicurare nel contempo, e se del caso ampliare, l'effettività degli strumenti di tutela a beneficio del lavoratore. La disciplina di riferimento
La norma base in tema di sicurezza sul lavoro è, come noto, la previsione di cui all'articolo 2087 c.c.. La disposizione, che riflette fondamentali principi costituzionali tra i quali, in particolare, il diritto alla salute (art. 32) e la necessità che l'iniziativa economica privata preservi la sicurezza, la libertà e la dignità della persona umana (art. 41), con speciale riguardo alla condizione del lavoro femminile e dei minori (art. 37), ha una portata semantica e precettiva molto ampia. Essa esprime in primo luogo un enunciato generale, che si articola poi in concreto nell'ambito della complessa disciplina speciale antinfortunistica, di cui rappresenta uno dei principali capisaldi il d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo Unico sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro). L'art. 2087 c.c. svolge però, al tempo stesso, una fondamentale funzione di chiusura del sistema di sicurezza e prevenzione, imponendo all'imprenditore il rispetto, non soltanto delle misure espressamente imposte dal sistema positivo, ma anche di quelle dettate dalle buone prassi, dall'esperienza e dalla tecnica nonché dalla comune prudenza (v., ex multis, Cass. civ., 4 giugno 2019, n. 15167). E, ancora più in generale, di quelle che si rendono “necessarie” in vista dei rischi potenziali o in atto nell'ambito dello specifico contesto lavorativo. Con l'esplosione dell'emergenza epidemiologica a questa disciplina si è quindi aggiunta una nutrita serie di provvedimenti legislativi di vario rango finalizzati al suo contrasto, contenenti anche svariate disposizioni prevenzionistiche, completate poi da accordi collettivi tra le Parti Sociali. Questi ultimi, pur dotati di diversa valenza e con l'efficacia propria del relativo strumento, hanno ulteriormente corredato il dispositivo con specifico riferimento alla sicurezza degli ambienti lavorativi. Profilo questo peraltro già ampiamente disciplinato anche da disposti normativi precedenti, benché in una prospettiva differente (si veda, ad esempio, in tema di dispositivi di protezione individuale, l'art. 18, comma1, lett. d del citato d.lgs. 81/2008). Di particolare rilievo, tra i provvedimenti dell'esecutivo, i successivi DPCM dell'8, 9, 11 e 22 marzo 2020, i D.L. n. 9 del 23 febbraio 2020, n. 18 del 17 febbraio 2020, n. 18 del 17 marzo 2020, oltre ad ulteriori misure contingenti o di dettaglio emanate sia dallo stesso governo centrale che dalle amministrazioni locali. In ambito confederale merita invece una specifica menzione il Protocollo del 14 marzo 2020 condiviso tra organizzazioni datoriali e sindacali e inteso a regolare in concreto le “misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. Tale ultimo documento, la cui cogenza è stata correttamente revocata in dubbio (cfr. sul punto, P. Pascucci, “Sistema di prevenzioni aziendale, emergenza coronavirus ed effettività”, in Giustizia Civile.com, 17 marzo 2020) appare peraltro di grande rilievo pratico, rappresentando una sorta di ampio e assai dettagliato decalogo operativo che, unitamente ad altri strumenti analoghi “generalisti” elaborati nel corso dell'emergenza (tra i tanti, il “Decalogo”del 24 febbraio 2020, curato dall'ISS e dal Ministero della Salute) potrà forse utilmente affiancare le disposizioni legislative e regolamentari, come autorevole - ancorché non direttamente impegnativo - parametro esterno per l'individuazione di un livello minimo e standardizzato di sicurezza dell'ambiente di lavoro.
