Il legittimo affidamento del contribuente quale via per un fisco più certo ed efficiente
05 Maggio 2020
Premessa
Di recente, la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi in tema di legittimo affidamento del contribuente. La sezione tributaria, con la sentenza n. 26143/2019, ha affermato che:
Questa pronuncia non fa che dimostrare la grande attualità che a tale principio è oggi riconosciuta, quale strumento per regolare i rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni, al fine di improntarli sempre più al rispetto delle reciproche posizioni giuridiche maturate ed alla garanzia della certezza degli effetti giuridici conseguiti. Quanto detto risponde al preciso scopo di salvaguardare, nei limiti del possibile, chi in buona fede abbia riposto la propria fiducia sulla stabilità delle indicazioni provenienti da interlocutori qualificati, quali appunto sono il legislatore o l'amministrazione finanziaria.
A tale fine, l'art. 10, comma 1, l. n. 212/2000 prevede che i rapporti tra amministrazione e contribuenti debbano essere improntati al rispetto della buona fede, elevando quest'ultima a regola di comportamento, in vista di un rapporto tributario più funzionale ed efficiente. Tale regola si risolve essenzialmente nel divieto di approfittare dell'errore del contribuente causato dall'agire dell'amministrazione. La pronuncia della Suprema Corte sopra menzionata ha il pregio di ricostruire, nella motivazione, le varie correnti giurisprudenziali che si sono sviluppate attorno alla portata applicativa di tale principio.
Nel far questo, vengono richiamate le principali sentenze a sostegno dell'interpretazione volta, da un lato, a circoscrivere il più possibile la tutela dell'affidamento al dato letterale della norma e, dall'altro, di quella che per contro mira ad una efficacia più estesa del principio, che possa arrivare a ricomprendere la non debenza del tributo. Come si evince anche dal dato cronologico, la lettura estensiva appartiene in particolar modo alla prima giurisprudenza sviluppatasi sul tema, mentre la corrente restrittiva ha riscontrato sempre più consensi a far data dall'ultimo decennio circa.
Il filone estensivo
Chiamata ad esprimersi per la prima volta con la sentenza n. 17576/2002, la Corte di Cassazione si interroga lungamente sul ruolo che la buona fede riveste nel nostro ordinamento, a seguito della disciplina tratteggiata dall'art. 10, comma 1, Statuto. Tale pronuncia, fautrice di una lettura estensiva del dato normativo, costituisce un vero e proprio leading case in materia, segnando un tracciato nel cui solco si inseriscono numerose altre sentenze, in parte richiamate anche nella recente pronuncia n. 26143/2019.
Il tratto che le accomuna, a livello argomentativo, può essere così riassunto. In forza dell'art. 1 dello Statuto, che qualifica le disposizioni di tale legge come diretta attuazione degli artt. 3,23,53 e 97 Cost., buona fede ed affidamento costituiscono principi generali ed immanenti dell'ordinamento tributario. Al fine quindi di non svalutare il significato del primo comma dell'art. 10, la lettura combinata di questo col secondo comma rappresenta l'unica soluzione possibile per non far emergere insanabili contraddizioni all'interno della stessa disposizione.
Sulla base di tale ricostruzione, il principio generale contenuto al primo comma imprimerebbe forza espansiva al secondo, rendendolo idoneo a disciplinare non già le sole fattispecie contemplate, bensì una serie indeterminata di casi concreti, dal momento che le ipotesi espressamente previste rappresenterebbero semplicemente una mera esemplificazione dei casi ritenuti dal legislatore maggiormente frequenti. Questa interpretazione è vista, dalla prima giurisprudenza di legittimità, come quella maggiormente conforme allo Statuto – e quindi alla Costituzione, in forza del richiamo operato dal suddetto art. 1 – nonché l'unica in grado di non svuotare di contenuto la lettera del primo comma dell'art. 10.
