Licenziamento per giusta causa: l'onere del giudice di verificare gravità della condotta e proporzionalità della sanzione

Annachiara Lanzara
04 Maggio 2020

La valutazione in ordine alla sussistenza, o meno, della giusta causa nell'ipotesi di un licenziamento disciplinare di un lavoratore deve essere in ogni caso effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice del merito, della reale entità e gravità della condotta...
Massima

La valutazione in ordine alla sussistenza, o meno, della giusta causa nell'ipotesi di un licenziamento disciplinare di un lavoratore, motivato dalla ricorrenza della fattispecie “diverbio litigioso seguito da vie di fatto, avvenuto nel recinto dello stabilimento e che rechi grave perturbamento alla vita aziendale”, indicata a titolo esemplificativo dall'art. 52, lett. J) del CCNL per gli addetti all'industria chimica e chimico – farmaceutica tra le ipotesi di licenziamento in tronco, deve essere in ogni caso effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice del merito, della reale entità e gravità della condotta addebitata al dipendente in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, oltre che della proporzionalità tra sanzione e infrazione, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa.

Il solo limite che il giudice del merito incontra in siffatto accertamento è costituito dal principio secondo cui non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione. (Nel caso di specie il giudice del merito, in violazione del suddetto principio, ha ritenuto la sussistenza della giusta causa e l'insussistenza del fatto contestato, con conseguente applicazione della tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, stat. lav., divenuta eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla l. n. 92 del 2012, sul mero rilievo di un difetto di contestazione dell'infrazione disciplinare).

Il caso

La Corte d'appello di Milano, confermando la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto insussistente il fatto contestato posto alla base del licenziamento per giusta causa irrogato al lavoratore - originario ricorrente - e, quindi, applicabile la tutela reale di cui al comma 4 dell'art. 18 stat. lav., respingeva il reclamo con cui la società si doleva della decisione assunta dal Tribunale, sia in fase sommaria che di opposizione, e condannava l'appellante al pagamento delle spese di giudizio.

Entrando nel merito della vicenda, la Corte territoriale adita, a fronte dell'addebito contestato dall'azienda - consistente nell'essere il lavoratore, all'interno del perimetro dei locali aziendali, trasceso a vie di fatto nel corso di un diverbio col proprio capoturno, colpendolo con un calcio sotto il ginocchio, realizzando così una condotta sussumibile nelle ipotesi di cui all'art. 52, lett. J) del CCNL applicato, per cui è previsto il licenziamento in tronco - condotti gli opportuni accertamenti, conveniva con la tesi addotta dal Giudice di prime cure secondo cui, l'episodio, sia nella ricostruzione fornita dalla datrice di lavoro, sia nella realtà di fatto, si era effettivamente realizzato; rilevava peraltro che la contestazione non faceva alcun riferimento a quel “grave perturbamento della vita aziendale” che, secondo la dizione della norma contrattual-collettiva richiamata, costituisce insieme con gli altri (il diverbio litigioso, seguito da vie di fatto, avvenuto nello stabilimento) un elemento essenziale della fattispecie tipizzata.

In sostanza la Corte d'appello adita osservava che, nella contestazione degli addebiti, l'azienda aveva sussunto la fattispecie nella grave ipotesi di cui all'art. 52, lett. J) CCNL per gli addetti all'industria chimica e chimico-farmaceutica, richiamando l'alterco litigioso e le vie di fatto, avvenuti all'interno del perimetro aziendale, tralasciando, però, l'essenziale fattore del grave perturbamento della vita aziendale, non precisando la reale connotazione di quest'ultimo nel quadro dell'intero episodio, né tantomeno indicando le gravi alterazioni della vita aziendale che da questo sarebbero derivate.

Da ciò la Corte territoriale faceva discendere che la contestazione non contenesse alcun riferimento all'evento e alla sua gravità, fattori questi indispensabili sia ad integrare la contestazione sia a porre l'incolpato in condizione di articolare una difesa adeguata, volta a negare l'evento e i suoi connotati.

