COVID-19 e il problema del pagamento dei canoni senza il concreto godimento degli immobili commerciali
15 Maggio 2020
Il quadro normativo
Il susseguirsi di provvedimenti emergenziali (nella fase 1) relativi all'epidemia da Covid-19 ha creato una stratificazione di norme di rilevante dimensione che, anche per la natura eterogenea degli argomenti trattati, ha creato incertezza interpretativa e problematiche di coordinamento sistematico tra le stesse che - in assenza di auspicata chiarificazione legislativa - possono solo essere valutate secondo le interpretazioni degli operatori. Inizialmente, il d.p.c.m. 22 marzo 2020 aveva disposto la chiusura delle attività economiche ritenute non essenziali; inoltre, con ulteriori successivi provvedimenti, era stata disposta la modifica dell'elenco dei codici ATECO delle attività economiche ritenute servizi essenziali. Dunque, si susseguivano una serie di provvedimenti legislativi emergenziali, sotto forma di d.p.c.m., ordinanze del Ministro della salute, dello sviluppo economico, oltre a successivi provvedimenti delle Autorità regionali, rivolti a contenere la diffusione del virus e prevenire il contagio, direttamente incidenti tanto sulla libera circolazione delle persone quanto su altri diritti fondamentali, nonché, per quanto ci occupa, sul “blocco” delle attività commerciali, ad eccezione delle rivendite di generi alimentari e prima necessità, edicole, tabaccai, benzinai, farmacie e parafarmacie e previa assunzione da parte di queste attività, di misure idonee di sicurezza sul lavoro. In particolare, con il d.l. n. 18/2020 c.d. Cura Italia, approvato dal Consiglio dei Ministri nella giornata del 16 marzo 2020, e recante misure di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da Covid-19, è stata concesso uno specifico bonus chiamato “credito d'imposta per botteghe e negozi” per i soggetti esercenti attività d'impresa. L'agevolazione è stata concessa sotto forma di un credito d'imposta nella misura del 60% dell'ammontare del canone di locazione di immobili rientranti nella categoria catastale C/1 (e cioè negozi e botteghe). A tal proposito, l'Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione numero 13/E del 20 marzo 2020, ha indicato le modalità per ottenere il credito d'imposta: inserimento nel modello F24 del codice tributo (6914) e come riferimento (Credito d'imposta canoni di locazione botteghe e negozi - art. 65, d.l. n. 18/2020). Si trattava, quindi, non di una sospensione dai pagamenti dell'affitto ma di un credito di imposta (una sorta di rimborso) pari al 60% di quanto versato. Successivamente, con il d.p.c.m. 26 aprile 2020, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 108 del 27 aprile 2020, sono stati stabiliti i tempi, e le regole, per la graduale riapertura delle attività nella c.d. “fase 2 dell'emergenza”, a partire dal 4 maggio. Nulla, invece, per i canoni degli affitti commerciali. Al di là dei tragici effetti sulla vita delle persone, il virus non ha tardato a sortire un impatto altrettanto importante anche sugli scenari economici e geopolitici del nostro paese e dell'intero sistema economico mondiale. Per i motivi esposti, tale circostanza eccezionale impone di indagare i rimedi contrattuali previsti dal nostro ordinamento per fronteggiare le conseguenze economiche connesse all'impossibilità di adempiere agli impegni commerciali. Il recesso per gravi motivi
Si ritiene che, nella maggior parte dei casi, il conduttore non abbia interesse a sciogliere il rapporto contrattuale e riconsegnare l'immobile al locatore, tuttavia, per ragioni di completezza, segnaliamo comunque che, nell'estrema ipotesi in cui si volesse o dovesse sciogliere il vincolo contrattuale, il conduttore potrebbe recedere dal contratto di locazione invocando i gravi motivi ai sensi dell'art. 27, l. n. 392/1978. Secondo i giudici di legittimità (Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2019, n. 5803), per gravi motivi si intendono fatti estranei alla volontà del conduttore, sopravvenuti alla conclusione del contratto e tali da impedirne la prosecuzione. Per meglio dire, la gravità dei motivi deve essere apprezzata tenendo conto di determinati avvenimenti: sopravvenuti rispetto alla costituzione