Il potere datoriale ai tempi del Covid-19: scenari passati, presenti e futuri

Jacopo Ierussi
29 Aprile 2020

Il Legislatore del “Coronavirus” ha già offerto un segnale forte in questa direzione quando, con una previsione ai limiti dell'incostituzionalità (seppur comprensibilmente opportuna), ha stabilito all'art. 46 del d.l. n. 18 del 2020 (cd. “Cura Italia”) il divieto di licenziamento (fatto salvo quello disciplinare) per 60 giorni a partire dalla sua entrata in vigore ovvero fino al prossimo 17 maggio 2020. Decodificare la ratio legis è agevole...
Introduzione

Questi sono i giorni in cui si rievoca il “Dopoguerra”, in cui la crisi che stiamo vivendo richiama il periodo storico durante il quale, per mano dei Padri Costituenti, venne alla luce uno dei principi fondamentali della Carta costituzionale nonché caposaldo del nostro ordinamento politico-giuridico: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Più che una norma una chiave di lettura del nostro Paese, dotata di un potere che va aldilà di quello puramente precettivo e questa potrebbe essere una spiegazione plausibile della lunga e controversa lotta intrapresa dal nostro Legislatore per avvicinare l'Italia agli standard europei di flexicurity a sfavore di quelle parti sociali che non vogliono un rafforzamento delle prerogative datoriali, ma anzi la loro procedimentalizzazione.

Ad ogni modo, il fattore COVID-19 ha cambiato le prospettive socio-economiche italiane ed ha aperto oltre che ampliato diversi scenari sul piano giuridico (si pensi ad es. allo “smartworking”), e, se le crisi del passato sono state l'occasione per depotenziare le tutele dei lavoratori, stavolta, in questo peculiare contesto fattuale, si stanno individuando soluzioni di segno opposto.

A tal riguardo, la presente pubblicazione intende approfondire l'art. 1, ma non quello della nostra Costituzione da cui abbiamo preso le mosse, ma del d.l. n. 23 del 2020 (cd. “Liquidità”) che al comma 2, lett. l) prevede quanto segue: “l'impresa che beneficia della garanzia assume l'impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”.

Un passo indietro rispetto alla flexicurity

È notorio che per tradizione i poteri del datore di lavoro sono distinti in quelli di: (i)vigilanza o controllo; (ii) organizzazione o direttivo; (iii) disciplinare o sanzionatorio. Nell'ultimo decennio, quest'ultimi due aspetti sono stati oggetto di più di una riforma del lavoro soprattutto in punto di licenziamenti. Il Legislatore sembrava infine aver sposato un modello di flessicurezza con le tutele crescenti del cd. “Jobs act” (previste dal d.lgs. n. 23 del 2015) sennonché la sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale ha prontamente smantellato detta convinzione e costretto l'interprete a rivolgere nuovamente lo sguardo ai criteri discrezionali stabiliti dall'art. 8, l. n. 604 del 1966 nonché dall'art. 18 st. lav. (anziché esclusivamente a quello della sola anzianità) per quanto concerne la determinazione da parte del giudice dell'indennità spettante al prestatore di lavoro in caso di recesso illegittimo.

Difatti si torna ciclicamente al passato, più vicini a quel neonato art. 1 della nostra Costituzione e stavolta ad opera di un suo omonimo che nel Decreto Liquidità prevede che la SACE S.P.A., posseduta da Cassa Depositi e Prestiti (ma, a fronte del Decreto stesso, presieduta da una governance dotata di maggior autonomia rispetto a prima), è autorizzata a concedere, fino al 31 dicembre 2020, garanzie per il rilascio sotto qualsiasi forma di finanziamenti alle imprese con sede in Italia colpite dall'epidemia COVID-19. Tenuto conto del periodo corrente, caratterizzato dal blocco delle attività imposto ad un elevato numero di categorie d'impresa, è scontato dire che la possibilità di accedere ad un flusso di liquidità garantita dallo Stato sia più un obbligo che una scelta strategica per le aziende italiane, ma, come anticipato, tra le varie condizioni per beneficiarne vi è quella dell'impegno alla salvaguardia occupazionale. In parole povere, l'auto imposizione di un ulteriore sbarramento in materia di licenziamenti.

Il Legislatore del “Coronavirus” ha già offerto un segnale forte in questa direzione quando, con una previsione ai limiti dell'incostituzionalità (seppur comprensibilmente opportuna), ha stabilito all'art. 46 del d.l. n. 18 del 2020 (cd. “Cura Italia”) il divieto di licenziamento (fatto salvo quello disciplinare) per 60 giorni a partire dalla sua entrata in vigore ovvero fino al prossimo 17 maggio 2020. Decodificare la ratio legis è agevole: lo Stato vuole sostenere economicamente le imprese, però a patto che il superamento della crisi odierna non si paghi in posti di lavoro persi poiché il preservamento del volume del gettito fiscale e il (ri)finanziamento delle casse dell'INPS dipenderà in futuro dall'aumento o meno del tasso di disoccupazione che, altrimenti, li potrebbe mettere entrambi inevitabilmente a rischio.

È di pronto riscontro, però, come la norma sia affetta da un alto grado di genericità tale da comportarne, ad avviso di chi scrive, o la salvezza tramite un intervento correttivo in sede di legge di conversione o addirittura la prematura dipartita tramite una sua abrogazione nel prossimo futuro.