Pertanto, la Corte di merito adita concludeva nel senso che, non potendo riscontrarsi nel caso di specie la sussistenza di un “fatto contestato” ai sensi dell'art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, data l'omessa configurazione concreta dell'evento e della sua portata in termini di grave perturbamento aziendale, ne derivava una mancanza insanabile, comportante l'insussistenza del fatto contestato, che avrebbe dato luogo alla tutela reintegratoria di cui all'articolo 18, comma 4, stat. lav.

Avverso la predetta pronuncia della Corte d'appello di Milano, la Società proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi illustrati da memoria. Il lavoratore, originario ricorrente, resisteva con controricorso, pure illustrato da memoria.

La questione

Il caso in esame consente di affrontare la delicata questione concernente il rapporto sussistente tra disciplina contrattuale del licenziamento per giusta causa e disciplina legale di cui all'articolo 2119 c.c., anche in relazione alle prospettive di tutela nelle ipotesi di illegittimità dello stesso per insussistenza del fatto contestato.

La norma appena menzionata regolamenta una delle più frequenti cause di estinzione del rapporto di lavoro e contempla una peculiare disciplina atta a tutelare l'interesse del prestatore alla conservazione del posto di lavoro. Secondo la dizione della norma, accanto al recesso ordinario, caratterizzato dell'onere del preavviso, il datore di lavoro può esperire, in presenza di una causa che non consente la prosecuzione tantomeno temporanea del rapporto di lavoro, un recesso straordinario, detto appunto “per giusta causa”.

Ad una iniziale situazione di simmetria, che ignorava la disparità di posizione economica e sociale delle parti del rapporto, anche alla luce delle ripercussioni che il licenziamento avrebbe prodotto sulla libertà e sulla dignità dei lavoratori, seguì l'esigenza di limitare la libertà di licenziamento ad nutum del datore di lavoro dapprima in sede sindacale, a partire dal 1947, con gli Accordi Interconfederali per l'industria e poi in sede legislativa con la legge n. 604 del 1966, con cui si è dato il via ad una serie di interventi legislativi che hanno limitato il potere di recesso del datore di lavoro ed introdotto, oltre a rigorosi limiti formali e procedimentali, anche un generale obbligo di giustificazione per l'esercizio del potere stesso, ed introdotto, a tutela del prestatore di lavoro, dei sistemi di protezione differenziati in ragione della dimensione e della natura del datore di lavoro, caratterizzati, a seconda dei casi, da una tutela obbligatoria o da una tutela reale.

Gli interventi appena menzionati si sono sovrapposti alla normativa di cui agli artt. 2118 e 2119 c.c. ed hanno prodotto una disciplina generale dei licenziamenti nei rapporti a tempo indeterminato, improntata al principio di giustificazione necessaria di cui all'art. 1 della legge n. 604 del 1966, secondo cui “Il licenziamento non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per giustificato motivo”.

Da quanto sinora premesso in termini generali, emerge con evidenza come quella di “giusta causa di licenziamento” sia una nozione legale che prescinde e, anzi, non necessita delle speciali previsioni che le parti sociali hanno provveduto ad inserire all'interno dei contratti collettivi al fine di tipizzare specifiche condotte idonee ad integrare peculiari ipotesi di licenziamento per giusta causa.

Invero, proprio con riferimento a questo profilo, la fattispecie sottoposta all'attenzione della Corte di Cassazione permette di ribadire il principio di diritto, oramai consolidato, secondo cui l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha - diversamente da quanto accade per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo - una mera valenza esemplificativa, che non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito circa l'idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venir meno il rapporto fiduciario tra le parti del rapporto (Sul punto si veda: Cass., sez. lav.,n. 19023 del 2019, Cass., sez. lav.,n. 27004 del 2018, Cass., sez. lav., n. 14321 del 2017).

Orbene, alla luce dei principi appena richiamati, risulta evidente che il giudice del merito, nel verificare la sussistenza, nel caso concreto, della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, non possa valutare sulla sola base della scala valoriale inserita dalle parti sociali a titolo esemplificativo all'interno dei contratti collettivi, ma debba piuttosto esaminare l'addebito contestato al lavoratore in tutti i suoi aspetti, oggettivi e soggettivi, spingendosi al di là della fattispecie contrattuale tipizzata, la quale costituisce solo uno dei molteplici parametri cui attenersi per riempire di contenuto le clausole generali di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, che possono anche non coincidere perfettamente o esaurirsi nelle previsioni della contrattazione collettiva.