Come si accennava dianzi, il dilagare dell'epidemia e la eventualità che essa si converta, dopo la fase di picco, in un rischio biologico generico con un trend ridimensionato ma anche più duraturo, pone talune prime questioni incidenti sul quadro complessivo dei doveri e della responsabilità dei datori di lavoro. Ma solleva anche taluni e in parte inediti interrogativi circa il possibile impatto concreto che la stessa emergenza avrà sul sistema di garanzie a tutela dei lavoratori. Entrambe le tematiche non possono all'evidenza, almeno in questa prima fase, che essere abbozzate in un'ottica necessariamente ipotetica o teorica, di prima lettura. Alla messa a punto di una più efficace e rigorosa valutazione di impatto del fenomeno manca infatti per ora l'imprescindibile complemento di quelle verifiche “sul campo” alle quali assisteremo nei mesi a venire e che, con ogni probabilità, daranno corpo al futuro dibattito scientifico e tecnico. Pur in vista di questa doverosa premessa metodologica, veniamo dunque al primo dei temi di riflessione in evidenza, afferente cioè alla posizione datoriale. La prospettiva datoriale
Sotto questo primo profilo è ragionevole attendersi che l'emergenza epidemiologica e le sue verosimili sequele amplieranno in modo tutt'altro che trascurabile il sistema dei doveri di sicurezza incombenti sui datori di lavoro a tutela dei propri dipendenti. In questa prospettiva vanno intanto annoverati gli obblighi meramente formali (a tale riguardo sembra opportuno ricordare incidentalmente che non sembra ad oggi definitivamente risolta la questione in ordine alla sussistenza di un obbligo di aggiornamento del DVR ex art. 29, comma 3,d.lgs.n. 81/2008, cfr. sul tema A. Rossi, Al lavoro in sicurezza ai tempi del Covid-19, ne ilgiuslavorista.it, 23 marzo 2020) ai quali si aggiungono quelli operativi di comportamento attivo, adattamento e compliance con i vari obblighi prevenzionistici posti dalla disciplina emergenziale e non. Ma a prescindere dall'assolvimento di questi obblighi e in considerazione della natura alquanto subdola e pervasiva di questo particolare rischio biologico, bisogna soprattutto chiedersi in presenza di quali condizioni il dovere datoriale di prevenzione possa dirsi davvero - in questo mobile e del tutto inedito scenario - compiutamente assolto e ragionevolmente pretensibile e fino che punto e con quali implicazioni possa esser individuata una posizione di effettiva responsabilità datoriale. Come si accennava in premessa, anche talune recenti decisioni di legittimità hanno declinato l'obbligo di prevenzione e sicurezza datoriale in termini di particolare rigore ed ampiezza. Secondo la recente pronuncia della Suprema Corte, (Cass. civ., n. 30679/2019 cit.), l'assetto della colpa andrebbe collocato “all'interno di un quadro di fondo secondo cui chi organizza e pone in essere un'attività rischiosa, è tenuto a predisporre quanto necessario per evitare pregiudizi a terzi”. Da qui, tenuto anche conto che l'organizzazione lavorativa è espressione di un “interesse proprio del datore di lavoro”, la necessità che i presidi di sicurezza risalgano alla “responsabilità primaria datoriale” e che dunque l'obbligo datoriale di protezione rivesta in questo ambito una “portata pervasiva”.