del rapporto locatizio; estranei alla volontà del recedente; imprevedibili, cioè eccedenti l'ambito della normale alea contrattuale, tali non solo da determinare un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie non altrimenti rimediabile (Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2017, n. 14623), ma anche da incidere significativamente sull'andamento dell'azienda globalmente considerata. In parole povere, i gravi motivi non possono attenere alla soggettiva e unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla opportunità o meno di continuare a godere dell'immobile locato (Cass. civ., sez. III, 19 settembre 2019, n. 23345); giacché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum contrario alla interpretazione letterale oltre che allo spirito del citato art. 27, ultimo comma, l. n. 392/1978. Diversamente, con riguardo all'andamento dell'attività aziendale, può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica, sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo (Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2019, n. 5802). Dunque, ripercorrendo questa soluzione, in tema Covid-19, il conduttore dovrà provare la ricorrenza dei gravi motivi avuto riguardo alla sua specifica situazione e il proprio rapporto contrattuale, con l'avvertenza che l'esercizio legittimo del diritto di recesso, implica la sola caducazione del rapporto contrattuale; di conseguenza, non esonera il conduttore dall'obbligo di versare i canoni maturati durante il semestre di preavviso. A questo punto - come precisato nelle premesse - possiamo affermare che la prima soluzione prevista dall'art. 27, l. n. 392/1978, se percorribile, comporterebbe, comunque, la cessazione dell'attività non gradita nell'aspettativa che la crisi da Coronavirus possa essere superata. In argomento, giova ricordare che l'art. 1256 c.c. rubricato “Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea” stabilisce al suo comma 1 che: “L'obbligazione si estingue quando per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”; ed al secondo comma: “Se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore finchè essa perdura, non è responsabile nel ritardo nell'adempimento. Tuttavia, l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può essere ritenuto obbligato ad eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”. Il comma 2 dell'art. 1256 c.c. tratta l'impossibilità temporanea della prestazione dovuta dal debitore, che nel contratto di locazione consiste nel pagamento del canone, dovuta per una causa non imputabile al debitore. Quest'ultimo è esonerato da ogni responsabilità sino a quando cesserà l'impedimento. Così come l'articolo 1258 c.c. regolamenta il differente caso in cui l'impossibilità risulti soltanto parziale, potendo il debitore liberarsi eseguendo la prestazione per la parte rimasta possibile. Premesso ciò, secondo i primi commentatori delle norme emergenziali, il punto fermo da cui muovere è che gli eventi in esame sono riconducibili a una causa di forza maggiore, che, per definizione, rappresenta una causa di non imputabilità dell'inadempimento. I provvedimenti legislativi dettati da interessi generali e di ordine pubblico, che rendano impossibile la prestazione indipendentemente dal comportamento dell'obbligato - come quelli di recente emanazione - costituiscono infatti un'esimente della responsabilità del debitore e, dunque, un'ipotesi di forza maggiore (c.d. factum principis). In argomento, si osserva che la giurisprudenza ha individuato i requisiti dei provvedimenti ai fini dell'applicazione del rimedio dell'impossibilità sopravvenuta. A tal proposito, è necessario che: - essi siano estranei alla volontà dell'obbligato (Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2007, n. 21973); - non siano ragionevolmente prevedibili, secondo la ordinaria diligenza, all'atto dell'assunzione dell'obbligazione (Cass. civ., sez. I, 23 febbraio 2000, n. 2059); - il debitore abbia sperimentato tutte le ragionevoli possibilità per adempiere regolarmente (Cass. civ., sez. I, 23 febbraio 2000, n. 2059). Risulta parimenti noto che le conseguenze dell'inadempimento in capo al debitore sono la responsabilità e l'obbligo di risarcire il danno, tuttavia