Ammesso l'accertamento della paternità anche attraverso campioni biologici acquisiti dal CTU presso l'azienda ospedaliera
13 Maggio 2020
Anche la “conservazione” del dato personale rientra tra le operazioni di trattamento e può trovare giustificazione rispetto alle finalità istituzionali dell'ente pubblico, laddove queste prevedano forme obbligatorie ex lege di archiviazione dei dati in funzione del perseguimento di interessi pubblici prevalenti, quali, ad esempio, l'impiego giudiziario del campione biologico, o se la conservazione sia effettuata per fini scientifici o statistici.
Il caso. Nel 2017 la Corte d'Appello di Venezia rigettava l'impugnazione proposta avverso una decisione di primo grado che aveva accolto la domanda di accertamento dello status di figlio naturale proposta da un uomo e rigettato la domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento dei danni per doloso occultamento della procreazione con conseguente e ingiusta privazione per il padre del rapporto di filiazione (danno da perdita di chances). Nelle more del giudizio il “padre naturale” moriva e a lui succedeva l'erede. La Corte territoriale dichiarava inammissibili i motivi di gravame, ritenendoli sforniti di una critica puntuale agli argomenti in fatto e in diritto svolti dal Tribunale. Avverso la sentenza l'erede presentava ricorso per Cassazione, sulla base di cinque motivi. In particolare, con il terzo, denunciava il fatto che la Corte d'Appello, pur dichiarando inammissibili i motivi di gravame, li aveva comunque esaminati e aveva aderito alle argomentazioni svolte dal Tribunale, ritenendo legittime le operazioni peritali eseguite. In realtà, per il ricorrente, i dati personali posti a fondamento delle risultanze della CTU non avrebbero potuto essere utilizzati nel processo civile in quanto illecitamente “ceduti” dalle strutture ospedaliere, tenuto conto del divieto di utilizzazione di prove illegittimamente acquisite, di cui all'art. 191 c.p.p. Con il quinto motivo, poi, il ricorrente si doleva del rigetto della domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento del danno, formulata iure hereditatis, e fondata sull'occultamento illecito dell'esistenza di un figlio. Il ricorrente lamentava un pregiudizio al diritto alla genitorialità del padre naturale, al quale era stato impedito di instaurare un rapporto educativo ed affettivo con la prole. Il “figlio” resisteva in giudizio con controricorso mentre la madre biologica, intimata, non svolgeva difese.
Osservazioni della Corte di Cassazione. I Supremi Giudici osservano, innanzitutto, come la pronuncia della Corte veneta, di inammissibilità dell'appello, per mancanza del requisito di specificità dei motivi di gravame, non sia conforme al diritto. Dall'esame dell'atto di appello emerge, infatti, che l'appellante, nell'esporre i motivi di impugnazione, abbia fornito gli elementi minimi idonei a sottoporre alla Corte territoriale l'esame degli argomenti, in fatto e in diritto, volti a contrastare le statuizioni assunte dal primo giudice. Pur essendo la Corte d'Appello incorsa in errore processuale, la sentenza impugnata non può essere cassata, poiché il giudice di seconda istanza ha comunque esaminato anche nel merito i motivi di gravame. Per la Suprema Corte la categoria dell'inutilizzabilità della prova, ex art. 191 c.p.p., posta a tutela del diritto di difesa dell'imputato, non è contemplata nell'ordinamento processual-civilistico, poiché non vengono, in questo, in rilievo le stesse esigenze di garanzia richieste dal giudizio penale. Nel giudizio civile il giudicante non incontra i limiti della “tipicità” del mezzo probatorio. Infatti, le prove atipiche sono utilizzabili, purché non costituiscano, ex se, lesione di un diritto fondamentale della persona. Pertanto, esclusa la diretta applicazione delle norma processuale penale al giudizio civile, la censura mossa dal ricorrente col terzo motivo di impugnazione attiene all'invalido svolgimento della CTU, fondata su elementi probatori - costituiti da vetrini con campioni biologici del “padre” conservati presso i luoghi di degenza di questi - che, secondo lui, erano stati acquisiti illecitamente, violando le norme dettate dal d.lgs. n. 196/03, recante il codice in materia di protezione dei dati personali. Il Supremo Collegio ha più volte affermato il principio che stabilisce l'estraneità, dalle fonti di prova (anche atipiche) di quelle acquisite con modalità tali da ledere le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite. Pertanto, ha ritenuto errata l'affermazione della Corte d'Appello secondo la quale, in mancanza di norme che espressamente limitano, nel giudizio civile, l'utilizzo di prove acquisite illecitamente, si ricaverebbe il principio di una generale ammissione di tali fonti di prova. Per gli Ermellini, al contrario, resta precluso l'accesso a quelle prove la cui acquisizione concreti una lesione diretta di interessi costituzionalmente tutelati, riferibili alla parte contro cui la prova deve essere utilizzata. Ad avviso dei giudici della Terza Sezione l'assunto - secondo il quale il CTU non avrebbe potuto acquisire i suddetti vetrini con i campioni biologici presso i nosocomi, perché i dati personali alla data di cessazione del trattamento dovevano essere distrutti e non potevano essere ceduti dalle strutture sanitarie - è privo di fondamento. Non è, infatti, configurabile alcuna lesione del diritto alla privacy qualora ci sia stato un utilizzo dei dati personali a fine di giustizia, ossia quando i dati vengano raccolti e gestiti nell'ambito di un processo e l'atto processuale con cui si sia posto in essere tale utilizzo risulti conforme al relativo codice di rito. Non è configurabile, in capo al titolare del trattamento un automatico obbligo di distruzione del dato, laddove il termine della conservazione sia correlato a finalità istituzionali dell'ente pubblico. Pertanto, ritenuta lecita la conservazione dei suddetti vetrini, risulta infondata la supposta violazione del divieto di cessione dei dati personali dell'uomo: la consegna dei vetrini è avvenuta in adempimento di una richiesta formulata dall'ausiliario del giudice. La Cassazione, inoltre, afferma che, nella fattispecie in esame, non possa configurarsi una lesione del diritto alla genitorialità, come sostenuto dal ricorrente, poiché il defunto aveva sempre negato di aver avuto rapporti intimi con l'intimata e negava la possibilità di una sua paternità rispetto al figlio di questa. Dalla ricostruzione dei fatti si era evidenziato come tra la donna e il defunto ci fosse stato soltanto un incontro, al quale non era seguita né una convivenza, né una relazione sentimentale. La donna aveva contratto matrimonio con altro uomo, e con questi aveva costituito una famiglia, all'interno della quale era cresciuto anche il controricorrente. Nel caso de quo, più che il diritto alla genitorialità, verrebbe in rilievo l'esigenza, da parte del soggetto che ha partecipato al concepimento, di conoscere che la gravidanza è a lui riferibile, consentendogli di esercitare il diritto - dovere di riconoscere il figlio naturale. Pertanto, la condotta omissiva della donna avrebbe leso il diritto all'autodeterminazione del padre naturale. Tuttavia, così non è. L'obbligo dei genitori di mantenere i figli sussiste per il mero fatto giuridico della procreazione. Il fatto che la donna abbia taciuto la gravidanza non è sufficiente ad affermare l'illiceità di questo comportamento e l'ingiustizia del danno. In definitiva, il danno ingiustamente subito non può ritenersi presunto dalla mancata comunicazione della donna.
Conclusione. Con la sentenza in oggetto, i Giudici della Terza Sezione civile della Corte di Cassazione rigettano il ricorso e condannano il ricorrente alla refusione delle spese del giudizio di legittimità, in favore del controricorrente. |