I doveri reattivi dell'imprenditore sotto l'Impero CoVid-19 e l'obbligo di non arrendersi

Danilo Galletti
15 Maggio 2020

Il D.L. n. 23/2020 (c.d. Decreto Liquidità) ha introdotto, com'è noto, diverse disposizioni che derogano a norme del diritto societario (artt. 6-7-8). Sulla ratio e sugli effetti complessivi di tale intervento mi sono già soffermato di recente (Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, in www.ilFallimentarista.it): non vi è dubbio, a mio parere, che la scelta di non discriminare a sufficienza, ed in modo chiaro, fra imprese già dissestate prima della pandemia, imprese pregiudicate dalle conseguenze della crisi CoVid, ed infine imprese la cui efficienza non è stata compromessa, sia il frutto di una scelta politica discutibile e potenzialmente molto dannosa.
Premessa

Il D.L. n. 23/2020 (c.d. Decreto Liquidità) ha introdotto, com'è noto, diverse disposizioni che derogano a norme del diritto societario (artt. 6-7-8).

Sulla ratio e sugli effetti complessivi di tale intervento mi sono già soffermato di recente (Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, in www.ilFallimentarista.it): non vi è dubbio, a mio parere, che la scelta di non discriminare a sufficienza, ed in modo chiaro, fra imprese già dissestate prima della pandemia, imprese pregiudicate dalle conseguenze della crisi CoVid, ed infine imprese la cui efficienza non è stata compromessa, sia il frutto di una scelta politica discutibile e potenzialmente molto dannosa.

Stupisce poi la mancanza di una disciplina che consenta in termini efficienti e concreti la ristrutturazione delle imprese danneggiate dalla crisi, apparendo le norme ora vigenti non sufficienti, e non idonee a tale scopo.

Ciononostante, in questa sede, è mia intenzione riflettere piuttosto sulle conseguenze di tale normativa emergenziale sulla disciplina che deve ritenersi regolare oggi, in questa delicata fase della vita economica del Paese, i comportamenti degli imprenditori, ed in particolare degli esponenti degli organi sociali delle imprese costituite in forma societaria.

Il Legislatore non sembra in apparenza aver recepito l'invito, rivoltogli nel contesto di alcuni documenti programmatici percepiti come “autorevoli” (V. il documento del CERIL sul Covid-19 e sulla legislazione sull'insolvenza: https://www.ceril.eu/news/ceril-statement-2020-1), a disciplinare la responsabilità dei suddetti organi sociali secondo norme speciali, adattate al peculiare contesto socio-economico che stiamo vivendo.

In realtà, a me sembra che un impatto concreto delle nuove norme sul regime di tali responsabilità invece vi sia, e sia innegabile, e che esso debba essere letto in armonia con le finalità generali dell'intervento legislativo, per quanto queste ultime siano forse nel merito discutibili, emotive, e talvolta anche un po' confuse.

Tale impatto si misura soprattutto sul piano delle decisioni che comportano la prosecuzione dell'attività di impresa.

L'ordinamento e le “ordinarie” politiche di gestione del rischio

Le norme che regolano la responsabilità degli amministratori (e dei sindaci) di società sono norme che descrivono modelli di comportamento i quali attengono sempre alla gestione dei rischi.

In linea generale, durante la vita “ordinaria” della società, i gestori sono liberi di scegliere quale sia il livello di rischio che vogliono assumere, e di determinare concretamente quale debba essere il livello dei costi che intendono sostenere al fine di adottare misure organizzative al fine di minimizzare le conseguenze di tali scelte “rischiose”.

È in questo che si compendia il concetto di “business judgement rule” (BJR).

Vi sono tuttavia eventi “catastrofici” che l'amministratore non può ragionevolmente rischiare di provocare, o perché il livello di rischio è troppo elevato, oppure perché magari la pericolosità statistica dell'evento temuto è sì bassa, ma le sue conseguenze potenzialmente devastanti per gli interessi tutelati. In questi casi il gestore è tenuto o ad adottare tutte le misure organizzative idonee, anche se molto costose, ed in ipotesi antieconomiche; oppure ad astenersi dal compimento dell'atto.

È questo in fondo il modello legale cui corrisponde la disciplina dell'art. 2050 c.c., in materia appunto di attività “pericolose”: l'attività “pericolosa” è quella che risulti tale o per la alta prevedibilità statistica degli incidenti, oppure per la notevole portata delle conseguenze lesive, pur se statisticamente “improbabili”; in entrambi i casi l'esercente deve adottare “tutte le misure idonee a evitare il danno”, a prescindere dal loro costo, come condizione di legittimità della propria azione.

E ciò si verifica perché l'imprenditore è sì libero di determinarsi in ordine al perseguimento del profitto (il cui saggio, come è noto, è proporzionale al rischio), sfera di liberà tutelata e preservata anche in funzione della tutela di interessi generali (quelli nei quali si compendia la libertà di “iniziative economica”: art. 41 Cost.); ma egli incontra altresì diversi limiti nel suo operare, a tutela di interessi generali considerati prevalenti.

La tutela del credito è appunto ritenuta notoriamente prevalente rispetto a quella della libertà di iniziativa economica; e così pure, naturalmente, la tutela della salute e della incolumità di coloro che possano patire conseguenze in relazione a comportamenti dell'impresa, che siano stakeholders o meno.

Quando dunque il rispetto del credito è posto in pericolo dall'ipotesi di adottare una determinata scelta di gestione, la scelta o non può essere adottata, oppure deve essere accompagnata da strumenti organizzativi di prevenzione e/o minimizzazione di quel rischio in termini accettabili; qualora questi strumenti fossero nel caso concreto troppo costosi, il soggetto economico prevedibilmente si asterrà dal compiere l'azione pericolosa.

L'ordinamento si basa, del resto, in condizioni normali, su una serie di c.d. triggering points, i quali attivano specifici obblighi di contenimento del rischio, ossia norme che limitano e selezionano i comportamenti assumibili, in considerazione del particolare livello di rischio che è stato conseguito, e che viene misurato da determinati “indicatori” (red flags), recepiti dalle norme.

Il Codice della Crisi (CCII) ha formalizzato e consolidato tale assetto, introducendo norme che specificano i comportamenti in relazione ad es. non solo alla solita perdita del capitale sociale ed alla “insufficienza” del patrimonio sociale, bensì anche alla crisi, all'insolvenza, alla perdita della continuità aziendale, allo squilibrio economico e/o finanziario.

Taluni di questi concetti hanno natura ontologicamente probabilistica, e sono configurati espressamente, già a livello di fattispecie, in termini “preventivi” di una situazione molto più pregiudizievole: si pensi ad es. alla crisi rispetto alla insolvenza (anche in forza delle superiori indicazioni comunitarie).

