C'era il c.d. "concordato misto"

Sergio Sisia
04 Maggio 2020

Il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale, rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186-bis l. fall., che al primo comma espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.
Massima

Il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale, rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186-bis l. fall., che al primo comma espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.

Il caso

Proposta da una società domanda di concordato ex art. 161 l. fall. “(…) che prevedeva un'operazione finalizzata a conseguire un valore di realizzo [attraverso la vendita di alcuni immobili allo scopo di acquisire una iniziale liquidità funzionale al completamento di altri] sensibilmente superiore a quello ottenibile dalla liquidazione del compendio immobiliare disponibile nelle condizioni in cui si trovava al momento dell'avvio della procedura” (cfr. p. 7 dell'ord.), il Tribunale di Arezzo riteneva inammissibile la proposta e con contestuale sentenza dichiarava il fallimento della società. A seguito di reclamo, la Corte di Appello di Firenze, rilevava: (i) che la proposta concordataria era priva della sottoscrizione del legale rappresentante della società, vizio che involgeva gli effetti sostanziali dell'atto e la sua stessa esistenza, non applicandosi l'art. 182 c.p.c. e, (ii) che il piano concordatario contemplava una continuità aziendale con le conseguenze previste dall'art. 186-bis l. fall., per cui la mancata produzione di una relazione di attestazione conforme al disposto di tale norma comportava l'inammissibilità della domanda “(…) stante l'impossibilità di verificare se la prosecuzione dell'attività fosse funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori” (cfr. p. 3 dell'ord.). Per la cassazione della sentenza della Corte fiorentina, la società fallita proponeva ricorso lamentando:

(i) la mancata considerazione del comportamento concludente del legale rappresentante della società che, insieme con la memoria per l'udienza fissata ex art. 162, co. 2, l. fall., aveva depositato la proposta sottoscritta con il verbale di determina previsto dall'art. 152 l. fall., il che avrebbe consentito, tra l'altro, l'applicazione dell'art. 182 c.p.c.;

(ii) l'erronea applicazione del principio della prevalenza, per cui la Corte di Appello non avrebbe compreso che il concordato aveva natura liquidatoria “(…) essendo prevista la continuazione dell'attività aziendale, con una sorta di esercizio provvisorio, per un tempo limitato e in funzione della successiva liquidazione” (cfr. p. 4 dell'ord.) e, quand'anche il concordato fosse stato qualificato come misto, si sarebbe fondato comunque su un piano rispettoso delle previsioni di legge in materia e,

(iii) l'improprio rilievo del difetto di allegazione, avendo trascurato le indicazioni presenti nel piano ed esercitando un indebito sindacato sulla fattibilità economica dello stesso.

Le questioni

Con l'ordinanza in esame, il Supremo Collegio, applicando il principio processuale della “ragione più liquida” ha:

  • dapprima chiarito che “La corte territoriale non ha affatto sostenuto, facendo applicazione del principio della prevalenza, che il concordato in esame fosse concordato misto” (così a p. 5 dell'ord.) quanto piuttosto che lo stesso fosse riconducibile alla disciplina del concordato in continuità e,
  • constatato in ragione di tale natura, il difetto di attestazione previsto alla lett. b) co. 2 dell'art. 186-bis l. fall. (ossia la mancanza di una relazione del professionista che, da un lato attestasse che la continuità era funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori e, dall'altro, consentisse di verificare le indicazioni compiute dal debitore ai sensi della lett. a) co. 2 dell'art. 186-bis l. fall.) ha,
  • dichiarato inammissibili gli ultimi due motivi in quanto, tra l'altro, “(…) tornano a reiterare le doglianze già poste al vaglio della corte distrettuale, senza cogliere e criticare la ratio decidendi della decisione impugnata” (cfr. p. 6 dell'ord.), rendendo inammissibile il primo motivo. La Suprema Corte poi, prendendo spunto dalla definizione di “concordato misto” contenuta nella sentenza impugnata, ha quindi enunciato i principi di diritto che governano la fattispecie e, partendo dall'analisi dell'attuale contesto normativo, ha affermato – di fatto superando le diverse interpretazioni della giurisprudenza di merito in punto – che il disposto dell'art. 186-bisl. fall. “(…) all'ultimo periodo del primo comma, include espressamente nel novero regolato dalla disciplina speciale il caso in cui il piano preveda “anche la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”.