Lo stato giuridico soggettivo di legittimo affidamento, che consente di invocare la relativa tutela che può spingersi fino all'inesigibilità del tributo, necessita in primo luogo di una attività dell'amministrazione finanziaria, idonea a determinare una situazione di apparente legittimità, favorevole al contribuente, a cui costui si conformi in buona fede. Occorre poi verificare la presenza di eventuali circostanze del caso concreto, quali ad esempio la situazione normativa di riferimento o il fluire del tempo, quali ulteriori indici di sussistenza o meno dell'affidamento. Al fine di evitare che tale norma possa offrire il fianco a letture distorte, la Cassazione (sentenza n. 18218/2007) precisa poi che la condotta del contribuente debba essere improntata all'astratto ossequio delle disposizioni di legge, escludendo così quelle poste in essere per finalità elusive o finalizzate ad ottenere indebiti risparmi d'imposta.
Sulla scorta di quanto sopra, al configurarsi di situazioni di legittima aspettativa, generate da condizioni oggettive, le successive condotte da parte dell'amministrazione, laddove contraddittorie, risultano vietate dal dovere di buona fede. Nel caso, quindi, in cui l'intensità dell'affidamento sia fondata su specifici atti dell'amministrazione (quali, ad esempio, l'affermazione della correttezza della domanda di “condono” o l'espresso riconoscimento di un'agevolazione), l'inesigibilità non deve intendersi come limitata ai soli interessi o sanzioni, essendo questa suscettibile di estendersi anche alla prestazione tributaria tout court. Il silenzio del legislatore in merito alle sorti dell'imposta non sarebbe perciò espressione del brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, dovendo essere piuttosto interpretato come una precisa scelta di campo. Argomentando in tal senso, si può quindi sostenere che, anziché pretendere sempre la vincolatività dell'interpretazione favorevole al contribuente, il legislatore avrebbe optato per una soluzione caso per caso.
La Corte di Cassazione ha quindi cercato di plasmare, attraverso le proprie pronunce, una tutela dell'affidamento che travalicasse il dato letterale della disposizione, per farne uno strumento attraverso cui il contribuente, alla presenza di determinate circostanze oggettive, fosse salvaguardato anche dall'applicazione del tributo, essendo le ipotesi contemplate dall'art. 10, comma 2, una esemplificazione di quelle più frequenti. Come evidenziato anche nella sentenza in commento, questa non ha rappresentato però l'unica interpretazione resa sul tema. A ben vedere, dopo un iniziale slancio giurisprudenziale, ben accolto da larga parte della dottrina, volto ad estendere la portata del principio, si è assistito, nell'ultimo decennio in particolar modo, ad una sempre più marcata inversione di tendenza. La Corte di Cassazione, prendendo le distanze dalle proprie precedenti pronunce, restringe l'ambito applicativo della tutela, contemperando buona fede ed affidamento con altri principi anch'essi di rango costituzionale, quali quello di uguaglianza (art. 3 Cost.), di legalità (art. 23 Cost.) e di indisponibilità dell'obbligazione tributaria (quale diretto corollario del principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost.).
Colonna portante di tale ricostruzione è l'assunto secondo cui, non facendo alcun cenno all'imposta, lo Statuto circoscriverebbe la tutela ai soli aspetti punitivi e risarcitori. È proprio dalla sancita non doverosità degli interessi che troverebbe conferma, argomentando a contrario, la debenza del tributo. Argomentando diversamente si rischierebbe di sconfinare nell'ambito di competenza che la Costituzione ha voluto riservare esclusivamente alla legge. L'imposta sarebbe perciò comunque dovuta, in virtù del principio di indisponibilità dell'obbligazione tributaria.
Così, nella sentenza n. 19479/2009, si legge che la situazione di incertezza del contribuente, anche se determinata dal comportamento contraddittorio tenuto dall'amministrazione finanziaria, non può giustificare l'inesigibilità dell'imposta dovuta, dal momento che l'art. 10 limita gli effetti della tutela alla sola esclusione delle sanzioni e degli interessi moratori, senza incidere in alcun modo sul tributo. Tale interpretazione ruota fondamentalmente attorno a due ordini argomentativi.
Da un lato, essa tiene conto del fatto che non può essere attribuito alcun valore vincolante alle circolari ministeriali, secondo una ormai solida elaborazione dottrinale ed una altrettanto radicata giurisprudenza di legittimità, che ha visto esprimersi anche le Sezioni Unite (con la già richiamata sentenza n. 23031/2007, citata da ultimo anche nella pronuncia n. 26143/2019). Ammettere la vincolatività delle opinioni interpretative dell'amministrazione equivarrebbe infatti a riconoscere alla stessa un potere normativo in palese contrasto con la riserva di legge ex art. 23 Cost.