funge da corollario a tale principio, la circostanza che il debitore possa dimostrare che la mancata esecuzione della prestazione sia stata determinata da sopravvenuta impossibilità per causa a lui non imputabile. L'esame dell'art. 1256 c.c. comporta che, mentre l'impossibilità sopravvenuta definitiva determina l'estinzione dell'obbligazione e la restituzione della controprestazione già eventualmente eseguita, quella temporanea, determina la possibilità che l'obbligazione possa essere eseguita “non appena possibile”, salva la mancanza di interesse del creditore a conseguirla in ragione del ritardo ad essa collegata. In tema, secondo alcuni notai, tra i casi di impossibilità sopravvenuta rientra principalmente la “causa di forza maggiore”, intesa come evento imprevedibile ed inevitabile che con consente di portare a termine l'obbligazione contrattuale: l'emergenza epidemiologica è stata individuata come causa di forza maggiore, tale da escludere una responsabilità in chi non adempie le obbligazioni nei termini stabiliti contrattualmente, almeno fino al termine dell'emergenza. Del resto, il d.l. “Cura Italia” n. 18/2020, all'art. 91, ha integrato l'art. 3,d.l. n. 6/2020, introducendo il comma 6-bis che recita espressamente “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi versamenti”. Ciò significa, secondo questa posizione, che in materia di contratti ed obbligazioni, che la parte inadempiente o in ritardo a causa degli effetti dell'epidemia, potrà invocare l'esimente della forza maggiore, fatta salva la prova dell'impossibilità di adempiere la prestazione, seppure parzialmente. Dunque, interpretando questa posizione (notai), nei contratti di locazione tale effetto si traduce nella possibilità, per il conduttore, di ottenere la risoluzione del contratto, senza alcun obbligo risarcitorio e senza essere tenuto a versare gli ulteriori canoni fino alla scadenza del contratto. Diversamente, nel caso in cui si ritenga che l'impossibilità sia solo temporanea, legata quindi al solo periodo emergenziale, il conduttore può ottenere, sulla base dell'art. 1256, comma 2, c.c., una sospensione dell'obbligo di pagamento del canone fino al termine della causa di forza maggiore, salvo poi a dover pagare gli arretrati, senza interessi, una volta terminata l'emergenza. Al di là della diatriba circa l'ammissibilità o meno di un'impossibilità assoluta delle prestazioni pecuniarie (qual è quella del conduttore, il quale è tenuto solo a pagare il canone), che tendenzialmente viene esclusa, secondo altri autori, ciò che qui rileva è che la risoluzione del contratto, cui, in ultima istanza, condurrebbe l'impossibilità sopravvenuta della prestazione del conduttore, non pare essere ciò che le parti vogliono, in quanto difficilmente potrebbe sostenersi che chi conduce in locazione un immobile che ha adibito a locale per la propria attività, per evitare il pagamento di uno o due mesi di canone, voglia essere obbligato a liberare immediatamente il locale stesso da tutti i suoi beni aziendali. Per tali motivi, a parere di chi scrive, questa soluzione appare di difficile applicazione. Per meglio dire, per una maggiore chiarificazione del problema, occorre ridefinire l'ambito operativo della norma ex art. 1256 c.c. Innanzitutto, occorrono delle precisazioni sulle prestazioni delle parti, in particolare del conduttore: l'art. 1587 c.c., che sancisce le principali obbligazioni a carico del conduttore, prevede che, accanto al dovere di utilizzo diligente del bene secondo l'uso pattuito, deve corrispondere i canoni nei termini convenuti. A sostegno di ciò, i giudici di legittimità hanno osservato che l'impossibilità che estingue l'obbligazione è da intendersi in senso assoluto e obiettivo e consiste nella sopravvenienza di una causa non imputabile al debitore, che impedisce definitivamente l'adempimento; il che - alla stregua del principio secondo cui genus nunquam perit - può verificarsi solo quando la prestazione ha per oggetto la consegna di una cosa determinata o di un genere limitato e non già quando si tratta di una somma di denaro (Cass. civ., sez. III, 16 marzo 1987, n. 2691). In tema, sappiamo che la principale obbligazione corrispettiva del conduttore rispetto alle concorrenti