La compresenza in piano di attività liquidatorie che si accompagnino alla prosecuzione dell'attività aziendale è dunque espressamente contemplata dal legislatore, all'interno della norma, speciale e derogatoria dei criteri generali, di cui alla L. Fall., art. 186-bis. Il che non lascia spazio a equivoci di sorta in merito al fatto che tale normativa governi la fattispecie (vale a dire che il concordato tradizionalmente definito come misto sia, nelle intenzioni del legislatore, un concordato in continuità che prevede la dismissione di beni). Il dato normativo non evoca alcun rapporto di prevalenza di una parte dei beni rispetto all'altra, a cui è riservata diversa sorte, ma fa riferimento alla liquidazione dei beni “non funzionali all'esercizio dell'impresa”, implicitamente ritenendo che quelli funzionali siano invece destinati alla prosecuzione dell'attività aziendale (…) tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori” (così alle pp. 10, 11 e 13 dell'ord.).

L'inclusione del c.d. "concordato misto" nel novero del concordato con continuità spiega, dunque, i propri effetti anche rispetto alla verifica del presupposto di fattibilità del piano, dovendo quest'ultimo essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa, in un'ottica che tende ad evitare – attraverso una serie di cautele collegate al piano e alla sua attestazione – il rischio di un aggravamento del dissesto ai danni dei creditori, dei quali invece deve essere necessariamente assicurato il miglior soddisfacimento. Con l'ordinanza in esame il Supremo Collegio supera quindi i diversi orientamenti espressi in materia dalla giurisprudenza di merito (cfr. pp. 9 e 10 dell'ord.), al fine di comporli secondo un preciso obiettivo dato dal miglior soddisfacimento dei creditori.

Le soluzioni giuridiche

Il c.d. “concordato misto”

Il co. 1 dell'art. 186-bis l. fall. consente indubbiamente di ipotizzare un piano concordatario che preveda il soddisfacimento dei creditori utilizzando, in parte, i flussi derivanti dall'esercizio dell'attività di impresa e in parte il ricavato della cessione dei beni non funzionali alla continuità, ossia non funzionali all'attività come eventualmente riprogrammata nel piano. Così come nel caso di Cass., 19.11.2018, n. 29742 (segnalato da A. Zorzi, Il concordato “atipico” nel Codice della crisi, tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio,in www.ilcaso.it, 2019, p. 3) potrebbe anche verificarsi l'ipotesi inversa, ossia un concordato con cessione dell'azienda, che viceversa viene ritenuto con continuità aziendale (e può accadere che venga dichiarato inammissibile perché la relazione non affronta i temi della continuità). In ogni caso, trattandosi di una fattispecie concordataria riconducibile tanto alle norme di cui agli artt. 160 l. fall. (“Presupposti per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo”) e 182 l. fall. (“Cessione dei beni”), quanto alle speciali disposizioni previste dall'art. 186-bis l. fall. (“Concordato con continuità aziendale”), il principale interrogativo è quello della disciplina normativa applicabile, come avvertito sia dalla dottrina (cfr. F. Marrotta, Il concordato misto: prevalenza quantitativa o qualitativa? La soluzione legislativa e gli (opposti) orientamenti giurisprudenziali, 2018, in www.ilcaso.it) sia dalla giurisprudenza (per cui, ancora da ultimo, si sostiene che “(…) l'attuale disciplina della legge fallimentare (…) lascia irrisolti e sul tappeto alcuni nodi, il più rilevante dei quali è quello di comprendere a quali condizioni vi sia un'effettiva continuità, ovvero, a quali condizioni l'attività liquidatoria prevista nel piano (e, inversamente, la rilevanza di ciò che resta e prosegue dell'azienda) sia di tale portata da escludere un'effettiva continuità e imporre la qualificazione come liquidatorio del concordato proposto, con ogni conseguenza in punto di limite di soddisfacimento da assicurare ai creditori chirografari (art. 160, co. 4 l.f.) ovvero di necessità di attestazione “rafforzata” (art. 186 bis, co. 2) o di nomina del liquidatore (art. 182 l.f.);” (cfr. Trib. Milano, 28.11.2019, decr., in www.ilcaso.it.). Al fine anche di evitare abusi nell'utilizzo di tale strumento (specie da quando, nel 2015, solo il concordato con continuità è esente dalla soglia minima di soddisfazione dei creditori, ex art. 161, co. 4, l. fall.) la giurisprudenza di merito ha cercato di rispondere a tale interrogativo. Così, al ricorso alle teorie del c.d. “contratto misto”, è seguito un percorso che, progressivamente e pur con i vari distinguo, l'ha portata a privilegiare una valutazione del c.d. “concordato misto” in chiave funzionale, volto ad assicurare il miglior soddisfacimento dei creditori: alcuni giudici hanno ritenuto meritevole il criterio della “combinazione”, altri quello dell'”integrazione” e altri ancora quello dell'”assorbimento” o della “prevalenza”, assumendo necessaria, in questo caso, una valutazione, quantitativa o qualitativa.