Gli estensori del dictum dianzi menzionato e un'ancora più recente decisione di legittimità (Casss. civ., sez. lav., sent. 11 febbraio 2020, n. 3282) nel riconoscere all'art. 2087 c.c. una fondamentale funzione “dinamica” rispetto alla tutela della sicurezza, escludono nel contempo a chiare lettere che tutto ciò valga ad annunciare un superamento del dogma della responsabilità per colpa (e ancor meno, si potrebbe aggiungere, che ciò equivalga ad un'adesione alle note teoriche anglosassoni sul c.d. rischio di impresa). Ciò nondimeno, la eccezionalità e la non ancora compiuta conoscenza scientifica del nuovo rischio epidemiologico impongono forse una riflessione sulla effettiva sostenibilità, quanto meno rispetto alle specifiche sfide poste da una tale emergenza, di un modello di responsabilità datoriale colposa, ma “pervasiva” o “dinamica” che dir si voglia. E che rischia tuttavia, soprattutto in realtà organizzative medio-piccole, di produrre effetti assai gravosi e forse indesiderabili. Una delle principali criticità, di cui si darà conto anche nella diversa prospettiva del lavoratore, discende ad avviso di chi scrive dalla estrema difficoltà, già sul piano eziologico, di ricollegare con accettabile grado di certezza l'eventuale contrazione della patologia ad un'effettiva occasione di lavoro. Secondo i primi approdi della ricerca scientifica, l'agente patogeno Covid-19 è caratterizzato da un accentuato grado di infettività e dunque potrebbe risultare difficoltoso in concreto ricondurne la effettiva insorgenza ad una precisa fonte di contagio. La questione epidemiologica e eziopatogenetica verrà evidentemente dissodata in futuro negli ambiti clinici e medico-legali pertinenti. Resta però il fatto che - che come vedremo anche più avanti - la riconduzione della patologia ad uno specifico vettore infettivo e dunque ad una possibile “occasione di lavoro”, se forse più agevole in presenza di un rischio specifico, come ad esempio in relazione ad una professione sanitaria, potrebbe diventare assai più aleatoria in presenza di un assetto lavorativo connotato da rischio generico. Vale a dire di un rischio assimilabile a quello proprio di una qualsiasi altra interazione sociale in contesto familiare, ludico, associativo, relazionale etc. A questa prima considerazione si potrebbe aggiungere un ulteriore spunto problematico, in questo caso connesso più da vicino al tema della latitudine dei doveri prevenzionistici propri del datore di lavoro. La particolare insidiosità che sembra connotare questa affezione virale potrebbe non essere sufficientemente contrastata financo dalla più diligente adozione dello specifico pacchetto di misure “nominate” imposte dai protocolli dianzi citati, lasciando residuare possibili aree di rischio e di responsabilità oggi ancora non esaurientemente mappate. Si inserisce altresì in questa stessa prospettiva la oggettiva difficoltà di monitoraggio costante delle condotte degli operatori (sul punto cfr. Cass. civ., n. 3282/2020 cit.) e dunque il punto della valenza che potrebbe assumere in questo contesto (si pensi banalmente all'obbligo di distanziamento o di lavaggio delle mani) il principio di autoresponsabilità del lavoratore e dell'incidenza dell'istituto del concorso di colpa di cui all'art. 1227 c.c.. Ricordiamo infine, per completare il quadro anche attraverso il prisma processuale, il particolare assetto del riparto degli oneri probatori in tema di responsabilità ex art. 2087 c.c. Costituisce ormai ius receptum il principio secondo il quale, mentre spetta al lavoratore provare la nocività dell'ambiente di lavoro e la ascrivibilità a questa e ad un particolare fattore di rischio del danno alla salute, incombe invece sul datore l'onere di dimostrare di aver adempiuto il proprio obbligo di prevenzione avendo adottato “… non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore … ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio” (Cass. civ., 6 novembre 2019, n. 28516). Ed è proprio in relazione a tali “altre misure”, non determinate, che in un contesto così sfuggente potrebbe risultare particolarmente gravoso il carico probatorio dell'imprenditore. Questi messo a confronto con una tipologia di rischio inusuale, quanto impalpabile e generalizzata, che rischia di convertire il relativo onere processuale in una vera e propria probatio diabolica. La posizione del lavoratore