prestazioni del locatore è il pagamento del canone locatizio: in questo periodo (Covid-19), quindi, ad essere impossibile (parzialmente, posto che trattasi di impedimento temporaneo) è l'esercizio dell'attività commerciale e non il pagamento del corrispettivo stabilito; al contrario, invece, ad essere divenuta temporaneamente impossibile, è l'obbligazione del locatore di mantenere il bene locato nel pacifico godimento del conduttore, secondo l'uso (l'attività commerciale dedotta in contratto) pattuito. Ed ancora, secondo altro orientamento, l'obbligazione pecuniaria è sempre oggettivamente possibile, potendosi configurare solo una impotenza economica del singolo debitore: l'impossibilità dell'obbligazione di pagamento ha dunque, per la Cassazione, carattere soggettivo e non oggettivo (Cass. civ., sez. II, 15 novembre 2013, n. 25777: secondo gli ermellini, in materia di obbligazioni pecuniarie, l'impossibilità della prestazione deve consistere, ai fini dell'esonero da responsabilità del debitore, non in una mera difficoltà, ma in un impedimento obiettivo ed assoluto che non possa essere rimosso, non potendosi ravvisare nella mera impotenza economica derivante dall'inadempimento di un terzo nell'ambito di un diverso rapporto). Alla luce di tale riflessione, il debitore (conduttore) difficilmente può essere liberato dall'obbligazione quando questa sia divenuta impossibile per causa non imputabile allo stesso; come detto in precedenza, il godimento del bene non viene meno per il comportamento del locatore. Secondo una diversa lettura della norma (interpretata come un favor nei confronti del conduttore), l'impossibilità potrebbe essere interpretata attraverso un ragionamento come una mera difficoltà (momentanea) di pagare il canone, a causa della mancata operatività dell'azienda, ma non certo l'impossibilità. Seguendo tale ragionamento, dunque, il divieto (imposto dal Governo) di esercitare l'attività determina come diretta conseguenza: l'impossibilità per il conduttore di utilizzare l'immobile, quale prestazione dovuta dalla contro parte (locatore); l'impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (pagamento del canone). In base a tale linea interpretativa, anche in base al citato art. 91, d.l. n. 18/2020, il conduttore non dovrebbe ritenersi responsabile del ritardo nell'adempimento (quindi, posticipazione del pagamento, non dell'esclusione del pagamento). Questa soluzione richiederebbe sempre uno scenario di una valutazione successiva (giudizio) sulle conseguenze del mancato adempimento ai sensi degli artt. 1218 e 1223 c.c. Considerando l'attuale emergenza, al momento, più che una “seconda ipotetica lettura” dell'art. 1256 c.c., al fine di fornire risposte più immediate, sarebbe opportuno analizzare gli altri istituti giuridici. Secondo altri autori, altra strada percorribile è quella dell'eccessiva onerosità sopravvenuta di cui agli artt. 1467 ss. c.c. i quali, in buona sostanza, dispongono che, nei contratti a prestazione continuata (come è la locazione), se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerose per avvenimenti straordinari e imprevedibili non rientranti nella normale alea contrattuale (quale senz'altro è la chiusura forza imposta dai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri sopra ricordati), essa può chiedere la risoluzione del contratto, salvo il diritto della controparte di evitarla offrendo un'equa modifica delle condizioni contrattuali. Secondo questo principio, il contratto di locazione, come ogni altro contratto a prestazioni corrispettive, deve necessariamente mantenersi un apprezzabile equilibrio nei rapporti di forza tra le parti, suscettibile di valutazione economica. E quindi, per un equilibrio contrattuale, l'obbligato conduttore potrebbe chiedere una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione delle modalità di esecuzione, sufficienti a ricondurla ad equità (art. 1468 c.c.). Se il rimedio appena citato pare, a stretto rigore di diritto, esperibile, in quanto è evidente che il conduttore, non potendo più esercitare la propria attività commerciale, potrebbe avere seri problemi ad onorare i suoi impegni di pagamento dei canoni pattuiti ed interesse ad una loro riduzione, va anche