Il ‘destino' della proprietà intellettuale nelle procedure concorsuali

12 Maggio 2020

Il rapporto tra regole della proprietà intellettuale e nuove procedure concorsuali si rivela assai articolato, dovendosi rispondere a diverse esigenze e variegate fattispecie. In generale, l'attenzione sarà qui concentrata sull'ipotesi in cui, al momento dell'apertura della liquidazione giudiziale, nel patrimonio da liquidarsi siano presenti diritti di proprietà intellettuale, di cui l'imprenditore sia il titolare. Basti pensare ai diritti patrimoniali che scaturiscono da marchi registrati e degli altri segni distintivi, dai brevetti, dai modelli e disegni industriali, dal know-how, dai diritti di autore e dai diritti ad essi connessi.
La natura dei beni oggetto di proprietà intellettuale

Il rapporto tra regole della proprietà intellettuale e nuove procedure concorsuali si rivela assai articolato, dovendosi rispondere a diverse esigenze e variegate fattispecie.

In generale, l'attenzione sarà qui concentrata sull'ipotesi in cui, al momento dell'apertura della liquidazione giudiziale, nel patrimonio da liquidarsi siano presenti diritti di proprietà intellettuale, di cui l'imprenditore sia il titolare. Basti pensare ai diritti patrimoniali che scaturiscono da marchi registrati e degli altri segni distintivi, dai brevetti, dai modelli e disegni industriali, dal know how, dai diritti di autore e dai diritti ad essi connessi.

Da queste fattispecie occorre, invece, tenere distinti i cosiddetti diritti morali d'autore, che non sono idonei a costituire oggetto delle disposizioni traslative e che si deve ritenere rimangano in capo al debitore anche in sede di liquidazione, ovvero in capo al terzo che abbia ricevuto dal titolare il diritto di utilizzare il bene immateriale stesso.

Emerge qui la prima distinzione che necessita di una specificazione.

Infatti, laddove si tratti di diritti di cui l'imprenditore è titolare, ad essere applicabili saranno le norme del Codice della Crisi e dell'Insolvenza relative agli effetti della liquidazione giudiziale sui beni dell'imprenditore; diversamente, laddove si verta nella seconda ipotesi – di utilizzo da parte di un terzo sulla base di un titolo traslativo – a venire in considerazione sarà la normazione in materia di rapporti giuridici pendenti al momento della liquidazione giudiziale. Quella che un tempo era la disciplina di cui all'art. 64 e 65 legge fallimentare è oggi sostituita dagli artt. 163 e 164 Codice della Crisi e dell'Insolvenza.

Il dubbio principale a proposito dei beni di appartenenza dell'imprenditore in liquidazione riguarda la possibilità teorica di ritenerli beni personali dell'imprenditore, e dunque non sfuggenti alle regole sullo spossessamento in seguito all'apertura della liquidazione giudiziale. Infatti, si è sostenuto che la disputa dottrinale circa la possibilità di inquadrare i diritti di proprietà intellettuale tra i diritti della personalità a nulla rilevasse in caso di insolvenza. In altri termini, se pure si volesse sostenere che si tratti di diritti della personalità, non sarebbero immediatamente inquadrabili tra i beni strettamente personali un tempo disciplinati dall'art. 46 legge fallimentare e oggi dall'art. 146 Codice della Crisi e dell'insolvenza (Beni non compresi nella liquidazione giudiziale).

Semmai, a siffatta categoria potrebbero essere ascritti solamente i diritti di pubblicazione e di utilizzazione delle opere di ingegno strettamente personali dell'autore: ai sensi della legge sul diritto di autore (Legge 22 aprile 1941, n. 633), aggiornata nell'aprile del 2019, e in particolare dell'art. 111, essi non potranno essere oggetto di pegno, di pignoramento né di sequestro.

È, invece, da ritenersi ancora dubbio se rientri nella fattispecie di cui all'art. 111 Legge diritto d'autore la categoria che comprenda quelle opere che non siano ancora uscite dalla sfera personale dell'autore ma che, per la loro natura, assurgano allo status di beni.

I diritti di proprietà intellettuale come parte dell'attivo da liquidare

Può ritenersi principio ormai assodato, quello secondo cui i diritti di proprietà intellettuale siano da considerarsi parte dell'attivo fallimentare.