Ma vi sono, e vi sono sempre stati, anche altri fenomeni che tipicamente debbono attivare specifici doveri “reattivi”, perché introducono “soglie di attenzione”, nella misura in cui dalle medesime situazioni possono insorgere, sulla base di assunzioni basate su paradigmi stocastici e probabilistici, pericoli gravi di compromissione degli interessi “superiori”; si pensi alla deviazione ripetuta, grave e non episodica, rispetto alle previsioni contenute nella stessa pianificazione strategica formulata dall'imprenditore; situazione di cui purtuttavia nessuna norma pare occuparsi esplicitamente.

Taluni di questi triggering points sono stati comunque già esplicitamente inseriti nell'ordinamenti vigente, in forza di norme del CCII che sono già in vigore: si pensi all'art. 2086, comma 2°, c.c., che menziona espressamente tanto la crisi quanto la continuità aziendale.

La condotta gestionale che può ragionevolmente danneggiare i creditori (ciò che costituisce tipicamente un valore “rigido” e sovraordinato al perseguimento del profitto), dunque, o in termini di elevata probabilità, oppure viceversa in termini di bassa incidenza statistica, ma con esiti prevedibilmente “catastrofici”, non può dunque comunque essere lecitamente assunta, oppure può esserlo, ma a condizione di assumere contestualmente rimedi organizzativi preventivi di tale rischio, a prescindere dal loro costo.

Le dimensioni dell'impresa non sono nemmeno irrilevanti: la BJR consente sì in linea di principio all'imprenditore di determinarsi liberamente in ordine al livello delle “precauzioni” di cui si dota, quando pianifica un atto di gestione, ma comunque vi è un livello minimo di precauzioni che risulta concretamente esigibile, e che è percepibile sulla base di un esame degli standards di comportamento socialmente tipici: per la grande impresa tale livello precauzionale “minimo” è molto più elevato rispetto alla piccola e media impresa.

Per la grande impresa è doveroso assumere assetti organizzativi precauzionali anche rispetto ad eventi di portata assai “rara”, come i disastri naturali, etc.; e così ancora per l'adozione di un modello 231, etc.

Per la PMI la valutazione può essere differente, ed il livello di diligenza (rectius di prudenza) “esigibile” dall'amministratore è sicuramente inferiore.

Tuttavia di fronte al rischio di evento “esiziale” per gli interessi “superiori”, la regola di comportamento tende a divenire uniforme: la condotta o non deve essere assunta, oppure deve essere accompagnata da rimedi organizzativi comunque ed oggettivamente idonei a minimizzare le conseguenze negative per gli interessi “rigidi” tutelati dalla Legge.

L'impresa è intrinsecamente rischio, ma non è di per sé una “casa da gioco autorizzata”, a meno che non abbia questo oggetto specifico (ma allora l'aleatorietà, a ben vedere, è tutta spostata sui clienti, perché l'attività dell'imprenditore invece si basa proprio su modelli matematici di misurazione preventiva del rischio).

Il diritto della crisi è un diritto teso a prevenire, se possibile, ed altrimenti a “ripartire” su vari soggetti, le conseguenze di un rischio che si è già materializzato.

E su quest'idea generale: prevenire, oppure attenuare nel modo più rapido ed efficiente le conseguenze lesive dell'evento pericoloso, si basano tanto la Direttiva comunitaria del 2019, quanto il CCII, ed in particolare l'art. 2086 c.c. come novellato.

Il giurista si spaventa e solitamente arretra rispetto a modelli di spiegazione delle norme che si incentrino sulla stima di un rischio; l'introduzione di elementi quantitativi viene ordinariamente avvertita come “incerta”, non “oggettiva”.

Ma non vi è nulla di più “oggettivo”, in realtà, della misurazione di un rischio; incerto, opinabile, forse, ma non certo “soggettivo”; è lo standard di comportamento a governare la valutazione, ed a ridurre la complessità e l'incertezza.

Nei casi ove tuttavia si verifichi un fatto, come l'evento pandemico in corso, che sconvolge la ordinaria dinamica delle condotte gestionali “ordinarie”, il dubbio non può che vertere sul se debba farsi riferimento a regole diverse, per gestire le conseguenze di tale evento, oppure alle stesse regole ordinariamente applicabili, sia pur se “adattate” a livello interpretativo.

Si tratta di eventi non di per sé “imprevedibili” (il succedersi, a distanza di circa un secolo, di eventi pandemici, non è affatto statisticamente “imprevedibile”, anzi); eppure là dove essi si verifichino, e non siano stati “previsti”, oppure, com'è più probabile, non abbiano dato luogo a comportamenti “preventivi”, l'ordinamento non può che riflettere sul contenuto delle norme.

Solo il tempo, e una riflessione “pacata” della giurisprudenza, potrà dire se, quantomeno gli organi di gestione strategica delle grandi imprese, dovessero “prevedere” la verificazione di un evento come la pandemia “CoVid-19”; più precisamente, tale riflessione dovrà dire se essi dovessero piuttosto pianificare in prevenzione dei rimedi atti ad attenuare le conseguenze di tale evento, di per sé certo astrattamente prevedibile, su base statistica, sul funzionamento del mercato; conseguenze provocate non già e non tanto dal fenomeno in sé, bensì e piuttosto dagli effetti dei provvedimenti assunti dalle Autorità al fine di reagire agli effetti dell'evento stesso sulla popolazione.

Non è da escludere che per determinate imprese, di grandi dimensioni, e focalizzate su segmenti peculiari, possa essere legittima l'inferenza per cui qualcosa avrebbe potuto e dovuto essere fatto in prevenzione, e dunque l'omissione, che è stata funzionale alla mera massimizzazione del profitto, in un contesto di inaccettabile contenimento dei costi della gestione “preventiva”, potrebbe essere reprensibile.

Ma è chiaro che se in linea generale l'adozione di una scelta di gestione “irresponsabile” (v. supra), ossia di per sé potenzialmente lesiva per i creditori, può dirsi vietata, e vietata pure la sua adozione in un contesto “ambientale” ove essa può produrre le conseguenze “esiziali” in discorso sugli interessi tutelati anche in concorso con l'operare di fattori esterni all'impresa, eppure “prevedibili”, ciò non potrebbe predicarsi anche là dove l'evento esterno che potrebbe concorrere con l'azione amministrativa (come ad es. appunto la crisi CoVid) abbia caratteri tali da rendere potenzialmente “esiziale” qualsiasi scelta strategica.

Ciò comporterebbe infatti la delegittimazione di qualsiasi rischio imprenditoriale; e senza rischio non vi può essere impresa; sarebbe in sostanza come imporre per legge il lockdown anche in condizioni di “quiete”, in previsione di un rischio comunque astratto, statisticamente di verificazione incerta.