ricordato che la riduzione non consegue automaticamente alla sua richiesta: anzi, il conduttore, se ritiene che la sua prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa, può solo chiedere la risoluzione del contratto, con tutte le conseguenze già ricordate, e soltanto il locatore può impedire la risoluzione offrendo una modifica del contratto secondo equità (modifica che, tra l'altro, andrebbe poi, ove le parti non fossero d'accordo, valutata dal giudice). E' poi opinione giurisprudenziale che la parte che subisce l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, c.c., purché non abbia già eseguito la propria prestazione, ma non ha diritto di ottenere l'equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l'azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l'eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l'altro contraente accetti l'adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite (Cass. civ., sez. I 26 gennaio 2018, n. 2047). Inoltre, secondo altra opinione, il richiamo espresso all'art. 1458 c.c. compiuto dal primo comma dell'art. 1467 c.c. non lascia adito a dubbi quanto all'efficacia temporale di una eventuale pronuncia di accoglimento, che, appunto, opererebbe solo ex nunc, lasciando inalterate le debenze medio tempore maturate. Possibile domanda della reductio ad equitatem
Come osservato in precedenza, in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta, il combinato disposto degli artt. 1467 e 1468 c.c. non delinea alcun obbligo di rinegoziare; tuttavia, queste prevedono il potere di reductio ad equitatem a favore della “parte svantaggiata” dall'eccessiva onerosità sopravvenuta nella sola ipotesi di contratto con obbligazioni di una sola parte. A tal proposito, la revisione dell'entità del corrispettivo potrebbe essere promossa direttamente dal conduttore e non già dal locatore, ossia colui che verosimilmente potrebbe essere convenuto a seguito dell'esperimento dell'azione di risoluzione per eccessiva onerosità. Tale potere processuale - secondo alcuni autori - trarrebbe linfa da un'applicazione del principio di buona fede di cui all'art. 1375 c.c. che regola l'esecuzione dei contratti nell'ottica di un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti contraenti. Tale opzione, secondo la dottrina, oltre a essere coerente con la richiamata prima risposta legislativa sul parziale credito d'imposta, che, appunto, risponde all'orizzonte teleologico di assicurare la piena operatività dei contratti, non si presenterebbe distonica, in relazione all'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, all'interpretazione costituzionalmente orientata “dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta […] un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte” (Corte Cost. 24 ottobre 2013, n. 248; Corte Cost. 2 aprile 2014, n. 77). Dunque, ragionando in questi termini, il giudice, nell'ambito dei suoi poteri correttivi ex art. 1374 c.c., dovrebbe tener conto anche della posizione del locatore e, quindi, procedere all'accertamento dell'effettiva incidenza del momento emergenziale sull'andamento dell'azienda conduttrice e, quindi, a un'applicazione ancorata a dati obiettivi del proprio potere riequilibrativo. In definitiva, anche questa prospettiva, quindi, presenta un'utilità più teorica che pratica. Il divieto di autosospensione del canone di locazione
Inquadrati gli istituti giuridici teoricamente invocabili, il conduttore non è legittimato (in autonomia) a invocare l'impossibilità sopravvenuta e/o l'eccessiva onerosità dell'obbligazione per sospendere il pagamento del canone di locazione o ridurre l'ammontare dello stesso. Difatti, al conduttore non è consentito di astenersi dal versare il canone, ovvero di ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, e ciò anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale dell'adempimento dell'obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un'alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti (Cass. civ., sez. III, 27 settembre 2016, n. 18987). A tal proposito, come abbiamo osservato più volte, i divieti di esercizio delle attività produttive e commerciali imposti dai provvedimenti governativi non hanno inciso in alcun modo