L'eccessiva durata di una s.p.a. non legittima il socio ad esercitare il diritto di recesso

12 Maggio 2020

In materia di recesso, la norma di cui all'art. 2437, comma 3, c.c., propriamente dettata con riguardo a società per azioni il cui statuto non contempli espressamente un termine di durata del contratto sociale, non è suscettibile di applicazione analogica ai casi in cui il termine di durata, ancorché determinato...
Massima

In materia di recesso, la norma di cui all'art. 2437, comma 3, c.c., propriamente dettata con riguardo a società per azioni il cui statuto non contempli espressamente un termine di durata del contratto sociale, non è suscettibile di applicazione analogica ai casi in cui il termine di durata, ancorché determinato, sia “largamente superiore alle aspettative di vita di un socio”, di talché essendo in tali casi affetto da illegittimità il recesso esercitato invocando le tutele di cui alla norma de quo.

Il caso

La Suprema Corte si è pronunciata cassando la sentenza della Corte d'Appello, che aveva confermato quanto previamente disposto dal lodo arbitrale. Nelle competenti sedi di merito era stato ritenuto legittimo e conforme a quanto disposto dall'art. 2437, comma 3, c.c. l'esercizio del diritto di recesso da parte di due soci di una società per azioni il cui termine statutario di durata (i.e., 2100)era stato giudicato da entrambi predetti organi eccessivo e – sulla base di un percorso argomentativo e interpretativo basato, inter alia, sulla ontologicamente distante disciplina in tema di società di persone – equiparabile ad una clausola di durata indeterminata.

La Cassazione – aderendo ad una interpretazione letterale e tassativa del testo normativo – ha negato la possibilità di operare la suddetta equiparazione, adducendo ragioni di certezza del diritto e di tutela dei terzi creditori.

Le questioni e la soluzione giuridica

La sentenza in commento costituisce la propaggine di un recente iter interpretativo fatto proprio dai giudici di legittimità, avviato con la pronuncia n. 9662 del 22 aprile 2013.

In tale decisione, ancorché avente ad oggetto una società a responsabilità limitata, la Corte – mutuando la disciplina in materia di società di persone (art. 2285 c.c.) – ammetteva in principio che la durata statutaria, prevista anche in tale contesto per il 2100, potesse considerarsi assimilabile ad una durata a tempo indeterminato trattandosi di un'epoca così lontana “da oltrepassare qualsiasi orizzonte previsionale, non solo della persona fisica ma anche di un soggetto collettivo”.

L'altro precedente giurisprudenziale (sempre in tema di S.r.l.), in cui invero la Suprema Corte ha preso in parte le distanze dal suo previo intervento, argomentandone le ragioni sulla base delle diverse circostanze fattuali e dei diversi motivi addotti dalle parti in causa, è dato dalla sentenza n. 8962 del 29 marzo 2019 (in questo portale, con nota di Ferrari, Durata della s.r.l. che eccede le aspettative di vita del socio e diritto di recesso). Veniva statuito in tale sede l'irrilevanza della previsione di vita media di un socio, negando il recesso ad nutum sulla scorta di motivazioni circoscritte nell'alveo della mancata deduzione della “ragionevole data di compimento del progetto imprenditoriale”,scostandosi quindi dall'impronta motivazionale personalistica del precedente di cui sopra.

La sentenza n. 4716 del 2020, qui commentata, assimila e ripercorre i ragionamenti poc'anzi esplicitati per poi discostarsi dagli intricati meandri di parametri aleatori quali la durata della vita umana (ovvero, e fors'anche di più, di una persona giuridica) o di un progetto imprenditoriale. Nella pronuncia de quo si promuove una esegesi letterale dell'art. 2437, comma 3, c.c., facendo leva su eminenti ragioni di tutela del ceto creditorio e, a fortiori, di certezza del diritto per sostenere che nelle società per azioni (e, più in generale, nelle società di capitali) il recesso ad nutum è contemplato solo per i casi di società con durata indeterminata, nulla disponendosi per il caso di durata superiore alla vita umana ovvero proiettata in un orizzonte temporale molto lontano.

La Corte fa altresì propria un'ulteriore – ancorché marginale e non dirimente – argomentazione relativa all'assunta derogabilità della previsione di cui all'art. 2437, comma 3, c.c.. Si legge infatti nella sentenza che, non essendo la norma de quo inclusa tra i casi di inderogabilità di cui al comma 6 del medesimo articolo, il socio non può dolersi della sua violazione attraverso una previsione statutaria “asseritamente elusiva” della stessa. Sempre secondo la Corte, da ciò consegue che “la fissazione di un termine particolarmente lungo di durata della società ben può configurare una modalità di esclusione del diritto di recesso del socio”, residuando in capo allo stesso la facoltà di esercitare il recesso correlato al caso di proroga del termine (ove non espressamente esclusa statutariamente tale facoltà) qualora la durata sia stata prolungata con delibera assembleare alla quale lo stesso non abbia concorso.

Di qui, i giudici di legittimità cassano la sentenza della Corte d'Appello, rinviandone l'applicazione del principio di diritto nei termini sopra esposti ad un diverso collegio.

Osservazioni

La ricostruzione ermeneutica prospettata dalla sentenza in commento costituisce una buona ragione per operare in limine, e pur senza pretesa di risoluzione di tre lustri di dibattito,una breve ricognizione della ratio sottesa all'istituto del recesso (per un approfondimento sulla disciplina del recesso, con particolare riguardo alle società di capitali, si veda, tra gli altri, V. Calandra Bonaura, Il recesso del socio di società di capitali, in Giur. Comm., 2005, I, 291 ss., L. Cavalaglio, Commento all'articolo 2437 c.c., in Commentario del Codice Civile, diretto da Gabrielli, 2015, 1174 ss., A. Postiglione, Commento all'articolo 2437 c.c., in Codice delle Società, N. Abriani (a cura di), 2016, 1616 ss.).