D'altro canto però quando l'evento “catastrofico” si è ormai verificato, ed il mercato è stato ormai perturbato, con caratteri “sistemici”, ove quasi tutti i settori merceologici sono stati incisi (è il nostro caso), diventa essenziale orientare i comportamenti delle imprese rispetto agli specifici obblighi “reattivi” che incombono sulle stesse.

È questo l'oggetto specifico di queste pagine.

Il “congelamento” dell'impresa rispetto alla perdita del capitale e della continuità

L'art. 6 del Decreto Liquidità anestetizza in sostanza le norme che impongono ai soci di ridurre il capitale qualora maturino perdite “rilevanti”, e soprattutto di ricapitalizzare o liquidare la società ove il capitale sociale risulti interamente perso; “inertizza” inoltre la relativa causa di scioglimento, prevista dal n. 4 dell'art. 2484 c.c. (Non trova deroghe invece l'obbligo di rilevare tempestivamente la perdita in una situazione patrimoniale straordinaria, e di informarne senza indugio i soci).

La confezione formale della norma non è sicuramente chiarissima, e può alimentare diversi dubbi interpretativi (perché parlare genericamente di “fattispecie verificatesi”?); ciononostante, per i fini che qua ci interessano, mi pare comunque trasparente la volontà legislativa di sospendere, sicuramente sino al 31 dicembre 2020, le conseguenze relative all'operare della causa di scioglimento conseguente alla perdita del capitale sociale.

I soci in questo periodo potrebbero di certo ricapitalizzare comunque: le norme sospese sono quelle che impongono tale condotta, ma non è certo pensabile che l'unica forma di auto-finanziamento dell'impresa debba passare ora per l'erogazione di finanziamenti da parte dei soci, usufruendo dei benefici di cui all'art. 8, con evidente ed assurdo sconvolgimento della dinamica ordinamentale; ciò andrebbe al di là di quanto voluto.

Ciononostante mi pare altresì innegabile che risulterà sospesa l'applicazione dell'art. 2486 c.c., che appunto regolamenta gli effetti ulteriori per i gestori del maturare obiettivo della causa di scioglimento; cosicché per gli amministratori non si attiverà l'obbligo di gestire la società in termini “conservativi”, rispetto al valore ed all'integrità del patrimonio.

E quest'ultima conseguenza è forse più rilevante della mera sospensione degli obblighi di ricapitalizzare …

L'art. 6, è vero, non riproduce il suo modello “archetipico”, l'art. 182-sexies l.f., proprio nel secondo comma, là dove si precisava appunto che l'art. 2486 c.c. avrebbe dovuto comunque trovare applicazione sino al giorno della sua “disattivazione”, conseguente all'ingresso in procedura.

Ma questo, a mio modesto parere, non perché l'art. 2486 c.c. debba qui comunque trovare applicazione, bensì perché quel disposto (il secondo comma dell'art. 182sexies) aveva là alimentato incertezze ed ambiguità.

Scopo del Legislatore del Decreto n. 23/2020 era invece proprio quello di “inertizzare” il disposto codicistico, per il periodo di vigenza della sospensione delle norme sulla perdita del capitale sociale.

Di certo vi è però una differenza sostanziale fondamentale fra l'art. 182-sexies l.f. e l'art. 6 in discorso: nel primo caso l'art. 2486 c.c. viene disattivato al momento dell'ingresso in una procedura concorsuale, ove il debitore mantiene la disponibilità dei suoi interessi e del suo patrimonio, ma è comunque assoggettato ad intensi poteri di controllo; invece con il Decreto Liquidità la disapplicazione della regola di comportamento non trova un contrappeso analogo; e si tratta di una lacuna non di poco conto, come in altra sede segnalavo.

D'altro canto, anche l'art. 7 del Decreto, in estrema sintesi (si tratta purtroppo di una norma estremamente oscura, sui cui difetti però non è il caso qua di soffermarsi: cfr. però il documento FNC, in collaborazione con Sidrea, L'impatto dell'emergenza sanitaria sulla continuità aziendale e sull'applicazione dei principi contabili nazionali. Prime indicazioni, 20 aprile 2020; ed il Documento interpretativo n. 6 dell'OIC, disponibile al momento come draft per la consultazione), consente di stimare le voci appostate all'attivo dello stato patrimoniale secondo criteri di continuità, a condizione che l'ultimo bilancio disponibile (ahimé “chiuso”) sia redatto nella prospettiva del going concern.

Dunque, anche se la situazione concreta, a seguito del CoVid, denunci la ormai sopravvenuta perdita della continuità aziendale, il bilancio da “chiudere” al 31 dicembre 2019 potrà non tenere conto, nel suo contenuto informativo, della “qualità” di tale circostanza sopravvenuta; e la prospettiva della continuità potrà poi essere mantenuta anche a proposito del bilancio relativo all'esercizio 2020.

La disposizione è forse meno innovativa di quanto potrebbe sembrare, e questo soprattutto e proprio con riferimento ai bilanci degli esercizi da chiudere entro il 23 febbraio 2020, posto che le modificazioni recentemente (nel 2018) apportate ai principi contabili (OIC n. 11) hanno fatto sì che l'abbandono definitivo dei principi di funzionamento, e la loro sostituzione con quelli “di liquidazione” (OIC n. 5) avvenga non solo quando è già accertata la causa di scioglimento, ma quando si è verificato anche il passaggio di consegne con i liquidatori.

Nei casi ove ciò ancora non si sia verificato la valutazione delle poste dell'attivo deve avvenire sì nella prospettiva del going concern, ma in relazione al “limitato orizzonte temporale residuo”, nell'ambito del quale tali attivi continueranno a contribuire all'attività corrente.

Ciononostante il Legislatore ha forse e proprio voluto evitare che l'incertezza oggettiva delle prospettive future, determinata dalle vicende pandemiche, possa rendere troppo breve, in termini prudenziali, l'apprezzamento di tale “orizzonte residuo”.

La vera peculiarità di questa norma, a mio avviso, si può infatti apprezzare perché nelle fattispecie in discussione in realtà il requisito della continuità aziendale non sarebbe semplicemente valutabile, e questo perché le prospettive future dell'impresa non sono attualmente apprezzabili in termini oggettivi.

La assoluta particolarità, ed anche la novità, della vicenda pandemica che tutti stiamo vivendo, è infatti costituita dal fatto che difficilmente l'imprenditore, allo stato attuale, è in grado di formulare previsioni affidabili in ordine all'assetto futuro tanto della propria attività, quanto delle altre imprese che presentino, in relazione alla propria, rilevanti interconnessioni.

Normalmente il dubbio significativo in ordine alla continuità impone un esame approfondito dei piani strategici dell'impresa, alla luce di tutte le informazioni disponibili.