1.1 La teoria della “combinazione”

Tale teoria vorrebbe combinare le discipline dei due tipi di concordato, applicando sia le norme sul concordato liquidatorio che quelle sul concordato in continuità, a seconda che il soddisfacimento dei creditori derivi come frutto della continuità aziendale o della cessione di beni (si veda in proposito Trib. Torre Annunziata, 29.7.2016 in wwwilcaso.it, secondo cui in un concordato che preveda il susseguirsi di differenti schemi, dapprima in continuità e poi liquidatorio, ci si troverebbe in presenza di una fattispecie atipica, o con causa mista, in cui entrambe le tipologie di concordato concorrono, con pari dignità, alla soluzione della crisi aziendale, con utilizzo del criterio della combinazione delle discipline e conseguente applicazione, ai singoli elementi di piano, delle corrispondenti norme; Trib. Ravenna, sent. 28.4.2015 in wwwilcaso.it, secondo cui “(…) la regola della prevalenza (pure suggestiva dal punto di vista teorico) rischia di condurre a risultati incerti, sia nelle soluzioni concrete che negli effetti pratici, conoscendo la prassi forme sempre più diversificate di soluzioni concordatarie quali libera esplicazione dell'autonomia privata riconosciuta anche in questo campo dal legislatore. Molto più aderente alla realtà dei fenomeni giuridici considerati appare, allora, la teoria della “combinazione”, che prevede l'applicazione delle discipline volta a volta più confacenti con la porzione di piano concordatario che viene in esame, a seconda della causa concreta perseguita dal debitore”; e poi anche Trib. Forlì, sent. 24.12.2014 e Trib. Ancona, 20.6.2016, entrambi in wwwilcaso.it.).