Con la riforma del diritto societario (D. Lgs. n. 6/2003) il legislatore ha inteso valorizzare l'istituto del recesso, quale tipico strumento reattivo di exit (per la tradizionale distinzione tra exit e voice, si veda A. O. Hirschmann, Exit, Voice and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and States, 1970), ampliando le competenze regolamentari dell'autonomia statutaria e mutando (con le precisazioni che seguono, si veda infra) l'atteggiamento conservativo ante riforma, mirato (tanto) più a salvaguardare l'integrità del patrimonio sociale che a consentire pronti strumenti reattivi di disinvestimento.

Il tema si colloca nell'ambito della tradizionale dialettica tra maggioranza e minoranza,e tende a realizzare una mediazione tra l'interesse della maggioranza e quello del socio, consentendo a quest'ultimo di sottrarsi alle scelte compiute dalla società (i.e., dalla maggioranza) mediante il disinvestimento totale o parziale della partecipazione sociale.

Tali premesse valgono ad inquadrare correttamente l'istituto, anche al fine di avvicinarsi consapevolmente ai profili interpretativi che maggiormente interessano ai fini del presente commento. Ed, invero, nella sentenza qui annotata la Corte di Cassazione ha avuto il pregio di far proprio un ragionamento a livello di principi sottesi alla previsione di cui all'art. 2437, comma 3, c.c.. La norma, in ossequio al principio generale (mutuato dalla teoria dei contratti) di tendenziale sfavor nei confronti dei vincoli perpetui, consente al socio di una società per azioni, non quotata e costituita a tempo indeterminato, di recedere ad nutum dal contratto sociale con un preavviso di centottanta giorni (con la possibilità che lo statuto estenda tale termine di preavviso sino al massimo di un anno).

Si è a lungo dibattuto circa la possibilità di estendere in via analogica l'applicabilità del recesso ad nutum ai casi, come quello in esame, in cui il termine di durata, ancorché determinato, sia “largamente superiore alle aspettative di vita di un socio”.

La tesi positiva (si veda, per tutti, A. Morano, Analisi delle clausole statutarie in tema di recesso alla luce della riforma della disciplina delle società di capitali, in Riv. not., 2003, 1, 231e M. Quaranta, Commento all'articolo 2437 c.c., in G. Alpa, V. Mariconda (a cura di), Codice Civile Commentato, 2013, III, 904) affonda le proprie radici nella pretesa assimilabilità del recesso nelle società di capitali all'omonimo istituto in tema di società di persone, nell'ambito delle quali l'art. 2285 c.c. riconosce al socio il diritto di recesso sia in caso di indeterminatezza della durata del contratto sociale che quando la stessa perduri “per tutta la vita di uno dei soci”.

L'ontologica distanza tra le due discipline costituisce, a contrariis, l'argomento portato al tavolo dall'opposta e, invero, maggioritaria corrente interpretativa (si veda, ex multis, L. Cavalaglio, op. cit., 1187, L. Della Priscoli, L'uscita volontaria del socio dalle società di capitali, 2005, 29 e A. Paciello, sub art. 2437 c.c., in Comm. Niccolini-Stagno D'Alcontres, 2004, 1115), che propende per una interpretazione restrittiva (rectius letterale) del tessuto precettivo di cui all'art. 2437, comma 3, c.c.. Ed invero tale impostazione pare coerente – o quanto meno sintonica – rispetto al naturale contemperamento che il legislatore e gli interpreti sono chiamati ad effettuare tra il favor del legislatore riformista verso l'istituto del recesso, l'esigenza di non imbrigliare il socio in vincoli perpetui e quella di tutelare il ceto creditorio contro un possibile depauperamento patrimoniale(non compensato dalla responsabilità personale) derivante dal recesso di un socio da una società per azioni.

Non è apodittico considerare e precisare, come anche opportunamente evidenziato dalla pronuncia in esame, che la caratteristica delle società di capitali è quella di segregare il patrimonio della società da quello del socio, potendo il ceto creditorio contare soltanto sul primo, con un impatto sul patrimonio personale del socio solo nei limiti del conferimento – cd. “autonomia patrimoniale perfetta”.

Viceversa, i creditori di una società di persone possono fare affidamento, oltre che sul patrimonio sociale, anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili (con le note differenze in tema di preventiva escussione tra i vari tipi di società di persone, che in questa sede non si ritiene necessario rappresentare) – cd. “autonomia patrimoniale imperfetta”.

Rebus sic stantibus, mutuare la disciplina del recesso ad nutum appositamente dettata per le società di persone, o comunque fare leva sulla prevedibile durata della vita del socio e/o del progetto imprenditoriale (con locuzioni oltremodo aleatorie), per valutare la durata eccessiva o meno del contratto sociale, non sembrano scelte coerenti con la ratio sottesa alle società per azioni.

La struttura corporativa e patrimoniale di tale tipologia societaria, le eminenti esigenze di tutela del ceto creditorio e, a fortiori, di certezza del diritto richiedono (e forsanche impongono) di accogliere favorevolmente la lettura restrittiva operata dalla Corte di Cassazione con la sentenza qui annotata.

Permangono alcuni (comprensibili) dubbi in relazione alle società a responsabilità limitata caratterizzate da una impronta prettamente personalistica, ma il tema esula dall'oggetto della presente nota.

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