Le soluzioni giuridiche

Nella vicenda ivi esaminata, la Corte d'appello di Milano, in linea con quanto asserito dai Giudici di prime cure, sia in fase sommaria che di opposizione, ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato dalla società in ragione della dedotta insussistenza del fatto contestato al lavoratore, per cui è stata disposta la tutela reale prevista dall'art. 18, comma 4, stat. lav.

L'assunto su cui la Corte di merito adita ha fondato il ragionamento posto alla base della pronuncia di rigetto delle istanze della società appellante, di seguito impugnata, è stato, dunque, l'omessa contestazione, da parte dell'azienda, di uno degli elementi essenziali della fattispecie tipizzata dal contratto collettivo in cui la società ha ritenuto opportuno sussumere la condotta ascritta al lavoratore, ovvero quella del “diverbio litigioso seguito da vie di fatto, avvenuto nel recinto dello stabilimento e che rechi grave perturbamento alla vita aziendale” ex art. 52, lett. J) del contratto collettivo applicato.

Alla luce di quanto detto, dunque, il profilo giuridico su cui è doveroso riflettere risiede nel ruolo assunto dalla scala valoriale formulata a titolo esemplificativo dalle parti sociali, nell'attività sussuntiva e valutativa che il giudice di merito è tenuto a compiere al fine di vagliare la legittimità del licenziamento irrogato per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c.

Nel caso oggetto della presente disamina, la Corte d'appello di Milano ha fondato la propria decisione fissando quale parametro valutativo la sola disposizione collettiva in cui l'azienda ha inteso sussumere l'addebito mosso al lavoratore, alla stregua della quale il licenziamento in tronco risulta giustificato nelle ipotesi di “diverbio litigioso, seguito da vie di fatto, avvenuto nel recinto dello stabilimento” seguito da un “grave perturbamento della vita aziendale”, considerando quelli appena menzionati quali elementi costitutivi della fattispecie e, pertanto, indispensabili ai fini della configurazione in concreto della condotta in astratto tipizzata.

Data, dunque, l'assenza nella contestazione degli addebiti mossa dalla società di alcun riferimento al conseguente “perturbamento della vita aziendale” e all'effettiva connotazione di quest'ultimo nel quadro dell'intero episodio, la Corte adita concludeva nel senso che nella fattispecie si fosse verificato un grave difetto di contestazione dell'infrazione a causa del quale, non solo il lavoratore non avrebbe potuto articolare un'adeguata difesa volta a negare l'evento e i suoi connotati, ma si sarebbe altresì generata una carenza, ridondata poi in insussistenza del fatto contestato, che avrebbe comportato l'applicazione della tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, stat. lav.

Orbene, risulta evidente che la Corte d'appello adita, concentrandosi sull'interpretazione della disposizione collettiva pertinente, abbia disatteso ai principi di diritto consolidati in materia, alla luce dei quali il giudice di merito, in ragione della inderogabilità della disciplina concernente i licenziamenti, è tenuto a verificare se la previsione del contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo (Cass., sez. lav., n. 6498 del 2012) scrutando la condotta in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, spingendo la propria indagine anche oltre la fattispecie contrattual-collettiva prevista (Cass., sez. lav., n. 27004 del 2018).

L'appena ripercorso iter logico seguito dalla Corte d'appello di Milano nella sentenza conclusiva del giudizio di seconde cure ha prestato il fianco alle censure – ritenute, poi, fondate in sede di legittimità – della società che, col ricorso per cassazione, ha sottoposto all'attenzione del Collegio Giudicante l'errore in cui è incorsa la Corte d'appello nell'aver omesso di ogni valutazione circa la conformità della previsione del contratto collettivo alla nozione legale di giusta causa, prim'ancora che circa la gravità della condotta contestata e la proporzionalità della sanzione espulsiva.