1.2. La teoria della “integrazione”

Altri, in posizione intermedia, hanno ritenuto invece che “(…) nel concordato misto deve trovare applicazione la disciplina del piano concordatario prevalente salva la possibilità di applicazione di entrambe le regolamentazioni ove non siano incompatibili secondo il criterio dell'integrazione” (così Trib. Firenze, 2.11.2016, in www.ilcaso.it. e, in senso conforme, Trib. Roma, 22.4.2015, in www.ilcaso.it.). Una tale interpretazione si scontra tuttavia con l'incompatibilità tra le due discipline, non fosse altro che per la diversa percentuale di soddisfacimento dei creditori (l'art. 160, co. 3 l. fall. prevede per il solo concordato liquidatorio la percentuale minima di pagamento dei chirografari nella misura del 20%). Si è detto in proposito: “(…) postulare che per il piano in continuità è possibile proporre un soddisfacimento inferiore al 20% e per il piano liquidatorio un soddisfacimento almeno pari al 20% è esercizio improponibile, per la semplice ragione che prevarrà, sempre, il necessario rispetto della percentuale minima” (così F. Marrotta, Il concordato misto: prevalenza quantitativa o qualitativa? La soluzione legislativa e gli (opposti) orientamenti giurisprudenziali, cit., p. 5 che, in proposito, richiama M. Fabiani, Riflessioni sistematiche sulle addizioni legislative in tema di crisi di impresa, in Nuove leggi civ., 2016, 10, n. 7). Tale incompatibilità è inoltre evidente anche pensando all'inopportunità della nomina del liquidatore (prevista invece dall'art. 182 l. fall.) nel caso di concordato misto (in proposito è emblematico il contrasto interpretativo sorto tra Trib. Roma, 31.7.2015, decr., in wwwilcaso.it. e App. Roma, 23.5.2016, decr, in wwwilcaso.it. e si veda inoltre, in dottrina, F. Lamanna, Che cos'è e quando è configurabile il cd. concordato “misto”?, in ilfallimentarista.it, 2015 e L. Campione, La nomina del liquidatore nel concordato misto, in ilfallimentarista.it, 2016).

1.3 La teoria dell'”assorbimento” o della “prevalenza”

Peraltro, se il criterio della prevalenza poteva essere non solo ragionevole ma anche necessario per evitare contrasti normativi, lo stesso “(…) lasciava e continua a lasciare delle perplessità in ordine allo stesso significato di prevalenza” (così F. Marrotta, Il concordato misto: prevalenza quantitativa o qualitativa? La soluzione legislativa e gli (opposti) orientamenti giurisprudenziali, cit., p. 7).

1.3.1 Prevalenza quantitativa

Alcune pronunce hanno così affermato che il regime applicabile sarà quello liquidatorio ogni qual volta il ricavato dalla liquidazione dei beni estranei al segmento della continuità rappresenti la quota principale dell'attivo concordatario (si vedano App. Genova, sent. 6.7.2018 che richiama la precedente Trib. Ravenna, 15.1.2018, secondo cui, in ossequio al criterio della prevalenza, il concordato va qualificato in continuità aziendale ex art. 186 bis l.fall. ogniqualvolta, alla stregua di una comparazione quantitativa fra le fonti del soddisfacimento destinato ai creditori concordatari, detto soddisfacimento deriva in massima parte dai flussi finanziari prodotti dalla continuità aziendale, piuttosto che dalle più limitate risorse ottenute attraverso la cessione di cespiti non strategici; Trib. Macerata, 12.1.2017, decr., alla luce del quale la regola di cui all'art. 160, ult. co. l.fall., non trova applicazione quand'anche il piano concordatario preveda di trarre dalla continuità aziendale risorse da distribuire ai creditori quantitativamente inferiori rispetto all'attivo estraneo al perimetro aziendale soggetto a liquidazione; Trib. Massa, 29.9.2016; Trib. Monza, 26.7.2016; Trib. Alessandria, 22.3.2016; Trib. Alessandria, 18.1.2016; Trib. Pistoia, 29.10.2015; Trib. Siracusa, 23.12.2015; Trib. Busto Arsizio, 1.10.2014; Trib. Nola, 23.9.2014; Trib. Vercelli, 13.8.2014; Trib. Trento, 19.6.2014, Trib Mantova 19.9.2013 e Trib. Monza, 13.9.2013; tutte pubblicate nel portale www.ilcaso.it.