Il secondo aspetto attiene invece al raffronto tra affidamento e interpello, per come disciplinato dall'art. 11 dello Statuto. Mentre infatti il legislatore è esplicito nello stabilire la nullità degli atti impositivi emanati in difformità della risposta fornita dall'amministrazione finanziaria a seguito della procedura di interpello, il fatto che all'art. 10 si faccia espressa menzione solamente di sanzioni ed interessi equivarrebbe ad una chiara scelta di differenziare le fattispecie. L'art. 11, stabilendo la nullità di “qualsiasi atto, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità della risposta” si pone come disciplina speciale, vincolando l'amministrazione alla risposta resa all'istanza del contribuente anche in ordine alla eventuale debenza del tributo, derogando in ciò al principio generale di indisponibilità dell'obbligazione tributaria, cui invece sottostà l'art. 10.
Grazie alla sempre più numerosa giurisprudenza in tal senso, si è assistito al consolidarsi di un orientamento volto a circoscrivere le previsioni statutarie, confinando la portata della tutela al solo dettato normativo, dal momento che la debenza del tributo dipenderebbe esclusivamente dal dato obiettivo della realizzazione dei presupposti impositivi. A riprova di quanto detto, basti considerare che, con la sentenza n. 5934/2015, la Corte di Cassazione arriva addirittura a ridimensionare l'intero Statuto, affermando che le disposizioni ivi contenute, quand'anche espressione di principi immanenti, non hanno rango superiore alla legge ordinaria, non potendo fungere da parametro di costituzionalità, né consentire la disapplicazione della norma tributaria in aperto contrasto con le stesse.
In conclusione
La tutela del legittimo affidamento, a prescindere dalla lettura più o meno estesa che se ne voglia dare, ha ormai acquisito il ruolo di principio generale dell'ordinamento, quale esplicito limite al potere riconosciuto all'amministrazione. Il rapporto tra questa e il contribuente non è più, infatti, improntato ad un modello conflittuale, quanto piuttosto basato sul rispetto delle regole di correttezza e buona fede, in vista di una più piena attuazione dell'art. 97 Cost. Stigmatizzare la scorrettezza dei comportamenti dell'amministrazione consente cioè di valorizzarne il rapporto col contribuente, non considerando più il fisco come arroccato dietro una intaccabile supremazia. Da ciò l'ulteriore pregio di realizzare un maggior consenso attorno all'imposta, in attuazione di quanto previsto dall'art. 23 Cost.
Per tali ragioni, la tutela concretamente riconosciuta a questo principio rappresenta il banco di prova per verificare il grado di civiltà giuridica e di democraticità del nostro ordinamento.
Non possono, quindi, che essere salutati con favore gli sforzi volti a trovare punti di contatto con altri istituti che prevedono, per contro, la non debenza anche dell'imposta. Ciò al precipuo fine di rafforzare il rilievo attribuito alla tutela del legittimo affidamento. Uno di questi istituti è rappresentato dal diritto di interpello. Se da un lato è infatti imprescindibile riconoscerne le differenze riguardo ai casi di affidamento riposto su circolari e risoluzioni, dall'altro è opportuno valutare se, al ricorrere di determinate circostanze, il giudice non sia comunque tenuto alla disapplicazione anche dell'imposta. Ciò si verificherebbe, come affermato autorevolmente anche in dottrina, nei casi di atti dal contenuto inequivocabile, senza ombra di dubbi e di prospettazioni alternative (si ricordano gli esempi in precedenza menzionati). L'affidamento riposto su determinazioni precise e concrete dell'amministrazione sarebbe perciò assimilabile ad un interpello irrituale, condividendo con questo l'esigenza di una piena forma di tutela.