Ma oggi, nell'ambito di molteplici settori merceologici, nessuno è in grado di formulare una pianificazione strategica affidabile ed oggettiva. Perché nessuno può realmente dire se le misure di contenimento dell'evento pandemico, che hanno colpito e/o colpiscono ancora la sua impresa, direttamente od indirettamente, avranno con certezza fine ad una certa data, e non potranno poi con certezza essere successivamente ristabilite, ove la situazione dei contagi precipitasse nuovamente.

Questa è a mio avviso la reale ragione per cui il Legislatore consente di “congelare” l'analisi delle prospettive di continuità, riportando le valutazioni operate nell'ultimo bilancio; ciò da un lato fonda anche la razionalità della disposizione, e dall'altro può segnarne anche il limite funzionale (v. infra).

Anche in questo caso, peraltro, come per l'art. 6, la norma è redatta in termini di facoltà, e non già di obbligo; sicché l'imprenditore che sia comunque, nel caso concreto, in grado di formulare una previsione oggettiva ed affidabile in ordine alla continuità, è sicuramente legittimato a procedere sulla base della stessa, a prescindere dall'art. 7, e forse è anche tenuto in tal senso (cfr. infra).

Ora, mi pare difficile ipotizzare che il Legislatore abbia così consentito di prescindere dalla continuità ai soli fini della redazione del bilancio di esercizio, e non abbia al contempo legittimato gli amministratori a sospendere altresì l'applicazione delle altre norme che fissano le conseguenze giuridiche che si ricollegano alla stessa perdita della continuità.

La nozione infatti ha ormai acquisito stabilmente una dignità giuridica complessa, che va ben al di là del territorio dei bilanci e delle rilevazioni contabili; un chiaro ed eloquente esempio è l'utilizzo della continuità che è fatto nell'art. 2086, comma 2°, c.c., introdotto dal CCII, sulla base di criterio direttivo contenuto nell'art. 14 della Legge Delega.

La perdita della continuità aziendale dunque costituisce ormai anche la fonte di specifici obblighi di comportamento.

Per motivi che non posso non condividere, e sui quali tuttavia non mi soffermo in questa sede (in senso conf., con ampia motivazione, il decreto del Trib. Bologna, 29 aprile 2019, Micoperi), la perdita della continuità aziendale è ritenuta fattispecie idonea anch'essa ad attivare l'obbligo di agire in modo “conservativo”, di cui al già richiamato art. 2486 c.c., al pari della perdita integrale del capitale sociale.

E mi pare possa serenamente concludersi nel senso che anche qualsiasi valutazione oggettiva delle prospettive di continuità aziendale, nel periodo menzionato dall'art. 7, non possa comportare le conseguenze dell'art. 2486 c.c.; norma che dunque si trova ad essere temporaneamente e consapevolmente “sterilizzata” sotto entrambi i punti di vista.

L'alternativa fra prosecuzione ed interruzione dell'attività di impresa

Il processo di “inertizzazione” dell'

art. 2486 c.c.

può e deve d'altro canto essere coordinato con la ratio complessiva dell'intervento legislativo.

Il Decreto Liquidità si propone di “rimettere in moto” l'attività delle aziende, soprattutto di quelle che sono state gravemente pregiudicate dall'attuazione delle misure di contenimento del virus.

Ciò da un lato attraverso l'erogazione di provvidenze finanziarie (purtroppo, alla prova dei fatti, parrebbe mal tarate), volte a rifinanziare il capitale circolante, e dall'altro attraverso una modifica, temporanea, di taluni istituti del diritto della crisi, sì da non intralciare o peggio stroncare sul nascere tale ripresa.

L'attivazione dell'art. 2486 c.c. d'altro canto ordinariamente comporta una drastica selezione dei comportamenti ammissibili da parte degli amministratori: la norma scatta infatti quando si verificano eventi che implicano nel tempo la dissoluzione, o della società, o dell'impresa; e la condotta tipicamente deprecata è quella che ha per oggetto la prosecuzione dell'attività d'impresa, soprattutto se esercitata alla luce delle stesse direttive funzionali pregresse, in termini dunque non “conservativi”, perché non funzionalizzati a, o comunque non compatibili con, la prossima disgregazione del patrimonio aziendale.

Il discorso sarebbe lungo e complesso, ma qui valgano talune semplificazioni.

L'impresa in questione è quasi sempre un'impresa diseconomica, ove la protrazione dei processi economici in corso conduce nella ordinarietà dei casi all'ulteriore deterioramento del patrimonio sociale. Ciò con grave detrimento soprattutto degli interessi dei creditori.

Se persino nel concordato preventivo la prosecuzione dell'attività economica, là dove l'impresa sia in “crisi”, presuppone come condizione di ammissibilità la verifica positiva della sussistenza di una prospettiva attendibile di “miglior soddisfacimento dei creditori” (art. 186-bis l.f., secondo una scelta normativa che non è stata affatto abbandonata neanche dal CCII), a maggior ragione ciò deve condizionare la legittimità delle condotte dei gestori fuori dal concordato, quando la società, sia pur se in crisi, è ancora in bonis.

Si vede bene allora come la perdurante applicabilità dell'art. 2486 c.c., a fronte di situazioni ove, anche per effetto dell'adozione di una prassi contabile prudenziale (prassi beninteso che in un'epoca “normale” avremmo ritenuto sicuramente consentita, e persino “doverosa”), si sarebbe potuto considerare il capitale sociale, e/o la continuità aziendale, persi, avrebbe potuto indirizzare in massa i comportamenti di gran parte delle imprese, in una fase della loro vita sicuramente eccezionale, caratterizzata da forti limitazioni cognitive e previsionali, verso l'interruzione dell'attività.

Ma ciò avrebbe prodotto effetti economici sicuramente pro-ciclici, e dunque deleteri, con rischi di collasso totale del sistema economico, in forza della natura “sistemica” della crisi in essere.

Si tratta dunque di un intervento legittimo, ed anzi doveroso, del Legislatore, anche se tecnicamente discutibile, per i motivi già detti, nel sottosistema normativo degli obblighi di comportamento, che reindirizza questi ultimi, in modo da “congelare” temporaneamente l'adozione di determinate scelte, scelte in “tempo di pace” addirittura obbligate, ma che oggi semplicemente non ci possiamo permettere.

Purtroppo i comportamenti “virtuosi” sono così rinviati a data … da destinarsi, ed infatti l'entrata in vigore del CCII è stata procrastinata ad appena dopo la scadenza del termine per l'attuazione della Direttiva del 2019, anche se non è da escludere che anche tali termini possano essere poi ulteriormente differiti.