Qualche perplessità sorge in riferimento all'impresa individuale.

Ci si domanda, infatti, se la ditta dell'imprenditore individuale in liquidazione costituisca ovvero non costituisca un bene personale dell'imprenditore stesso.

Difatti, se fosse un bene personale dell'imprenditore, egli stesso dovrebbe poterla cedere a terzi, così realizzando il valore di scambio: eppure questo non può essere compiuto, perché per potere trasferire la ditta occorre contestualmente trasferire l'azienda. Dunque, se il debitore non è nelle condizioni di trasferire l'azienda, non sarà neppure in quelle di trasferire la ditta.

Altra e differente questione è relativa al dubbio circa la possibilità per gli organi della procedura liquidatoria, di trasferire a terzi, senza il consenso dell'imprenditore, la ditta recante il suo nome personale, nel quadro della liquidazione dell'attivo.

Verosimilmente sì.

Il ricavato della cessione della ditta assurge al ruolo di bene dell'attivo della liquidazione giudiziale, non già di bene personale del debitore. Ecco perché è, altresì, possibile affermare che non sia necessario il consenso del debitore. La finalità del recupero dei beni a favore dei creditori ha, quindi, preminenza rispetto alla tutela di un presunto diritto della personalità.

È proprio questo, verosimilmente, il punto di vista del curatore della liquidazione giudiziale. Egli, infatti, catalogherà i diritti di proprietà intellettuale come elementi dell'attivo da liquidare. Peraltro, come è stato sottolineato, la liquidazione giudiziale si atteggia in maniera peculiare per i beni della proprietà intellettuale; più specificamente, si tratterebbe di rischi peculiari cui sarebbero soggetti siffatti beni, ai quali curatore e organi della procedura devono essere messi nelle condizioni di dare adeguata risposta.

Il caso dei brevetti per invenzione e per disegno o modello

Evidentemente, l'apertura di una liquidazione giudiziale non determina alcun tipo di diminuzione del valore di brevetti per invenzione e per modello o disegno. La consistenza economica del bene rimane la medesima. Occorre, tuttavia, riflettere sul fatto che i brevetti hanno una durata limitata nel tempo. Una volta che si sia aperta la liquidazione giudiziale, si interrompe lo sfruttamento del bene da parte del titolare. Dunque, segue un non utilizzo del bene medesimo che consuma la durata dell'esclusiva, riducendo il residuo valore sia di uso che di scambio.

Ecco, dunque, che il curatore sarà tenuto ad agire con la massima tempestività per porre in essere tutte le iniziative che possano preservare il valore di scambio del bene della proprietà intellettuale. Tra le iniziative che potrà porre in essere, vi sono la concessione di licenze, nonché l'alienazione a terzi del titolo. In passato (e finora) si poteva applicare l'art. 104, comma 2, legge fallimentare, oggi sostituito dall'art. 211, comma 3, Codice della crisi e dell'insolvenza. Si è preferito invece, escludere l'applicabilità dell'art. 84 ultimo comma, legge fallimentare, in materia di vendita di cose deteriorabili, oggi sostituito dall'art. 193, comma 4, Codice della crisi e dell'insolvenza. Infatti, la ratio dell'art. 84 legge fallimentare è di natura cautelare, come si evince dal dettato stesso della norma, secondo il quale il Giudice Delegato possa “emettere i provvedimenti provvisori e conservativi che ritiene necessari”; solo successivamente sarà possibile procedere alla vendita.

Piuttosto, ad essere rilevante sarebbero state le previsioni dell'art. 104, comma 2, legge fallimentare, che permettevano un'accelerazione delle operazioni e che avrebbero consentito di procedere prima della dichiarazione di esecutività dello stato passivo ai sensi dell'art. 97 legge fallimentare, oggi sostituito dall'art. 205, Codice della crisi e dell'insolvenza.

Un discorso particolare va affrontato per il caso in cui le domande di brevetti siano ancora in fase di approvazione, ovvero i modelli e i disegni per i quali non sia ancora iniziato il procedimento che porti alla registrazione del brevetto. Anche in tale evenienza un ruolo fondamentale dovrà essere svolto dal curatore.