Tuttavia, l'art. 186-bis l. fall. nulla dice sul rapporto quantitativo che vi deve essere tra le dismissioni e l'esercizio aziendale, così come non è dimostrato che qualora prevalgano quantitativamente le parti liquidatorie allora non sussistano i presupposti per l'applicazione di quell'articolo. Si è osservato (così F. Marrotta, Il concordato misto: prevalenza quantitativa o qualitativa? La soluzione legislativa e gli (opposti) orientamenti giurisprudenziali, cit., p. 9) che “(…) applicando un criterio meramente quantitativo si andrebbe a limitare l'operatività dell'art. 186-bis l. fall., soprassedendo ad una norma che impone di qualificare il concordato “in continuità” ogniqualvolta la continuità stessa, in base ai contenuti del piano, costituisca obiettivo finale ed esito prevedibile della procedura” e a limitare le valutazioni circa gli obiettivi della procedura concordataria che attengono alla “causa concreta” del concordato (in merito si veda Cass. SS.UU. 23.1.2013, n. 1521).

1.3.2. Prevalenza qualitativa o funzionale

Progressivamente si è venuto così ad affermare il principio secondo cui “(…) il regime normativo applicabile al concordato è stato a monte ponderato e risolto dal legislatore non già in termini di considerevole preminenza quantitativa dell'una o dell'altra componente (…) bensì di una loro coessenziale funzionalizzazione al superamento della crisi di impresa sotto l'egida dell'unico regime imperativo, quello configurato dall'art. 186 bis l. fall.(…) La non fittizia compresenza di tali condizioni fa premio dell'eventuale preponderanza quantitativa della componente liquidatoria e giustifica l'operatività necessaria del regime di favore apprestato dall'art. 186 bis L. Fall., con il connesso esonero dal rispetto dell'art. 160, ultimo comma” (così Trib. Massa, 29.11.2016, decr., in www.ilcaso.it) per cui la sola disciplina del concordato in continuità è applicabile anche laddove le risorse retraibili della continuità aziendale risultino di molto inferiori alle risorse provenienti dai cespiti liquidabili purché vi sia il mantenimento di una realtà aziendale operativa non del tutto marginale (così Trib. Venezia, 5.7.2018, decr., in www.Fallimenti e Società.it) e si deve “(…) soltanto verificare che quella conservata non sia una realtà aziendale di scarsa importanza” (secondo Trib. Udine, 28.2.2017, decr., in www.ilcaso.it). In questo modo si valorizza il favor legislativo alle prospettive di prosecuzione aziendale nella considerazione che deve ritenersi fisiologico un ridimensionamento dell'azienda rispetto alla realtà aziendale entrata in crisi. Emblematico di tale mutamento giurisprudenziale è dato dal decreto 2.12.2019 del Tribunale di Chieti (in www.ilcaso.it). In quel caso il Tribunale, applicato il c.d. criterio della prevalenza in termini quantitativi (per cui è stato necessario valutare se il maggior ricavo, destinato alla soddisfazione dei creditori, derivasse dalla continuazione dell'attività aziendale o dalla vendita di beni non funzionali), ha inizialmente qualificato il concordato come liquidatorio con applicazione del disposto dell'art. 160 co. 4 l.fall.. Peraltro, in seguito alla convocazione in Camera di Consiglio e al deposito da parte della ricorrente di un'integrazione al piano che modificava le previsioni di soddisfacimento dei creditori, lo stesso Tribunale rilevava, mutando il suo precedente orientamento, che “(…) la disciplina applicabile può stabilirsi sulla base di un criterio volto a privilegiare la causa concreta del negozio preposto intesa come assetto degli interessi economico-patrimoniali di tutte le parti, ovvero nella proposta di assicurare il miglior soddisfacimento possibile dei creditori per il tramite della continuità di impresa funzionale anche alla dinamica normativa di cui alla disciplina della crisi di impresa volta a favorire la continuità di impresa rispetto alla dispersione dei valori aziendali anche (ma non solo) per la tutela dei livelli occupazionali”. Allo stesso modo, se si vuole, Trib. Como 27.2.2018 (in www.ilcaso.it), condividendo la decisione del Trib. Roma, 24.3.2015 (in www.ilcaso.it) secondo cui “(…) in ipotesi di concordato misto, in parte liquidatorio ed in parte con continuità aziendale, per individuare le norme da applicare nel caso concreto occorre verificare se le operazioni di dismissione previste, ulteriori rispetto all'eventuale cessione dell'azienda in esercizio, siano o meno prevalenti, in termini quantitativi e qualitativi, rispetto al valore dell'azienda che permane in esercizio”, ha ritenuto che “(…) il principio della “prevalenza”, se invocato su base meramente quantitativa e non qualitativa, non sia del tutto soddisfacente” essendo “(…) più aderente alla realtà dei fenomeni giuridici considerati la teoria della “combinazione”, che prevede l'applicazione delle discipline volta a volta più confacenti con la porzione di piano concordatario che viene in esame, a seconda della causa concreta perseguita dal debitore (cfr. Cass. 22 giugno 2005, n. 13399 e da ultimo Cass. 12 dicembre 2012, n. 22828, entrambe mosse dalla preoccupazione che la sola disciplina invocata in base ad un criterio di “prevalenza” economica risulti incompatibile con quella concernenti singoli aspetti della fattispecie negoziale)”.