Le molteplicità interpretative

Ed invero, non si comprende quali sono gli interlocutori qualificati e interessati dal citato art. 1 e solo un'ottica sistematicamente orientata ci porterebbe a farli coincidere con i sindacati comparativamente più rappresentativi, poiché, altrimenti, l'escamotage per le parti datoriali sarebbe a portata di mano con i tristemente noti “accordi pirata” siglati con sindacati minori o di facciata. Questo è quanto si presume, eppure non è un obbligo stabilito a chiare lettere dal Legislatore; obbligo che, tra le altre cose, non pare assumersi nei confronti delle OO.SS. quanto più probabilmente della sola SACE S.p.A. al momento della sottoscrizione dell'accordo per il finanziamento garantito, senza che tale condizione sia prodromica all'ottenimento di quest'ultimo.

Entro quanto tempo dovrà essere stipulato l'accordo sindacale per non perdere il beneficio della garanzia offerta dall'art. 1 de quo non è dato saperlo. Nemmeno quali saranno i successivi meccanismi di controllo e le conseguenze del raggiungimento di intese soltanto con alcune delle OO.SS. presenti in azienda o in rami di essa. Si dà persino per scontata la durata dell'accordo nella norma esaminata seppur possa facilmente presumersi che i sindacati pretenderanno sia parificata a quella del finanziamento (e viene spontaneo chiedersi se la durata del citato “impegno” non si estenda automaticamente qualora l'azienda richieda una moratoria di pagamento). Quest'ultima ipotesi appare difficilmente compatibile con una sana gestione delle risorse umane che deve essere in grado di adeguarsi ed adeguare i processi produttivi e l'organizzazione aziendale ai segni del tempo e non può essere ingabbiata in uno scenario dove l'unica possibilità di recedere da un rapporto di lavoro è il verificarsi di una grave situazione di illecito disciplinare.

A parere di chi scrive, non si possono sposare i primi orientamenti di dottrina che mettono in dubbio la legittimità di una procedura di licenziamento collettivo avviata da un datore di lavoro che, nonostante si sia impegnato ai sensi del citato art. 1, in seguito non abbia assolto al proprio obbligo tentando quantomeno di raggiungere un accordo con i sindacati. Ed invero, il datore di lavoro potrebbe comunque aver adempiuto a tutti gli obblighi previsti dalla l. n. 223 del 1991, ivi compresa la fase di consultazione con le OO.SS. che, pertanto, potrebbe essere ritenuta viziata a priori soltanto laddove si ipotizzi una condotta antisindacale “indiretta” da ricondurre al mancato invito all'indirizzo della controparte sindacale alla conclusione di un accordo per la gestione condivisa dei livelli occupazionali. Si è dell'avviso che, allora, la conseguenza più logica del mancato rispetto dell'impegno assunto ai sensi dell'art. 1 sia la perdita del diritto al finanziamento garantito, oltre ad una eventuale azione ai sensi dell'art. 28 st. lav. da parte del sindacato che consideri lese le proprie prerogative.

Un'ulteriore questione aperta è se il mancato raggiungimento di un accordo con la controparte sindacale equivalga parimenti ad un inadempimento rispetto all'obbligo assunto verso SACE. Ed invero, la formulazione della norma, che non pare lasciare spazio ad alternative rispetto al raggiungimento di un'intesa, si rivela infelice anche in questo senso e potrebbe porre giocoforza i datori di lavoro in una posizione svantaggiosa in cui sono costretti a siglare un accordo con le OO.SS. a prescindere della condizioni avanzate da quest'ultime in sede concertazione.

Osservazioni finali

In pratica, nel contesto oggetto di disamina, l'intensità del vincolo cui saranno sottoposti i datori di lavoro dipenderà dalla loro ars mercatoria. In caso contrario, maglie troppo strette impediranno al datore di lavoro, a titolo esemplificativo, di avviare una procedura di licenziamento collettivo quando ritenuta necessaria senza il benestare delle parti sindacali; benestare che già era di per sé stesso auspicabile anche in precedenza. Si ricorda che, infatti, a fronte di ogni recesso è previsto il pagamento da parte del datore di lavoro nei confronti dell'INPS del cd. “ticket di licenziamento” o “contributo NASpI” e che nel contesto di un licenziamento collettivo la normativa di riferimento prevede che la misura del suddetto contributo sia moltiplicata per tre volte nell'ipotesi di mancato accordo.

A onor del vero, questo espediente del Legislatore, più che per garantire i lavoratori, pare una presa d'atto della perdita di centralità del ruolo del sindacato nella gestione delle dinamiche lavoristiche. Non a caso lo stesso asse della contrattazione collettiva si è spostato dall'ambito nazionale a quello aziendale a fronte dell'esigenza, percepita dallo stesso Legislatore, di riavvicinare le parti sociali ad un concetto di vera condivisione delle strategie tra impresa e forza lavoro, anche se, a parere di chi scrive, questa situazione dovrebbe portare più propriamente a rivedere lo stallo sull'art. 39 della Costituzione.

Nonostante ciò, il Legislatore dell'emergenza non ha stabilito che fossero designate le “organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria” quali interlocutrice qualificate per le imprese che desiderano beneficiare del credito garantito da SACE. Questa carenza (voluta o meno) che, si ribadisce, potrebbe essere corretta in sede di conversione in legge, ad oggi pone una grande incertezza circa la sussistenza di un giusto bilanciamento nella norma commentata tra due principi tratti dal Titolo III - “Rapporti economici” della Carta Fondamentale, ovvero quelli secondo cui, da una parte, la Repubblica “Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro” (cfr. art. 35, comma 3, Cost.) mentre, al contempo, dall'altra, “L'iniziativa economica privata è libera” (cfr. art. 41 Cost.).

In definitiva, in un prossimo futuro la solvibilità delle imprese italiane potrebbe dipendere in maniera sensibile dalla capacità di dialogo tra quest'ultime e la loro controparte sindacale e ciò, a ben vedere, potrebbe portare ad una rivoluzione copernicana delle relazioni industriali oppure ad una ulteriore débâcle della nostra economia.

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