A lui sarà richiesto – verosimilmente con la collaborazione del giudice delegato – di decidere in merito alla prosecuzione della procedura di brevettazione. Si tratta, infatti, di una procedura, iniziata dall'imprenditore prima dell'apertura della liquidazione giudiziale, che rientrerebbe negli atti di ordinaria amministrazione. In ipotesi particolari, però, dal momento che possono essere richiesti anche costi di ingente entità, almeno in passato, si è ritenuto potesse essere comunque indispensabile il ricorso alla figura del giudice delegato.

Si tratta di considerazioni che ugualmente si potranno applicare laddove la scelta sia sul brevettare o non brevettare un'invenzione che sia nel patrimonio dell'imprenditore prima dell'apertura della liquidazione giudiziale, se l'imprenditore in persona non abbia ancora proceduto al deposito della domanda. Si possono ritenere superate pregresse posizioni di dottrina che riconosceva l'esistenza di un diritto soggettivo ‘morale' alla ‘non brevettazione', sicché oggi si deve ritenere che si tratti di un diritto di natura squisitamente patrimoniale e che gli organi della procedura siano tenuti ad avviare la domanda per richiedere il brevetto per le invenzioni o i disegni o modelli. Ancora, è da escludere oggi che la persona dell'imprenditore conservi il diritto di potere richiedere in maniera autonoma la concessione della privativa anche successivamente all'apertura della liquidazione giudiziale: peraltro, se anche si dovesse riconoscere come ammissibile una tale ipotesi, le conseguenze economiche dell'attività sarebbero tutte in capo alla procedura.

Un discorso peculiare vale in riferimento alle invenzioni di servizio (art. 23, comma 1, R.D. 29 giugno 1939 n.1127 e di azienda (art. 23, comma 2). Per tali ipotesi, infatti, si conferma la titolarità in capo al datore di lavoro, ma, per le invenzioni di azienda è fatto salvo l'obbligo di riconoscere al dipendente un equo premio per l'invenzione.

A questo proposito, i curatori dovranno tenere presente che la legge riconosce una presunzione al favore del dipendente (art. 26, R.D. 29 giugno 1939 n.1127): si considera fatta durante il rapporto l'invenzione di cui l'ex dipendente richieda il brevetto entro un anno dalla cessazione del lavoro. La Corte di Cassazione ha avuto l'opportunità di pronunciarsi in una simile fattispecie, affermando che l'equo premio di cui all'art. 23, comma 2, R.D. 29 giugno 1939 n.1127, si configura solamente laddove si ottenga la concessione del brevetto: essa si atteggia a condicio juris e qualora il curatore del fallimento scelga di esercitare il diritto dell'imprenditore alla brevettazione di un'invenzione d'azienda, il credito del dipendente sorgerebbe nei confronti della massa e sarebbe sottoposto alle regole della par condicio creditorum.

Sotto un certo profilo, meno problematico è il caso delle invenzioni che rientrano nel campo di applicazione dell'art. 24 R.D. 29 giugno 1939 n.1127. Si tratta delle invenzioni in riferimento alle quali il datore di lavoro ha solamente un diritto di prelazione o, più precisamente, un diritto di opzione d'acquisto. Al proposito, occorre sottolineare che tale diritto di opzione può essere esercitato dalla massa, ma viene fatto salvo il diritto del dipendente di ottenere il prezzo dell'invenzione, da pagarsi integralmente anche laddove la stessa opzione sia stata esercitata prima dell'apertura della liquidazione giudiziale.

I segreti industriali e il know how

In riferimento ai segreti industriali ed al know how, dottrina risalente aveva distinto tra il know how cosiddetto accessorio dal know how autonomo, ossia il segreto vero e proprio. Nel primo caso, la fattispecie si gestirebbe con maggiore semplicità, perché il trasferimento di segreti ‘accessori', spesso inglobato nel trasferimento della complessiva azienda, seguirebbe le regole consuete. Più difficoltosa è la soluzione nel secondo caso.

Infatti, laddove si parla di veri e propri segreti industriali autonomi, gli organi della procedura si troverebbero innanzi a un'alternativa: avanzare la domanda per il brevetto, ovvero perdere il valore connesso all'utilizzazione della tecnologia segreta. Questa teorica distinzione, invero, trova un'evidente contraddizione nel dettato dell'art. 6-bis R.D. 29 giugno 1939 n.1127 (introdotto nel 1996). È, dunque, evidente come sia esclusiva spettanza del titolare dei segreti aziendali, industriali e commerciali, la protezione offerta dall'azione di concorrenza sleale. Vero è, pure, che dal punto di vista pratico emergono numerosi problemi. Forse il maggiore è rappresentato dalla difficoltà di apprensione dei segreti all'attivo fallimentare.