Ciò che ha consentito fra l'altro ai soliti “Soloni” di argomentare nel senso per cui le innovazioni contenute nel CCII sarebbero state comunque “inadeguate” rispetto al tessuto imprenditoriale italiano, e dunque l'evento pandemico, sotto questo punto di vista, sarebbe stato “provvidenziale”. Ma c'è sempre chi è più realista del Re …

Dunque gli imprenditori sono, a mio parere, temporaneamente abilitati a proseguire l'attività d'impresa, in deroga all'art. 2486 c.c., in attesa che la situazione, dal punto di vista delle limitazioni cognitive e previsionali, si dipani.

In realtà l'intento del Legislatore sembra andare addirittura oltre la mera facoltizzazione di tale comportamento: in modo ritengo coerente con la ratio complessiva di dettare disposizioni eccezionali e temporanee, finalizzate a superare la fase di stallo in essere, ed a prevenire la catastrofe economica, le norme infatti sembrano richiedere all'imprenditore di “non arrendersi”, prima di aver serenamente potuto analizzare la situazione, conseguendo quella certezza, anche e soprattutto riguardo al futuro, che al momento scarseggia.

Una conferma di ciò si trova nella generalizzata improcedibilità anche delle istanze di fallimento (art. 10 Decreto Liquidità), in quanto depositate dal 9 marzo al 30 giugno 2020; anche in questo caso la confezione formale delle norme è deficitaria, e non consente nemmeno di comprendere se tale “improcedibilità” (categoria processuale notoriamente ambigua e polisensa) debba comportare solo una temporanea impossibilità di trattazione, oppure la necessità di un'immediata pronunzia reiettiva “in rito”.

E di certo è difficile che un'istanza depositata in questo periodo da un legittimato “esterno” all'impresa possa intercettare un'insolvenza insorta a causa delle misure anti- CoVid. Tuttavia potrebbe trattarsi sempre di una situazione di crisi pregressa, ed eppure “regolabile”, che poi si è aggravata in conseguenza dell'evento pandemico.

Ma ciò che più rileva, a mio avviso, è che sono proprio le istanze di auto-fallimento provenienti dal debitore ad essere le più “sospette”, in merito alla eventuale maturata decisione di “arrendersi” dell'imprenditore.

Una nutrita corrente di pensiero, è vero, sta manifestando una decisa ostilità all'applicazione dell'art. 10 alle istanze di auto-fallimento: da un lato si adducono elementi testuali, in realtà davvero poco probanti (come la citazione del solo art. 15 l.f., e non già anche dell'art. 14), e dall'altro si sottolinea la incongruenza, sotto il profilo funzionale, di un'esegesi che impedisca all'imprenditore di “rinunziare” all'improcedibilità, dopo aver constatato l'impossibilità di andare avanti.

Così facendo tuttavia da un lato si sottovaluta l'indicazione espressamente opposta (benché certo non vincolante) contenuta nella coeva Relazione Illustrativa (“il blocco si estende a tutte le ipotesi di ricorso, e quindi anche ai ricorsi presentati dagli imprenditori in proprio, in modo da dare anche a questi ultimi un lasso temporale in cui valutare con maggiore ponderazione la possibilità di ricorrere a strumenti alternativi alla soluzione della crisi di impresa senza essere esposti alle conseguenze civili e penali connesse ad un aggravamento dello stato di insolvenza che in ogni caso sarebbe in gran parte da ricondursi a fattori esogeni”); dall'altro si assume, e si dà per scontato, che la previsione dell'improcedibilità sia posta a tutela di un interesse privato dell'imprenditore, e che dunque essa sia suscettibile di rinunzia.

A me pare invece che la Legge abbia ritenuto di funzionalizzare temporaneamente la selezione dei comportamenti imprenditoriali, con riferimento a quelli che hanno ad oggetto l'interruzione dell'attività.

Certo può ritenersi incongruo che sia impedito all'imprenditore di “arrendersi” anche di fronte a crisi risalenti, endogene (la Relazione assume che l'insolvenza in questi casi sia comunque “in gran parte da ricondursi a fattori esogeni”), e palesemente non rimediabili con strumenti differenti da quelli liquidatori.

Potrebbe anche ritenersi forse discutibile che non si sia stata data alcuna rilevanza all'eventualità che il Tribunale disponesse l'esercizio provvisorio, così proseguendo l'attività, ma è anche vero che in questo momento sembrano difettare le condizioni minime affinché il compendio possa essere da un lato efficacemente ristrutturato, e dall'altro soprattutto ricollocato sul mercato: le condizioni di incertezza “sistemica” che caratterizzano le conseguenze dell'evento pandemico infatti rendono assai discutibile che possa dirsi ora esistente un mercato delle imprese in crisi, per quanto limitato e poco efficiente; ma in un prossimo futuro le condizioni potrebbero cambiare.

Il “congelamento” dei fallimenti risponde in realtà all'esigenza di cristallizzare temporaneamente le scelte dell'imprenditore volte ad accelerare l'evento dissolutivo dell'impresa, scelte determinate da un eccesso di prudenza, e sollecitate dalla prassi applicativa delle norme “inertizzate”, dal timore di incorrere in responsabilità anche penali (art. 216, comma 2, n. 4, l.f.), e dalla consapevolezza di come attualmente il diritto concorsuale non metta a disposizione del privato strumenti regolatori alternativi alla liquidazione che possano dirsi realmente idonei a conseguire il risultato ristrutturativo.

E quest'ultimo costituisce proprio il limite più evidente, a mio modo di vedere, del Decreto Liquidità, posto che l'unica norma dedicata al concordato preventivo (art. 9) si occupa dei soli procedimenti pendenti, laddove manca una disciplina che regoli le procedure di ristrutturazione che si vogliano far partire oggi.

Il concordato preventivo, infatti, anche se “in bianco”, è una procedura finalizzata, sin dall'origine, alla predisposizione di un piano, piano di cui si assume la possibilità di elaborazione sin dalle fasi iniziali, anche attraverso una rete di controlli che pure assume tale possibilità, sanzionando severamente il debitore che non si ponga proattivamente, e sin da subito, in tale prospettiva: così gli obblighi informativi periodici debbono dedicare espressamente una parte del loro contenuto all'esposizione degli sforzi fatti per elaborare il piano; e la concessione dell'eventuale proroga, comunque limitata, presuppone che si convinca il Giudice circa il fatto di aver fatto tutto il possibile per addivenire all'elaborazione della proposta e del piano, ma di non avervi potuto fare fronte per via di eventi estranei alla propria sfera di controllo.

Ora, si può di certo prospettare un'interpretazione “lenitiva”, di buon senso, di tali norme, al fine di applicare le norme vigenti (Cfr. per tutti Maiolino, Gli obblighi informativi nella domanda di concordato in bianco ai tempi del Coronavirus, in www.ilcaso.it, 21 aprile 2020); ma non si può certo escludere che la funzione stessa delle disposizioni vigenti, alla fine, renda impossibile farvi concretamente ricorso, rispetto agli scopi che oggi si perseguono.