Sul punto, in linea con la giurisprudenza richiamata, condivisibilmente, la società fa valere come nel giudizio concernente la legittimità del licenziamento per giusta causa non possa considerarsi vincolante la tipizzazione delle condotte costituenti giusta causa predisposta dalle parti sociali nei contratti collettivi, gravando piuttosto in capo al giudice del merito l'onere di esaminare la sussistenza degli addebiti posti a fondamento della sanzione espulsiva e la proporzionalità del comportamento addebitato al lavoratore alla sanzione del licenziamento per giusta causa, anche alla luce dell'etica comune e dei valori esistenti nella realtà sociale.

Come correttamente evidenziato dalla società ricorrente, la Corte territoriale ha valutato in maniera contrastante con l'orientamento, oramai consolidato, della Suprema Corte in materia di giusta causa di licenziamento ed insussistenza del fatto contestato, alla stregua del quale, invece, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di forte negazione degli elementi essenziali del rapporto, e principalmente del vincolo fiduciario, che il giudice deve valutare tenuto conto, da un lato, della gravità delle condotte contestate al dipendente, sulla base dei profili oggettivi e soggettivi, e delle circostanze in cui sono state commesse e, dall'altro, della proporzionalità tra l'infrazione e la sanzione, sì da poter constatare se la lesione dell'elemento fiduciario nel caso concreto sia stata effettivamente tale da giustificare l'irrogazione della massima sanzione disciplinare.

Queste valutazioni rientrano a pieno nell'attività che il giudice di merito, nel vagliare la legittimità del licenziamento per giusta causa, è tenuto a compiere, libero da ogni vincolo promanante dalle previsioni dei contratti collettivi, quandanche la condotta contestata al lavoratore nel caso concreto risulti perfettamente corrispondente alla fattispecie tipizzata dalla fonte collettiva.

In conclusione, alla luce dei principi fin ora richiamati, può evincersi la regula iuris da osservare nelle fattispecie analoghe a quella ivi esaminata secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fattore che inibisce la prosecuzione anche temporanea del rapporto, integra una clausola generale che necessita di essere successivamente “concretizzata” dall'interprete mediante la valorizzazione di fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (si veda, tra le altre, Cass. n. 2288 del 2019; Cass. n. 7426 del 2018; Cass. n. 6498 del 2012).

Di tali principi indubbiamente non ha tenuto conto il Giudice di seconde cure che ha del tutto omesso la valutazione della gravità della condotta contestata (che la sentenza impugnata riconosce essersi realmente verificata) e della proporzionalità della sanzione espulsiva, passaggi questi che l'art. 2119 c.c., interpretato in senso conforme al granitico orientamento consolidato sul punto dai Giudici di legittimità, inevitabilmente richiede.

Osservazioni

In conclusione, è interessante osservare come la sentenza ivi commentata si ponga nel solco di quella pluralità di pronunce con cui la Suprema Corte ha inteso fissare un principio di diritto stabile e duraturo in termini di licenziamento per giusta causa ed insussistenza del fatto contestato.

La sentenza in commento è particolarmente interessante perché, soffermandosi sul rapporto sussistente tra la nozione legale e quella contrattuale di giusta causa di licenziamento, pone luce sul corretto modus operandi che il giudice del merito è tenuto ad osservare nel condurre quell'operazione valutativa e sussuntiva necessaria al fine di accertare la legittimità del licenziamento disposto ex art. 2119 c.c.

Nel caso di specie, la Corte di merito adita, impostando la propria attività valutativa sulla sola interpretazione della disposizione collettiva pertinente, ha disatteso ai principi sanciti dalla giurisprudenza di legittimità sul punto alla stregua dei quali, ai fini della valutazione di legittimità del licenziamento per giusta causa deve ritenersi insufficiente un'indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato possa essere ricondotto alle previsioni della contrattazione collettiva che consentono l'irrogazione del licenziamento, dovendo sempre il giudice di merito valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro o comunque da far ritenere che la prosecuzione del rapporto determini un pregiudizio per gli scopi aziendali e se la sanzione espulsiva risulti proporzionata all'addebito contestato, anche alla luce dell'etica comune e dei valori diffusi nella società civile.

Guida all'approfondimento

- Carinci F., L'articolo 18 dopo la legge n. 92 del 2012. Ripensando il nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in Dir. rel. ind., 2013, 2, 287.

- Pessi R., Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2018.

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