Non esiste il c.d. “concordato misto” come tertium genus

Il Supremo Collegio, con l'ordinanza in parola, preso atto dei predetti diversi orientamenti, ha chiarito, a p. 8 dell'ord., che “Il contesto normativo attuale non consente di ipotizzare un novero di possibili forme di concordato (liquidatorio, in continuità, misto con prevalenza dell'una o dell'altra componente) ma individua, più semplicemente, un istituto di carattere generale, regolato dagli artt. 160 e ss. legge fall., e una ipotesi speciale rispetto ad esso, previsto dall'art. 186-bis legge fall.”, escludendo così, in pratica, che esista il c.d. "concordato misto": esiste piuttosto il concordato in continuità che prevede la dismissione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa ai sensi dell'ultimo periodo dell'art. 186-bis l. fall. (cfr. anche – con interpretazione conforma ante litteram, F. Lamanna, Che cos'è e quando è configurabile il cd. concordato “misto”?, in ilfallimentarista.it, cit.; v. anche per altre considerazioni, S. Ambrosini, Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori, in www.ilcaso.it, 2018). In questo modo, la norma in parola, secondo il Supremo Collegio (cfr. p. 9 dell'ord.), funge da "(...) clausola elastica, fondata su un criterio qualitativo piuttosto che quantitativo, che investe una parte dei beni aziendali, da apprezzarsi non nella loro materiale consistenza, ma in funzione, per la porzione non destinata alla vendita, della possibilità di poter essere organizzati, ex art. 2555 c.c., per l'esercizio dell'impresa o di una sua parte", alla luce del criterio, generale e funzionale, del miglior soddisfacimento dei creditori, come indicato dal co. 2, lett. b della medesima norma (e come precisato da Cass. 7.4.2017, n. 9061) per cui, tra l'altro, il rischio di impresa incontra il limite della manifesta dannosità per i creditori di cui all'art. 186-bis, ult. co.. In definitiva, sottolinea la Cassazione, "L'inclusione di un concordato così strutturato nel novero del concordato con continuità comporta perciò l'introduzione di una precisa connotazione di portata generale, costituita dalla clausola del miglior soddisfacimento dei creditori, che caratterizza e limita (secondo modalità differenti dalla soglia minima prevista dall'art. 160, comma 4, legge fall., in ragione della peculiarità dell'istituto) la procedura in termini costanti, stringenti e ineludibili" (cfr. p. 12 dell'ord.).

