Sul reato di appropriazione indebita in caso di file copiati dal lavoratore licenziato

Teresa Zappia
08 Maggio 2020

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta di chi, in seguito alla copia di files altrui dei quali ha la disponibilità, procede alla loro cancellazione, non rilevando l'impossibilità di una detenzione materiale del dato informatico ai fini della sua riconducibilità alla nozione di “cose mobili”...
Massima

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta di chi, in seguito alla copia di files altrui dei quali ha la disponibilità, procede alla loro cancellazione, non rilevando l'impossibilità di una detenzione materiale del dato informatico ai fini della sua riconducibilità alla nozione di “cose mobili”.

Tale soluzione ermeneutica non viola il principio di legalità, sotto il profilo della determinatezza e tassatività, trovando fondamento in una considerazione evolutiva dell'oggettività giuridica tutelata, nonché in una interpretazione unitaria dell'art. 646 c.p.: analogamente al denaro, infatti, il valore patrimoniale e la trasferibilità, senza previa materiale apprensione, del dato informatico consentono di rinvenire anche in tale res gli elementi caratterizzanti l'oggetto materiale (“denaro o altra cosa mobile”) della condotta tipica.
Il caso

L'imputato, dopo essersi dimesso dalla società X, veniva assunto presso una compagine societaria operante nel medesimo settore. Prima di presentare le dimissioni lo stesso provvedeva alla restituzione del notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, con l'hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, in parte ritrovati nella sua disponibilità su computer dal medesimo utilizzato. La Corte di appello di Torino, in parziale riforma della decisione di primo grado, condannava l'imputato per il reato di cui all'art. 646 c.p.

Suddetta sentenza veniva impugnata ai sensi dell'art. 606 c.p.p., deducendo la violazione dell'art. 646 c.p. in quanto, ad avviso del ricorrente, il giudice dell'appello aveva erroneamente ritenuto che i dati informatici fossero suscettibili di indebita appropriazione, non potendo gli stessi essere qualificati come “cose mobili”.

La questione

I file informatici possono essere qualificati giuridicamente come cose mobili suscettibili di appropriazione indebita?

La soluzione

La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso in quanto infondato.

I giudici di legittimità, ripercorrendo la propria giurisprudenza in materia di “appropriazione” di files, hanno evidenziato come in passato sia stato escluso che questi potessero formare oggetto del reato di cui all'art. 624 c.p. La particolare natura dei documenti informatici, infatti, è stata ritenuta un ostacolo logico all'integrazione- sotto il profilo oggettivo - della fattispecie incriminatrice sotto il profilodella sottrazione, richiedendo questa la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore. Analogamente con riguardo al delitto di cui all'art. 646 c.p., essendo stato neganto che l'oggetto materiale della condotta potesse essere un bene immateriale, fatta salva di una sua incorporazione in un documento del quale il soggetto si sia appropriato.

Tale orientamento è stato fondato sulla nozione penale, di matrice giurisprudenziale, di “cosa mobile”, la quale presuppone necessariamente la materialità della cosa, suscettibile di “fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione”, anche se non mobile ab origine ma per effetto di un'attività di mobilizzazione ad opera del reo. Le res incorporales, pertanto, non sono state incluse in tale nozione, tenuto conto che l'unica espressa equiparazione legislativa è rinvenibile nel secondo comma dell'art. 624 c.p.

La Corte, tuttavia, fatta salva quest'ultima eccezione, ha posto l'accento sull'assenza, nel sistema penale, di una definizione legislativa di “cosa mobile”.

Rinviando alle nozioni informatiche comunemente accolte (le specifiche ISO), la Corte ha rilevato che, secondo la dottrina, i byte -spazio in cui vengono collocati i bit (rectius l'unità fondamentale di misura all'interno di un qualsiasi dispositivo in grado di elaborare o conservare dati informatici) - costituiscono entità dotate di una propria fisicità. Essi, infatti, “occupano fisicamente una porzione di memoria quantificabile, la dimensione della quale dipende dalla quantità di dati che in essa possono esser contenuti, e possono subire operazioni (ad esempio, la creazione, la copiatura e l'eliminazione) tecnicamente registrate o registrabili dal sistema operativo”.