In tale ottica, l'art. 11, invece che fornire il pretesto per trincerarsi dietro al brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit taquit, rappresenterebbe un importante argomento sistematico a sostegno dell'inesigibilità del tributo, nei casi in cui il contribuente si trovi di fronte ad una puntuale presa di posizione da parte dell'amministrazione, ovviamente diversa da una risposta ad istanza di interpello. Nei casi in cui il fisco abbia manifestato formalmente il proprio punto di vista in modo certo e stabile, appare perciò più corretto riconoscere la non debenza dell'imposta; sia che si tratti di risposta ad interpello o meno, per non trattare in modo difforme situazioni sostanzialmente identiche, violando così i principi di buona fede, imparzialità e corretto andamento dell'operato dell'amministrazione, che impongono a quest'ultima di perseguire, nella sua attività, criteri di parità di trattamento.
A ciò si aggiunga la nuova linfa vitale apportata dal regimediadempimento collaborativo (d. lgs. 5 agosto 2015, n. 128), che prevede una interlocuzione costante e preventiva tra fisco e contribuente, allo scopo di addivenire ad un comune intendimento in merito agli elementi di fatto costitutivi della fattispecie. Tale regime risponde all'esigenza di instaurare un rapporto di fiducia tra i soggetti coinvolti, finalizzato a migliorare la collaborazione e a tutelare l'affidamento dei contribuenti, aumentando contestualmente il livello di certezza del prelievo impositivo.
Le disposizioni introdotte con il provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate del 26 maggio 2017, a chiarimento di tale istituto, mirano a limitare gli ordinari poteri dell'amministrazione e sono da leggere proprio alla luce dei principi di correttezza e buona fede ex art. 97 Cost. Infatti, le posizioni espresse dall'Agenzia delle Entrate all'esito del contraddittorio svolto nel corso dell'istruttoria, la vincolano e restano valide finché non variano le circostanze di fatto e di diritto in base alle quali sono state rese. Anche in questo caso, come nell'interpello, dinanzi ad una presa di posizione dell'amministrazione espressa personalmente al contribuente, l'affidamento di quest'ultimo è ritenuto dal legislatore prevalente rispetto agli altri principi costituzionali.
Un tale modello di collaborazione assume così rilievo paradigmatico per il futuro del rapporto tra contribuenti e fisco, nell'ottica di garantire maggiore certezza in sede impositiva e favorendo così anche investimenti degli operatori economici, disposti a rischiare a condizione di una maggior chiarezza del contesto di riferimento.
Si ricava inoltre l'impressione che ad assumere sempre più rilievo, per l'emergere di situazioni affidanti meritevoli di tutela, è l'esistenza di un rapporto differenziato tra il singolo e l'amministrazione. Come dire che è nel singolo procedimento che si concretizzano, prendendo forma, quei valori astratti che, altrimenti, rimanendo in una condizione irrelata, non assumono una effettiva portata dirimente. In questa prospettiva, sembra significativa la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria n. 5/2018) che rinviene proprio nel contatto giuridicamente qualificato con l'amministrazione il quid pluris che trasformerebbe, in capo a quest'ultima, il generale dovere di solidarietà sociale in uno specifico dovere di correttezza, strumentale alla tutela della libertà di autodeterminazione negoziale. Interloquendo con un soggetto istituzionalmente qualificato, il privato è perciò legittimato ad aspettarsi uno sforzo maggiore, in termini di competenza, professionalità, nonché correttezza, lealtà, protezione e tutela dell'affidamento, rispetto a quello che potrebbe aspettarsi da un quisque de populo.
Una volta riconosciuto che il comportamento richiesto ad un interlocutore così qualificato debba essere il più chiaro e lineare possibile, in osservazione del generale principio di clare loqui, sarebbe quindi opportuno rivolgere l'attenzione a come il potere viene concretamente gestito in relazione al rapporto con il singolo cittadino/contribuente, piuttosto che continuare a discettare inutilmente della sua astratta disponibilità da parte dell'amministrazione. In altri termini, laddove il potere sia esercitato in modo da ingenerare situazioni affidanti nei cittadini, l'amministrazione deve essere chiamata a sopportarne le conseguenze. A tale interpretazione, conseguibile attraverso il raffronto con gli altri istituti sopra richiamati e la valorizzazione di quanto accaduto sul contiguo e più generale versante dei rapporti amministrativi, è in definitiva rimessa la scommessa di un fisco più responsabile verso il contribuente.
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