Si dirà che per l'imprenditore insolvente non è stato rimosso l'obbligo di addivenire ad una procedura concorsuale, ma solo di instare per il proprio fallimento: ma come potrebbe ritenersi “corretta” la decisione dell'imprenditore in crisi a causa delle disposizioni anti-CoVid e delle relative incertezze cognitive, il quale corra ad accedere al concordato preventivo, sia pure “con riserva”, là dove non è minimamente in grado di prevedere i tempi di redazione del piano concordatario, e dopo qualche mese potrebbe trovarsi a constatare l'impossibilità di procedervi tempestivamente, rispetto ai tempi della procedura che lui stesso ha determinato attivando la stessa, e così a fallire (posto che nel frattempo sarà venuto meno anche il periodo di “grazia” sanzionato dalla improcedibilità)?

Non a caso un paese di “allenatori”, qual è il nostro, ha subito sprigionato la massima creatività anche presso i giuristi, i quali si sono lanciati nel delineare una fitta rete di proposte legislative, volte a sollecitare l'instaurazione in via legislativa di nuovi strumenti atti ad uscire dalla crisi: strumenti ora “light” aventi il carattere del mero “procedimento”, ove la consulenza e l'assistenza si sposano col controllo pubblico (amministrazioni “assistite”, “vigilate”, “super” piani attestati), ora configurate come vere e proprie procedure concorsuali speciali (“mini-concordati”, neo- amministrazioni controllate), ora con vocazione ibrida (accordi di ristrutturazione semplificati).

Sinora non si può dire però che analoga fantasia sia stata esercitata dal Legislatore.

Dunque l'ordinamento, in questo periodo temporale, comunque limitato nell'orizzonte (anche se non è certo agevole dire con esattezza quale sia esattamente questo orizzonte, a proposito degli articoli 6 e 7, in particolare se esso possa anche oltrepassare il 31 dicembre 2020), ha ritenuto di escludere in linea di principio l'applicazione di qualsiasi norma che imponga, assuma o comunque incentivi la cessazione dell'attività.

Il che non esclude però che vi siano comunque altri obblighi che accompagnano il percorso dell'imprenditore in questo stesso lasso temporale (cfr. infra).

Si dirà che il Legislatore non ha inertizzato altresì le altre cause di scioglimento di cui all'art. 2484, in particolare quella di cui al n. 6, id est lo scioglimento “deliberato” dall'assemblea.

Dunque la società potrebbe comunque sempre porre fine volontariamente alla propria “mission”; a meno di non sostenere che la deliberazione di scioglimento e messa in stato di liquidazione in questione sarebbe in questo periodo addirittura nulla (salvo poi domandarsi chi dovrebbe impugnarla).

Ma in realtà anche la permanenza di tale possibilità non è in contrasto con la ratio di fondo che abbiamo cercato di far emergere: ciò che si vuole evitare è che l'imprenditore si arrenda in forza dell'assunto per cui a ciò sia costretto, o comunque indotto dalla prospettazione di sanzioni o responsabilità.

Ed in tal senso il passo della Relazione Illustrativa sull'art. 10 che ho sopra citato mi pare assai indicativo.

L'imprenditore che invece abbia consapevolezza della sua situazione, e si determini autonomamente all'egresso definitivo dal mercato, non trova ostacoli sul suo cammino; la funzionalizzazione della sua attività, che trova copertura nell'art. 41 Cost., non si è infatti spinta dunque sino a questo punto; e forse tale situazione di libertà deve ripristinarsi anche quando siano ormai cessate le condizioni di limitazione cognitiva e previsionale di cui si faceva cenno prima (cfr. infra).

I perduranti obblighi degli amministratori durante la crisi CoVid: elementi ricostruttivi

Quanto abbiamo sinora descritto non esaurisce certo i termini del problema.

L'inertizzazione dell'art. 2486 c.c. infatti lascia sopravvivere altre norme, di carattere generale, che comunque condizionano l'operato degli amministratori in condizioni di distress.

A livello di principio taluno ha ipotizzato che tali norme, di carattere generale, siccome fondate sull'assunto per cui l'imprenditore si determinerebbe in un contesto caratterizzato da un livello di rischio “normale”, non potrebbero più trovare applicazione in questa peculiare fase temporale, ove l'incidenza dei rischi è caratterizzata da una assoluta discontinuità; si dovrebbe pertanto procedere a valutare i comportamenti e le responsabilità sulla base di norme diverse (Cfr. ad es. Leozappa, Uno statuto normativo per l'impresa in tempo di crisi, pubblicato su questo Portale).

Parallelamente, si è auspicato che sia, almeno temporaneamente, abbandonata la prospettiva di tutela “primaria” dell'interesse dei creditori, per sostituirvi valori differenti, in primis la continuità dell'impresa in sé; e ciò anche sulla base di una ricostruzione sistematica, invero assai confusa, che oscilla fra lo sforzo esegetico di dimostrare che già adesso l'ordinamento concorsuale avrebbe sovvertito la gerarchia “classica” fra valori da tutelare, e l'aspirazione a conseguire tale risultato per il futuro, od almeno appunto in questo delicato momento.

Non ritengo tuttavia che tali prospettazioni possano essere accolte, almeno allo stato attuale dell'ordinamento.

Da un lato le norme, eccezionali e temporanee, che stiamo esaminando, si limitano per ora ad inertizzare specifiche disposizioni, selezionando e reindirizzando i comportamenti verso certi obiettivi “urgenti”, senza dare l'impressione di voler sovvertire alcuna gerarchia sistematica; dall'altro, e direi soprattutto, non vi sono affatto norme “sostitutive” di quelle che costituiscono la filiazione dell'approccio sistematico che si vorrebbe abbandonare.

E per gli stessi motivi per cui è stata differita l'entrata in vigore del CCII, id est l'assurdità di fare sperimentazione in condizioni di massima entropia, non mi pare che ciò possa fondare seriamente oggi alcun indirizzo efficiente di politica economica, o di politica del diritto.

Le norme generali, poi, sono forse in grado di rendersi più elastiche di quanto si sospetta (e v. infra).

Rispetto infine all'interesse proteso alla continuità “in sé”, la scelta del Legislatore di “anestetizzare” i comandi normativi rivolti alla cessazione dell'attività mi sembrano già più che sufficienti, nella prospettiva ricercata; e non credo si senta davvero il bisogno, almeno allo stato, non già di una neo-amministrazione controllata, bensì di una mini-amministrazione straordinaria.