Potrà essere, dunque, ricondotto ai compiti del curatore, quello di attivarsi per realizzare l'obiettivo.

Peraltro, come si può supra leggere, l'art. 6-bis R.D. 29 giugno 1939 n.1127 (articolo aggiunto dall'art.14 d. lgs. 19 marzo 1996 n.198), la tutela del segreto industriale è realizzata attraverso lo strumento dell'azione di concorrenza sleale. Dunque, il segreto industriale viene a configurarsi quale ‘bene' in senso tecnico, dotato di un valore economico proprio in quanto connesso a conoscenze segrete. Tali informazioni, dunque, devono essere suscettibili di una valutazione economica e di uno scambio sul mercato, perché possano essere vendute o cedute dietro corrispettivo.

I marchi registrati

Per quanto attiene ai marchi registrati, appartiene alla comune esperienza, come alcuni di essi, sebbene appartenenti ad aziende che si trovano a vivere situazione di crisi o di insolvenza, mantengano un innegabile valore. Si tratta di marchi evocativi o suggestivi, il cui valore è, perlopiù, determinato dal passato aziendale, ma anche dall'impegno pubblicitario e dall'utilizzo di cui sono stati oggetto. Ne consegue che, anche alla luce della nuova disciplina del Codice della crisi e dell'insolvenza, sia richiesto agli organi concorsuali una riflessione preventiva per verificare la situazione di fatto e assicurare la continuazione nell'uso di un marchio vincente nelle fasi che precedono l'insolvenza e nelle fasi successive, anche attraverso la concessione di licenze.

Peraltro, la legge sui marchi rinnovata nel 1992 (D.Lgs. 4 dicembre 1992 n.480), ha eliminato la disposizione che prevedeva la decadenza del marchio registrato per effetto della cessazione definitiva dell'impresa del titolare, portando alla conclusione – comunemente accettata in dottrina – che il fallimento non togliesse al titolare il diritto sul suo marchio. Tale soluzione, poi, avrebbe trovato conferma nella lettura dell'art. 90 Legge Fallimentare, che consentiva l'esercizio provvisorio dell'impresa.

Oggi la previsione si è tramutata nella disposizione di cui all'art. 199 Codice della crisi e dell'insolvenza.

D'altra parte, occorre sottolineare che il curatore non potrà usare il marchio direttamente, o meglio potrà farlo solamente laddove sia autorizzato all'esercizio provvisorio dello stesso. Egli può, in ogni modo, cederlo in licenza d'uso a terzi

Atti di disposizione dei diritti di proprietà intellettuale antecedenti all'apertura della liquidazione giudiziale

Occorre dedicare qualche riflessione al caso in cui, prima dell'apertura della liquidazione giudiziale, l'imprenditore abbia compiuto atti di disposizione sui propri diritti di proprietà intellettuale. Ovviamente, la domanda fondamentale che occorre porsi è se tali atti di disposizione siano opponibili alla procedura oppure no e, nel caso in cui lo siano, a quali condizioni.

La dottrina e la giurisprudenza hanno ritenuto applicabile nella fattispecie, l'art. 45 legge fallimentare, sottolineando come l'omissione della formalità consistente nella trascrizione degli atti di disposizione aventi ad oggetto tali diritti, renda inopponibile l'atto di cessione o di disposizione al fallimento del dante causa. Tale ragionamento deve oggi ritenersi valido anche nei riguardi della liquidazione giudiziale. Proseguendo in tale riflessione, se l'atto di disposizione si deve ritenere inopponibile al fallimento, a quest'ultimo spetterà anche la titolarità piena del diritto.

Invece, in riferimento alla materia dei diritti d'autore, non è prevista la trascrizione obbligatoria nei registri degli atti di disposizione aventi ad oggetto le opere registrate; o meglio, una simile previsione vale solo per le opere cinematografiche (art. 22, legge 1 marzo 1994, n.153). Dunque, la trascrizione che era prevista dall'art. 104 legge fallimentare e oggi dall'art. 211 Codice della crisi e dell'insolvenza, non è idonea a sciogliere i conflitti tra i diversi aventi causa del titolare dei diritti di utilizzazione economica del diritto d'autore (o dei diritti connessi), ma semmai essa consente di ottenere la certezza circa la data dell'atto di disposizione, per gli scopi di cui all'art. 2704 c.c.