Pertanto, sebbene non sia materialmente percepibile sotto il profilo sensoriale, il file possiede una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono.

L'impossibilità di una materiale apprensione del dato informatico viene superata dalla Corte mediante un percorso argomentativo incentrato sull'oggettività giuridica della fattispecie criminosa, nonché su un'interpretazione logico-sistematica della disposizione legislativa. Il mutato panorama delle attività che l'uomo è in grado di svolgere mediante le apparecchiature informatiche, infatti, ha determinato la necessità di riconsiderare i criteri classificatori utilizzati per la definizione di nozioni suscettibili di mutare nel tempo.

Il legislatore, inoltre, ha posto l'accento sulla possibilità di movimento dell'oggetto della condotta, dovendo lo stesso essere suscettibile di sottrazione e successiva appropriazione da parte dell'agente. Sotto tale aspetto la Corte ha evidenziato la capacità del file di essere trasferito da un supporto informatico ad un altro, ovvero attraverso la rete Internet, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali ed anche senza l'intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall'uomo. Conseguentemente anche il dato informatico potrebbe formare oggetto di condotte di sottrazione ed appropriazione.

I possibili dubbi di violazione del principio di legalità (e dei corollari principi di determinatezza e tassatività) in materia penale, vengono superati dalla Corte facendo leva sulla giurisprudenza del Giudice delle Leggi. In modo particolare si è evidenziato come il controllo sul rispetto del principio di determinatezza della norma penale debba essere condotto non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell'illecito – in questo caso l'espressione “cosa mobile” - ma raccordando lo stesso con gli altri elementi costitutivi della fattispecie, nonché con la disciplina in cui questa si inserisce.

Tenuto conto del bene giuridico tutelato, la Corte ritiene indiscusso il valore patrimoniale del dato informatico in ragione del suo contenuto e del suo utilizzo, sicché l'impossibilità di una detenzione materiale non potrebbe costituire un elemento idoneo ad ostacolare la riconduzione tale di tale “bene” alla categoria delle “cose mobili”.

Lo stesso art. 646 c.p., ha sottolineato la Corte, fa espresso riferimento al denaro. Quest'ultimo, come il dato informatico, è suscettibile di essere trasferito (mediante operazioni bancarie o telematiche) anche senza una sua materiale apprensione. Il contatto fisico con la res, pertanto, può non essere necessario anche per eventuali condotte di sottrazione ed impossessamento.

Osservazioni

La decisione in commento manifesta certamente un cambio di prospettiva da parte dei giudici di legittimità in materia di reati contro il patrimonio.

L'attenzione è posta su due aspetti della fattispecie criminosa: l'oggetto materiale dell'azione e la condotta tipica.

Relativamente al primo, la distanza rispetto al precedentemente orientamento giurisprudenziale sembra evidente: alla categoria di “cose mobili”, infatti, veniva ricondotta qualsiasi entità della quale fosse possibile una materiale detenzione, sottrazione, impossessamento o appropriazione, la quale fosse in grado di spostarsi autonomamente ovvero di essere trasportata da un luogo ad un altro, includendovi anche quelle che, sebbene non mobili ab origine, siano rese tali da un'attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto.

La nozione penalistica di “cosa mobile”, pertanto, non coincide con quella civilistica: per certi aspetti essa è più ridotta in quanto non vi include le entità immateriali (ad es. opere dell'ingegno) che nel settore civile sono qualificati come beni mobili; per altri è invece più ampia, considerando anche quelle res originariamente immobili che, una volta mobilizzate, possono costituire oggetto di appropriazione.