Le norme generali sulla responsabilità degli amministratori, dunque, sono vigenti, e così in particolare l'art. 2394 c.c., che continua a funzionalizzare l'attività dei gestori alla salvaguardia dell'interesse dei creditori; e questo a prescindere dalla soluzione della disputa dogmatica fra chi vede l'interesse del ceto creditorio come un mero limite all'operato degli amministratori, oppure come il fine della loro azione.

L'art. 2394 in particolare contiene il precetto rivolto ad agire al fine di conservare “integro” il patrimonio sociale, condizionando la tutela alla prospettiva della “insufficienza” dello stesso.

Dall'art. 2394 c.c. non può non ricavarsi dunque una direttiva comportamentale tesa a non consentire la compromissione degli interessi del ceto creditorio con iniziative eccessivamente rischiose, delle quali possa prevedersi ragionevolmente la probabilità di un tale esito.

La letteratura specialistica è d'altro canto consapevole di come l'art. 2486 e l'art. 2394 non siano coestensivi: il loro capo applicativo è infatti differente, anche se l'ispirazione di fondo è la medesima, perché identica è la consapevolezza dell'interesse principale da tutelare.

L'art. 2486 c.c., come si diceva sopra, si armonizza con una situazione normativa che presuppone l'impossibilità per l'impresa di proseguire nella propria mission, e quindi la necessità di accedere alla fase dissolutiva; e questo, ai nostri fini, tanto perché si sia perso il capitale sociale, quanto la continuità aziendale.

Non si tratta di eventi in assoluto ineluttabili: la società può essere ricapitalizzata (a ciò provvedono gli artt. 2446 s. c.c.), e la continuità aziendale ripristinata (ciò impone l'art. 2086, comma 2°, c.c.).

Ma quando si verificano tali eventi l'attività, medio tempore, non può seguire comunque linee che siano incompatibili con tale prospettiva dissolutiva; e ciò limita fortemente il set dei comportamenti che gli amministratori possono legittimamente assumere.

In una fase temporale in cui, per effetto delle limitazioni cognitive e previsionali che dicevamo, è difficile pensare che o i soci si risolvano ad immettere in società i mezzi che servirebbero, a titolo di investimento (laddove è più probabile che essi decidano di finanziare l'impresa: donde la “disattivazione” temporanea anche dell'art. 2467 c.c.), e d'altronde è altresì difficile pensare che possano essere facilmente assunti i “rimedi” atti a restaurare la continuità.

Il Legislatore italiano ha deciso, come si vedeva, di “inertizzare” tali triggering points, veri e propri covenants legali e “naturali”. Ma, oltre agli artt. 2392 ss. c.c., in particolare 2394, ed a quelle recentemente “inertizzate”, vi sono anche altre norme che ne fissano di ulteriori.

Come si accennava sopra, la struttura “propedeutica” del CCII era ed è basata su un reticolo di tali triggering points, che insieme convergono, insieme ad altri istituti, nel costituire l'apparato preventivo della crisi e dell'insolvenza, che si armonizza altresì con la Direttiva del 2019.

L'art. 2086, comma 2°, introdotto dal CCII, è entrato in vigore contestualmente alla promulgazione di quest'ultimo, e dunque è attualmente vigente.

Se il precetto avente ad oggetto il ripristino della continuità aziendale non può che ritenersi a mio avviso temporaneamente “congelato” in forza delle norme che abbiamo qua commentato, non altrettanto può dirsi quanto all'analogo precetto concernente l'obbligo di reagire alla “crisi”, e così pure, e soprattutto, a quelli aventi ad oggetto l'istituzione di assetti organizzativi “adeguati” a rilevare tempestivamente (ed in buona sostanza a prevenire) l'insorgere della crisi, e della stessa perdita della continuità aziendale (Sull'importanza del monitoraggio della continuità aziendale come oggetto dei doveri degli amministratori, nel contesto del diritto vigente, cfr. Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell'impresa societaria, in Giur. comm., 2014, pp. 304 ss.; Mazzoni, La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell'impresa priva della prospettiva della continuità aziendale, in Amministrazione e controllo nel diritto societario, Liber Amicorum per Piras, Torino, 2010, pp. 831 ss.).

Quanto alla continuità, in particolare, il Legislatore non ha affatto “abrogato” in toto la rilevanza giuridica della continuità, ma soltanto sospeso per un tempo limitato la cogenza di taluni precetti che si ricollegano alla constatazione della sua cessazione.

Va altresì ricordato che un precetto analogo per gli imprenditori individuali era ed è contenuto nell'art. 3 CCII, la cui entrata in vigore è stata tuttavia come è noto differita.

Ancora, il CCII contiene un chiaro precetto avente ad oggetto l'obbligo di amministrare in modo tale da evitare, rilevare tempestivamente, e comunque rimuovere, gli squilibri economico-finanziari.

Un obbligo di comportamento, anche questo, che non può seriamente ritenersi eccentrico rispetto al fuoco dell'obbligo di diligenza dell'amministratore, anche sulla base di una ricostruzione sistematica, fondata sulla ricognizione di elementi normativi vigenti (La dottrina aveva infatti già saputo ricostruire, generalizzando la portata di talune norme esistenti, i contorni di un obbligo di monitorare con costanza l'equilibrio finanziario, nonché di adottare le opportune misure necessarie per ristabilirlo una volta venuto meno: cfr. per tutti Tronci, Distribuzione di utili e di riserve, Milano, 2017, pp. 63 ss., 91 ss.; Nieddu Arrica, I principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale nella prospettiva della tutela dei creditori, Torino, 2016, pp. 43 ss., 56 ss.; Lolli, Situazione finanziaria e responsabilità nella governance delle s.p.a., Milano, 2009, pp. 91 ss., 139 ss.; Maugeri, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa non bancaria, in Orizz. dir. comm., 2014; Calandra Buonaura, La gestione societaria dell'impresa in crisi, in Liber Amicorum Abbadessa, Torino, 2014, pp. 2597 ss.), e che dunque resta operativo, pur in questa fase.

Lo stesso è a dirsi per quelle situazioni ove la pianificazione strategica adottata, anche (e soprattutto) finanziaria, risulti ormai “abrogata” a seguito della constatazione della ripetuta mancata verificazione degli obiettivi, anche di periodo, con essa fissati; anche in tal caso rientra nell'obbligo di agire diligentemente dell'amministratore il comportamento teso a ripianificare, in discontinuità rispetto a quanto prima adottato, le linee di indirizzo strategico che governano l'agire dell'impresa.