Il concordato in continuità con dismissione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa e il Codice della crisi

In vista della prossima entrata in vigore del nuovo Codice della crisi dell'insolvenza ("c.c.i.i."), vi è da chiedersi allora se il concordato con continuità aziendale, già previsto dall'art. 186-bisl. fall., richieda ancora, nella nuova formulazione, non tanto un “(…) giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, quanto piuttosto una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori”, come precisato dall'ordinanza in commento (cfr. p. 3 del' ord.). Tale interrogativo si impone non solo perché, in primo luogo, l'

art. 84,

co. 1,

2

e

3

del

c.c.

i.i., se prevede da un lato delle soglie che definiscono la continuità (prevalenza dei flussi, impiego minimo di lavoratori), dall'altro non menziona la cessione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, ma anche perché il c.c.i.i. sembrerebbe accogliere una valutazione quantitativa di tali beni, piuttosto che qualitativa, nonostante le pronunce di merito (si veda il precedente § 1.3.2.) e l'ordinanza in commento abbiano fondato il giudizio di prevalenza su una valutazione qualitativa dei contenuti del piano e della proposta, maggiormente aderente alla ratio dell'

art. 186-

bis

l. fall

.. Peraltro. la possibilità di cessione dei beni non funzionali è, in realtà, implicita nella previsione del co. 3 del richiamato art. 84, laddove è stabilito che "i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, [la previsione “ivi compresa la cessione del magazzino" è stata cancellata dalla bozza di schema di Decreto Correttivo, approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri il 13.2.2020 e di prossima adozione, “(…) al fine di escludere la precisazione secondo la quale la cessione del magazzino non è incompatibile con la continuità aziendale, perché ovvia e tuttavia possibile fonte di incertezze interpretative in relazione alle imprese che non svolgano attività di produzione di beni”]" ed è espressamente prevista dalla Legge Delega (

art. 6, co

.

1, lett.

i)

, n. 2, L.

n. 155/2017

). Inoltre, quanto all'asserita valutazione quantitativa accolta dal c.c.i.i., si è rilevato (cfr.

Trib. Milano, 28.11.2019

, decr., in www.ilcaso.it., cit.) come, in realtà, "(...) tale soluzione che ha l'indubbio pregio della chiarezza, si scontra però con la realtà di fatto in cui, ad esempio il valore degli immobili da destinare ai creditori superi, magari considerevolmente i flussi di cassa generati dalla continuità [per cui si dovrebbe parlare di concordato liquidatorio di cui al co. 4 della norma in parola e non in continuità, con la necessità di prevedere la soglia minima di soddisfacimento dei creditori], ma cionondimeno esista ancora un'azienda attiva il cui valore potrebbe e dovrebbe essere salvaguardato, anche al costo di prevedere un soddisfacimento dei creditori inferiore al 20%". Forse per questo il Tribunale di Milano, con la richiamata pronuncia, alla luce dell'esame delle varie disposizioni dell'

art. 84 del c.c.

i.i., preferisce parlare piuttosto, nel caso di concordato con continuità, di criterio di prevalenza "quantitativa attenuata" che, "(...) se concentra, da una parte, il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazioni o ricavi della continuità) dovendo sempre "i ricavi attesi" essere superiori ai valori della liquidazione, dall'altra parte, amplia l'area semantica del "ricavato prodotto dalla continuità", facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro". Del resto, con riferimento al concordato in liquidità previsto dal c.c.i.i., si è detto che è " (…) possibile individuare una disciplina composta di diversi elementi, alcuni legati alla continuità aziendale, altri invece che tengono conto della mancata aderenza alle condizioni di cui all'art. 84, commi 2 e 3" (cfr. A. Zorzi, Il concordato “atipico” nel Codice della crisi, tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio,cit., p. 5) per cui, accanto al co. 3 che "(...) va letto come norma antielusiva (questo è il senso della prima parte, sulla prevalenza), volta a evitare i ritenuti "abusi" che la giurisprudenza anteriore alla riforma mirava a reprimere con le varie tesi della "prevalenza" ai fini della qualificazione del concordato", la norma prevede anche "(...) una definizione "alternativa" di prevalenza che dipende dal numero di occupati che ha una funzione, per così dire, social-democratica, o filo-lavoratori nella seconda parte", laddove, si precisa nel testo pressoché identico risultante dalla citata bozza di Decreto Correttivo, che “La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso. A ciascun creditore deve essere assicurata un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile. Tale utilità può anche essere rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”. Così come avvertito dal Tribunale di Milano con la richiamata sentenza, il secondo periodo del co. 3 dell'

art. 84 del c.c.