sulla prestazione principale del locatore, che consiste nel mettere a disposizione del conduttore locali idonei all'esercizio dell'attività, e che nel rapporto sinallagmatico locatore-conduttore, il conduttore è legittimato alla sospensione o riduzione del canone di locazione unicamente in caso di inadempimento del locatore. Di conseguenza, l'immobile locato, sebbene non accessibile a lavoratori e al pubblico, permane nell'esclusiva disponibilità del conduttore, che ivi custodisce beni e mezzi di produzione. Lo stesso decreto Cura Italia, all'art. 65, d.l. n. 18/2020, prevedendo a favore del conduttore un credito d'imposta per l'anno 2020 pari al 60% del canone di locazione relativo al mese di marzo 2020 per l'affitto degli immobili rientranti nella categoria catastale C/1 (botteghe e negozi), presuppone che non sia legislativamente previsto alcun diritto alla sospensione o riduzione del canone, che resta da pagare, regolarmente. Su tale aspetto, la Circolare 8/E dell'Agenzia delle Entrate del 3 aprile 2020, tra i chiarimenti sulle norme del decreto Cura Italia, ha fornito anche delle delucidazioni sul credito di imposta per le locazioni commerciali: il credito d'imposta, pari al 60% del canone di locazione del mese di marzo 2020, è riconosciuto solo sui canoni effettivamente pagati; un canone di locazione non pagato non produrrà il credito d'imposta in quanto la norma intende ristorare il conduttore del canone versato a fronte della sospensione dell'attività di impresa in questo periodo. Il nuovo accordo
Quanto detto non esclude naturalmente che le parti possano liberamente concordare, in ragione degli effetti della sospensione dell'attività sul fatturato dell'impresa, sospensioni, riduzioni o posticipazioni del pagamento del canone, rinegoziando modalità e termini dell'adempimento. Salvo eventuali future misure di diversa portata, la ricerca di un accordo con il locatore è certamente la soluzione più convincente oltre ad essere senz'altro quella giuridicamente più corretta: considerata l'eccezionalità degli eventi e della situazione che ci troviamo a vivere, la ragionevolezza e la buona fede delle parti interessate possono aiutare a trovare il rimedio che il diritto non offre. Pur in assenza di una specifica pattuizione normativa al riguardo, ai fini di un apprezzabile equilibrio contrattuale, l'obbligato conduttore potrebbe chiedere al locatore una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione delle modalità di esecuzione, sufficienti a ricondurla ad equità. Per meglio dire, nei casi in cui vi sia un mutamento delle condizioni originarie del rapporto contrattuale, per effetto di accadimenti successivi alla stipulazione del contratto, che modifichino in misura significativa l'equilibrio iniziale delle obbligazioni delle parti, in dottrina è stata avanzata la tesi che, tra gli obblighi ulteriori che costituiscono una specificazione del principio generale di buona fede (esecutiva), rientrano quelli di cooperazione, i quali imporrebbero, inter alia, di fare «aderire il regolamento contrattuale, a suo tempo predisposto, alla reale situazione di fatto nel frattempo evolutasi in un certo modo: in una parola, a rendere l'attuazione del regolamento contrattuale congrua rispetto agli interessi dei contraenti». In particolare, la buona fede imporrebbe ai contraenti di cooperare, attivandosi per porre in essere le modifiche necessarie per ripristinare l'equilibrio delle prestazioni, in modo da garantire la prosecuzione del rapporto contrattuale, perseguendo la realizzazione del risultato voluto dalle parti con la pattuizione iniziale. E così la buona fede contribuirebbe “alla concretizzazione dell'obbligo di trattare per mantenere in vita il contratto in funzione delle utilità economico-giuridiche volute dalle parti e tutelate dall'ordinamento”. Quindi, per chi ritiene che possa essere configurato un obbligo di rinegoziazione, questo è diretto a “conferire effettività alla tutela relativa all'esecuzione del contratto”, con la precisazione che “essere obbligati a trattare vuol dire essere obbligati a porre in essere tutti quegli atti che, in relazione alle circostanze, possono concretamente consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell'adeguamento