Come in una sorta di immaginario gioco di specchi, le principali criticità dianzi riassunte potrebbero ritorcersi anche in danno del lavoratore, evidenziando in particolare il rischio – parallelo – di possibili vuoti di tutela. Occorre a tale riguardo premettere che, assai opportunamente, il Legislatore ha voluto chiarire (art. 42, comma 2, del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, c.d. decreto “Cura Italia”), in riferimento sia al lavoro privato che pubblico, che l'infezione da Covid-19 di cui sia accertata la riconducibilità ad “occasione di lavoro” deve intendersi equiparata ad un normale infortunio sul lavoro e dunque essere sussumibile nella medesima disciplina. In questa prima prospettiva la copertura assicurativa antinfortunistica e la relativa garanzia indennitaria sembrerebbero assoggettate ad un regime tendenzialmente meno rigoroso rispetto a quello civilistico generale. Un recente documento di INAIL (nota 17 marzo 2020, n. 3675) con particolare riguardo, peraltro, agli operatori sanitari chiarisce come la tutela assicurativa si estenda anche alle ipotesi “… in cui l'identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica”, discendendone che “… ove l'episodio che ha determinato il contagio non sia percepito o non possa essere provato dal lavoratore, si può comunque presumere che lo stesso si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro indizio che in tal senso deponga”. Ma questo apparente favor, potrebbe però essere – appunto – solo tendenziale e correlato all'esposizione del rischio tipico, specifico proprio degli operatori sanitari. Ciò può dunque dirsi anche in relazione alle altre tipologie di addetti, esposti ad un rischio generalizzato e dunque di assai più complessa individuazione, in un'ottica anche solo probabilistica? Il quesito appare tanto più stringente se, dal campo del meccanismo assicurativo, ci spostiamo nell'ambito della colpa civile, il cui attuale statuto – con particolare riguardo alla sua proiezione processuale – abbiamo dianzi tratteggiato nei suoi momenti essenziali. Così come per il datore, potrebbe infatti risultare in concreto quanto mai arduo anche per il lavoratore assolvere alla parte di onere probatorio posta a proprio carico. L'universalità del relativo rischio biologico, potenzialmente disseminato in ogni ambito di interazione sociale, potrebbe rendere assai difficile ricollegare causalmente l'eventuale evento avverso ad una specifica fonte di rischio, così dimostrando la effettiva nocività dell'ambiente lavorativo. Come evidenziato nel documento INAIL testé citato l'identificazione della fonte di contagio potrebbe in sostanza risultare in un numero verosimilmente ampio di casi un'operazione alquanto “problematica” se non addirittura impossibile. Ciò che escluderebbe il lavoratore infortunato (e i propri superstiti) da quella più ampia tutela garantita, in particolare, dallo strumento risarcitorio civile. Vero è che, come ampiamente riconosciuto, un'inadeguata struttura di prevenzione del rischio o la carenza di idonei comportamenti attivi del datore di lavoro potrebbe legittimare il lavoratore ad avvalersi dello strumento di autotutela di cui all'art. 1460 c.c. e dunque rifiutare la propria prestazione lavorativa. E ciò soprattutto in realtà aziendali rispetto alle quali, per dimensioni, capacità economica ed organizzativa, non sia in concreto esigibile un livello di sicurezza di altissimo standard.
Ma è parimenti difficile negare che la straordinaria diffusività e le caratteristiche epidemiologiche di questa affezione renderanno alquanto complesso ogni procedimento di rigorosa ricostruzione causale. Mettendo - anche da questo lato della barricata - a dura prova l'efficienza del noto principio del “più probabile che non”, soprattutto in una prima fase di comprensione e mappatura scientifica del fenomeno e delle relative leggi di copertura. Conclusioni
Come accennato dianzi le peculiari caratteristiche di questa emergenza epidemiologica, senza precedenti per diffusione e insidiosità, potranno verosimilmente mettere in tensione anche i termini ad oggi noti della responsabilità datoriale, allargando in modo importante e in larga parte inedito la già ampia sfera di operatività degli obblighi di sicurezza e prevenzione incombenti sull'imprenditore. Allo stesso tempo le presumibili difficoltà di ricostruzione causale del supposto evento infortunistico renderanno meno facilmente attingibile e talora forse impossibile per il lavoratore la prova di una effettiva nocività dell'ambiente di lavoro. Sarà dunque imprescindibile, almeno in una fase iniziale e di assestamento, individuare soluzioni di grande equilibrio e oculatezza. Non potendosi, da un lato, esigere dal datore di lavoro la predisposizione di un ambiente “a rischio zero”, né pretendersi, in questo momento storico attraversato da una pandemia di dimensioni universali “l'adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo” (Cass. civ., n. 3282/2020 cit.). Ma non potendosi neppure, per altro verso, indebolire i meccanismi acquisiti di tutela del lavoratore sacrificandoli agli interessi economici e della produzione. L'eventuale danno, dunque, non potrà - come si diceva - essere lasciato in alcun caso là dove è caduto. |