Quelle descritte sono discipline specifiche. La regola generale, invece, risulterebbe dal combinato disposto di cui all'art. 45 Legge fallimentare e all'art. 2704 c.c. poc'anzi richiamato. Occorre, altresì, ricordare che, per i diritti sui beni immateriali, la regola generale sostiene che gli atti di disposizione non richiedono la forma scritta né ad probationemad substantiam.

La particolare disciplina del contratto di edizione

Una particolare riflessione meritano le vicende relative al contratto di edizione.

Rileva in proposito l'art. 135 legge 22 aprile 1941 n. 633. Si legge: “Il fallimento dell'editore non determina la risoluzione del contratto di edizione. Il contratto di edizione è tuttavia risolto se il curatore, entro un anno dalla dichiarazione del fallimento, non continua l'esercizio dell'azienda editoriale o non la cede ad un altro editore nelle condizioni indicate nell'art. 132”.

La disposizione dell'art. 135 è stata ritenuta applicabile (in teoria) anche, in virtù del generale richiamo dell'art. 136, comma 1, legge 22 aprile 1941 n. 633, che ha consentito di ritenere il contenuto del citato art. 135 applicabile anche ai contratti di rappresentazione e di esecuzione. Tuttavia – come recita il secondo comma della norma – i diritti nascenti da siffatti contratti non sarebbero mai trasferibili, salvo patto contrario. Una simile considerazione rende, nei fatti, sostanzialmente inutilizzabile proprio il regime del comma 1 cui fa rinvio. Inoltre, occorre ricordare che l'art. 135, legge 22 aprile 1941 n.633 non troverebbe applicazione per gli altri atti di trasferimento dei diritti di utilizzazione economica di opere protette dalla legge sul diritto d'autore, per le quali, invece, valgono le regole che possono essere desunte dai principi generali in tema di rapporti pendenti.

La cessione dei diritti di proprietà intellettuale. Alcune riflessioni

Solo per comodità di chi legge, ricordiamo che quando si afferma che la cessione dei diritti di proprietà intellettuale, operata dal curatore del fallimento, trasferisce al cessionario il diritto di esclusiva, si intende affermare che si cede il diritto di stabilire in ciascun momento quanti prodotti rientranti nel monopolio del titolare potranno essere immessi in commercio.

Due interessi, in fase di liquidazione giudiziale, si contrappongono.

Da un lato l'interesse del nuovo titolare del diritto, che vorrà sfruttarlo in maniera piena; dall'altro lato, vi è l'interesse proprio della procedura concorsuale, a recuperare ogni tipo di valore aziendale presente nel patrimonio dell'imprenditore. Entra in gioco il dettato dell'art. 1-bis R.D. 21 giugno 1942 n.929, ossia della legge sui marchi, il quale, in riferimento ai marchi registrati, stabilisce il principio generalmente valido in materia di proprietà intellettuale, secondo il quale il titolare del diritto non può opporsi alla circolazione dei prodotti coperti dall'esclusiva dopo che essi sono stati messi in commercio da lui o con il suo consenso nel territorio dello Stato o dell'Unione Europea. La giurisprudenza di merito ha, in passato, sostenuto la prevalenza delle norme relative alla proprietà intellettuale rispetto a quelle vigenti in materia di liquidazione fallimentare: mutatis mutandis, si dovrebbe sostenere la prevalenza, oggi, delle norme suddette rispetto alla disciplina che regola la liquidazione giudiziale.

Ne deriverebbe, in una sorta di tentativo di contemperare i diversi interessi, che i soggetti deputati a operare nella fase di liquidazione giudiziale, dovrebbero porre attenzione ad agire secondo un certo programmato ordine nelle cessioni: occorrerebbe alienare prima le merci e solo successivamente i beni immateriali oggetto di proprietà intellettuale; ovvero, dovrebbero operare inserendo negli stessi contratti di trasferimento dei beni oggetto di proprietà intellettuale clausole specifiche e opportune che mirino al contemperamento di suddetti interessi.

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