del contratto, alla luce delle modificazioni intervenute”. Premesso quanto innanzi esposto, dal punto di vista tecnico-operativo, per redigere l'accordo e ottenere, quindi la riduzione del canone di locazione, è necessario compilare il Modulo 69 (scaricabile presso il sito dell'Agenzia dell'Entrate). Oltre a ridurre il carico di spese per il locatario, l'accordo basato sul Modulo 69, avrà dei vantaggi anche per i proprietari di casa che pagheranno le imposte solamente sulla somma effettivamente riscossa e indicata sull'accordo. L'accordo di riduzione del canone di locazione deve essere redatto in forma scritta, da registrare all'Agenzia delle Entrate entro 30 giorni. A tal proposito, a causa dell'emergenza Covid-19, è stato concesso di inviare il Modulo 69 e la scrittura privata dell'accordo, (scansionato e sottoscritto) anche via mail all'Ufficio tributario, il quale provvederà a registrarlo. In ogni caso è anche possibile attendere la riapertura degli uffici in quanto la Circolare n. 8 dell'Agenzia delle Entrate del 3 aprile 2020 ha previsto lo slittamento dei termini a causa, facendo riferimento anche alla registrazione degli atti. In conclusione
I tanti negozi alle prese con la serrata imposta dal Coronavirus sono un'immagine preoccupante non solo come simbolo dell'emergenza sanitaria, ma anche per le ricadute economiche. Infatti, tra i tanti costi fissi cui devono far fronte gli esercenti, spesso ci sono anche i canoni di locazione che rappresentano - al tempo stesso - una fonte di reddito per molti locatori (per lo più privati: famiglie o piccoli investitori, in un Paese a proprietà diffusa come l'Italia). Secondo alcune statistiche, i negozi affittati sono poco più di 809mila, su un totale di 1,5 milioni di unità immobiliari accatastate in categoria C/1 (quella dei negozi, per l'appunto). È su questo insieme di contratti che si abbatte l'emergenza del Coronavirus: se il negoziante è in difficoltà con i pagamenti, attualmente, nella confusione più totale degli strumenti giuridici a tutela delle parti svantaggiate, il proprietario potrebbe accordare un versamento ritardato o dilazionato del canone, anche solo in via di fatto. Il discorso cambia se una delle due parti vuole liberarsi dal contratto: in questo caso tornano in gioco le regole sulla risoluzione per mutuo consenso (se si concorda la fine del rapporto), per inadempimento o il recesso per gravi motivi. In definitiva, attesa la situazione, sarebbe doveroso un intervento del Governo per salvare l'economia al fine di consentire di ripartire, salvaguardando le imprese e le famiglie che svolgono la fondamentale funzione economica e sociale dell'affitto, cosa che si può fare solo attivando ogni strumento per garantire il pagamento dei canoni di locazione. Secondo le associazioni di categoria, tale intervento, se ben calibrato, cioè effettivamente mirato al versamento dei canoni, rappresenterà una misura importantissima, in aggiunta al credito di imposta previsto dal decreto Cura Italia. Luppino, I canoni di locazione ai tempi del Coronavirus, Rimini, 2020, 11 D'Agostino, Locazioni e impossibilità sopravvenuta per emergenza sanitaria, in Notai.it, 1° maggio 2020 Locatelli - Pispero, Le locazioni immobiliari al tempo del coronavirus. Il conduttore può ottenere la sospensione o la riduzione del canone? in Filodiritto.com, 8 aprile 2020 Tarantino, La locazione ai tempi del coronavirus: possibili soluzioni per la ridefinizione del canone di locazione ad uso commerciale, in Condominioelocazione.it, 3 aprile 2020 Crespino - Troncone, Emergenza coronavirus: quali possibili effetti sulla locazione a uso commerciale, in Unicost.eu, 1° aprile 2020 Stuppia, Provvedimenti di contrasto al covid-19 e canoni di locazione commerciale: un difficile equilibrio, in Diritto24, 30 marzo 2020 Caranci, Coronavirus e locazione ad uso commerciale: si può sospendere o ridurre unilateralmente il pagamento del canone?, in Quotidianogiuridico.it, 26 marzo 2020 Verzoni, Gli effetti, sui contratti in corso, dell'emergenza sanitaria legata al covid-19, in Giustiziacivile.com, 25 marzo 2020 Kowalski, Autoriduzione del canone da parte del conduttore ai tempi del coronavirus, in Condominioelocazione.it, 18 marzo 2020 |