L'esclusione delle res incorporales è stata fondata anche facendo riferimento all'art. 624, comma 2, c.p. che indica come cosa mobile - “agli effetti della legge penale” - anche l'energia elettrica, o di altra natura, avente valore economico. Con tale specificazione il legislatore non si sarebbe spinto oltre, mantenendo costante il requisito di base della naturalistica fisicità della cosa mobile nella sua accezione penalistica.

L'integrazione del reato di cui all'art. 646 c.p., presupponendo l'atto materiale dell'appropriazione, richiederebbe necessariamente che l'oggetto dell'azione sia una res suscettibile di essere fisicamente appresa. Per le entità immateriali, dunque, potrebbe configurarsi un'ipotesi di appropriazione indebita solo ove esse fossero state trasfuse in una cosa dotata di consistenza materiale (ad es. i diritti di credito incorporati in un documento).

La Corte di cassazione, tuttavia, pone l'accento sulla struttura del file. Quest'ultimo, tenuto conto della nozione scientifica, e pur non potendo essere materialmente percepito con i sensi, possiede comunque una dimensione fisica, costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono. La questione, quindi, doveva essere spostata sull'impossibilità di un'apprensione materiale del dato informatico e sulla rilevanza, sotto il profilo della tipicità, della detenzione fisica della res.

Assunta una prospettiva aderente al contesto socio-economico attuale, si è evidenziato come i caratteri della materialità e della tangibilità, dei quali l'entità digitale è sprovvista, abbiano perduto notevolmente peso, potendo costituire oggetto di diritti penalmente tutelati anche il dato informatico. Quest'ultimo possiede indiscutibilmente valore patrimoniale e può essere trasferito. Proprio la mobilità della res in assenza di fisica detenzione costituisce un carattere in comune con uno degli oggetti materiali espressamente inclusi nell'art. 646 c.p., rectius il denaro, il che confermerebbe la riconducibilità del file alla nozione di “cosa mobile”. Infatti, alla luce della giurisprudenza costituzionale, la verifica del rispetto del principio di determinatezza non deve essere condotta valutando il singolo elemento descrittivo dell'illecito, ma raccordando questo con le altre componenti della fattispecie, nonché con la finalità perseguita dall'incriminazione. È la descrizione complessiva del fatto incriminato che deve consentire al giudice di stabilire - con un'interpretazione non esorbitante dal compito a lui affidato - il significato da attribuire ad eventuali clausole generali o concetti elastici (quale è la nozione di “cosa mobile”) della disposizione penale. Il testo dell'art. 646 c.p. richiede espressamente che la cosa sia suscettibile di formare oggetto di una interversio possessionis, ma non anche che la materiale detenzione, né tale ultimo aspetto risulta essere imprescindibile per l'eventuale appropriazione di denaro, del quale è indubbia la possibilità di un'appropriazione indebita.

La sentenza in esame, ad ogni modo, non opera una indiscriminata equiparazione delle res incorporales alle “cose mobili”. Tuttavia, essa sembra aprire alla possibilità che un'entità immateriale (ad es. prodotto dell'ingegno) costituisca oggetto di indebita appropriazione anche ove trasfusa in un file, e non solo in un supporto fisico, percepibile con i sensi.

La Corte esamina, infine, anche la condotta tipica del reato.

La giurisprudenza precedente, infatti, ha escluso la configurabilità del delitto di furto nel caso di semplice copiatura non autorizzata di files contenuti in un sistema informatico altrui, osservando che l'attività di copiatura non comporta de facto la perdita della res da parte del titolare (Cass. pen., n. 3449 del 2004). Verrebbe dunque a mancare un elemento costitutivo del reato, ossia lo spossessamento, la cui verificazione è necessaria anche per l'integrazione del reato di cui all'art. 646 c.p.

Il fatto tipico della sottrazione del bene, pertanto, richiede che all'interversione del possesso (legittimamente acquisito) dei dati informatici, realizzata mediante duplicazione e acquisizione autonoma della disponibilità, segua necessariamente anche la loro definitiva sottrazione al titolare mediante la cancellazione degli stessi, così entrando il bene a far parte in via esclusiva del patrimonio del reo.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.