i.i. “(…) introduce una presunzione iuris et de iure che non ammette repliche sollecitando la riflessione per cui se, per salvaguardare i posti di lavoro, l'interesse dei chirografari a vedersi riconosciuta una percentuale di soddisfacimento pari almeno al 20% delle proprie ragioni è subvalente rispetto all'interesse alla prosecuzione dell'attività, anche per altre ragioni potrebbe predicarsi un tale giudizio di subvalenza”. È evidente quindi come, alla luce di tali rilievi, la definizione “alternativa” contenuta nel co. 3 dell'

art.

84 del c.c.

i.i., risponda perfettamente al principio da ultimo affermato dalla Cassazione con l'ordinanza in questione, secondo cui, vigente l'

art

.

186-

bis

l. fall

., non è previsto “(…) alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori”.

Anche il c.c.i.i. risponde a questa valutazione funzionale alla continuazione aziendale, infatti, è stato precisato (cfr. A. Zorzi, Il concordato “atipico” nel Codice della crisi, tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio,in www.ilcaso.it, 2019), “Fermo il limite della fattibilità (…), nei concordati che prevedano una continuità aziendale rispettosa dei parametri del codice della crisi (e privi quindi dei requisiti minimi di soddisfazione e di apporti di risorse esterne) i creditori riceveranno meno di quello che potrebbero ricevere in assenza di condizioni come quelle dell'

art. 84, comma 3, c.c.

i.i., ma più di quello che riceverebbero nella liquidazione giudiziale (e quindi non hanno di che dolersi), perché vengono trasferite risorse dai creditori (che vengono soddisfatti appunto meno di quello che si potrebbe, ma più di quanto accadrebbe in caso di liquidazione) ai lavoratori (che continuano ad essere impiegati dall'impresa ristrutturata) pur di rientrare nella presunzione assoluta

ex

art. 84, com

ma 3, secondo periodo, c.c.

i.i.”. Una simile lettura del nuovo dettato normativo è in grado, così, di fugare il dubbio (avanzato da taluni autori, quali M. Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Fall., 2019, pp. 849 e L. Stanghellini, Il codice della crisi di impresa: una primissima lettura (con qualche critica), in Corr. giur., 2019, pp. 453 ss.) della compatibilità del c.c.i.i. con la

Direttiva n. 2019/1023

sulla ristrutturazione e sull'insolvenza, la quale richiede agli Stati di assicurare alle imprese di avere accesso a strumenti di ristrutturazione che consentano di conservare la continuità aziendale, senza che questa conservazione sia in linea di principio soggetta a definizioni di “prevalenza” rispetto a componenti liquidatorie.

Conclusioni

La valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, in definitiva, il miglior soddisfacimento dei creditori, accomuna, come si è visto, la vecchia alla nuova disciplina “fallimentare”, al fine di tutelare l'interesse pubblico all'emersione anticipata della crisi di impresa, rispondendo così al Considerando n. 3 della

Direttiva 2019/1023 del 20.6.2019

(già entrata in vigore e con termine di recepimento da parte degli Stati fissato al 17.7.2021) ai sensi del quale “(…) le imprese non sane che non hanno prospettive di sopravvivenza dovrebbero essere liquidate il più presto possibile”. A ben vedere tale comune interesse è, forse, il sintomo di come sia cambiato, nel corso soprattutto degli ultimi anni, la nozione tradizionale di interesse pubblico (cfr. L. Elia, Costituzione, partiti, istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 312). I nuovi "interessi pubblici emergenti", di fondamento comunitario, come la tutela del libero mercato e della concorrenza, l'economicità ed efficienza della Pubblica Amministrazione, il principio di trasparenza, e via dicendo, sono strettamente correlati con la nuova impostazione comunitaria del mercato, la cui cura può essere affidata indifferentemente ad un soggetto privato (si pensi alla cd. esternalizzazione della gestione dei pubblici servizi) o ad un ente della Pubblica Amministrazione.

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