Norme come l'art. 2394 fondano la riflessione di quella dottrina la quale rileva correttamente come il margine di rischio “consentito” debba essere valutato relativamente alla concreta situazione del debitore: più la situazione finanziaria e patrimoniale dell'impresa è compromessa, e più essa si avvicina alla “soglia rilevante”, più limitato risulta il rischio concretamente assumibile dagli amministratori (Cfr. per l'elaborazione compiuta di quest'approccio Luciano, La gestione della s.p.a. nella crisi pre- concorsuale, Milano, 2016, p. 72 ss., 197 ss.; vi aderisce, riflettendo anche sul CCII, Ant. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, in www.ilcaso.it, 11 gennaio 2019).

Quanto in particolare al contenuto degli obblighi “reattivi” che insorgono a seguito del verificarsi di un evento “critico” (c.d. triggering point), la letteratura dedicata ha ormai individuato una serie di comportamenti tipici e doverosi, conformi a standards di azione razionali: in primis l'analisi approfondita delle cause che hanno prodotto l'evento critico, lo studio del contesto in cui l'impresa si trova attualmente ad operare, e poi l'individuazione del percorso ristrutturativo più idoneo per superare la situazione, anche attraverso la rimozione dei fattori di debolezza o degli errori gestionali intercettati al primo passaggio; ed al contempo da un lato l'adozione di comportamenti tesi a minimizzare i rischi, ad es. sospendendo gli investimenti non “necessari”, e riducendo i costi non necessari, che si possono comprimere senza perdere opportunità future implementabili nella ristrutturazione; e dall'altro il monitoraggio più assiduo e pregnante sui fattori segnaletici della situazione e dell'andamento dell'impresa, così da poter consentire tempestivi cambiamenti di rotta anche durante questa gestione interinale.

D'altro canto però, sempre in via generale, l'emergere di una situazione critica nella gestione dell'impresa comporta quasi sempre anche la necessità di pianificare un percorso modificato, in discontinuità rispetto al passato (Conf. Luciano, op. cit., pp. 135 ss., 186 ss.), e con particolare riferimento a quegli elementi, intranei ai vecchi scenari pianificati, che non si stanno verificando puntualmente. Sullo sfondo domina l'idea, accettata ora espressamente dalla Riforma, per cui la crisi si manifesta sempre come disfunzione della pianificazione in essere (Per condivisione di ciò v., in modo convinto, ancora Luciano, op. cit., pp. 100 ss.).

Tutto ciò, come può vedersi, si armonizza alla perfezione con le categorie generali che governano l'agire “diligente” dell'amministratore, e dunque con standards di condotta accettabili e razionali, e dunque intrinsecamente compatibili tanto con l'art. 2392 quanto con l'art. 2394 c.c.: il modello legale del processo decisionale “corretto” è infatti notoriamente (ogni citazione sarebbe superflua) ispirato al concetto di “adeguata istruttoria”.

Dunque l'amministratore è sempre chiamato ad acquisire, preventivamente rispetto alla decisione, un set informativo completo e sufficiente al fine di formulare un giudizio ponderato sulle alternative prospettabili; ciò può comportare anche la predisposizione di adeguati assetti organizzativi, strumentali e funzionali al reperimento ed alla misurazione/produzione dei dati necessari; dopodiché la decisione potrà essere adottata liberamente e discrezionalmente, ma sarà accettabile solo se “conseguenziale” rispetto al quadro istruttorio acquisito; libera nell'an, ma non anche palesemente distonica rispetto ai dati acquisiti.

La decisione assunta in ordine alla regolazione della crisi in atto non si discosterà mai in modo “ontologico” da tale contesto, anche se, per motivi sui quali non posso dilungarmi in questa sede, essa sarà legittima solo nella misura in cui non esponga i creditori ad un rischio evitabile attraverso l'adozione di una soluzione differente; id est, ove anche siano disponibili soluzioni regolatorie differenti, qualcuna potenzialmente più favorevole per il soggetto economico di riferimento, la scelta di queste ultime sarà legittima soltanto nella misura in cui non esponga la massa creditoria ad un rischio superiore.

Il tutto senza alcun bisogno di assumere la necessità che sia derogato il modello legale della business judgement rule, ma nel pieno rispetto della medesima.

Nel nostro caso, ossia nel periodo interessato dall'emergenza pandemica, l'esigenza del rispetto di tali linee di indirizzo, di tali standards, mi sembra esca confermata da quanto andavamo dicendo.

Gli amministratori opereranno nelle prossime settimane in una situazione di profonda incertezza rispetto al futuro, anche e soprattutto in ordine alle variabili di contenuto normativo e regolatorio; ma qualora siano scattati uno o più dei “triggering points” cui l'ordinamento dà rilievo, dovranno senz'altro continuare ad operare in una prospettiva di minimizzazione dei rischi, a tutela del ceto creditorio.

I gestori eviteranno inoltre di assumere iniziative che possano risultare incompatibili con gli scenari futuri che potrebbero verificarsi.

Nel frattempo essi dovranno altresì acquisire quanti più elementi informativi in ordine alla situazione dell'impresa, ai suoi punti di forza e di debolezza, in quanto possibile anche in ordine alle prospettive future; non dovranno trascurare neanche le potenziali “occasioni” offerte dalla crisi eccezionale in atto, ad es. in ordine all'opportunità di riconvertire il proprio settore di attività, anche se del caso andando ad occupare lo spazio lasciato “libero” da altri imprenditori che non potranno proseguire.

Essi potranno altresì ricorrere all'indebitamento, tanto quello verso i soci, beneficiando questi ultimi della sospensione del regime disincentivante di cui all'art. 2467 c.c., quanto verso i finanziatori “istituzionali”, anche profittando delle garanzie pubbliche apprestate dal Decreto Liquidità, e rivolte ad attenuare il rischio di credito del finanziatore, non del finanziato.

Il ricorso all'aumento dell'indebitamento indubbiamente pone ulteriormente in tensione i principi generali.

Non c'è dubbio che sia il Legislatore a prevedere il finanziamento, assistito ed incentivato dalla garanzia pubblica, come strumento per la ripartenza.

Ma da ciò non può ricavarsi un salvacondotto illimitato per l'imprenditore che vi faccia ricorso: permane infatti l'obbligo di assicurare l'equilibrio finanziario, nonostante la temporanea “disattivazione” dell'art. 2467 c.c.

Ciononostante l'imprenditore, il quale attinga al circuito dei finanziamenti al fine di rifinanziare il proprio circolante, in misura non eccessiva rispetto a tale scopo, non porrà in essere mai (o quasi mai: v. infra) una condotta vietata, poiché così egli asseconderà la volontà legislativa espressa di assicurare la continuazione dell'attività di impresa, almeno per il tempo necessario ad acquisire elementi sufficienti ad adottare la giusta soluzione regolatoria della crisi (cfr. supra).

La disciplina dei finanziamenti consente tuttavia che agli stessi si faccia ricorso più di una volta: dunque non è affatto anomalo, ed anzi corrisponde ad un modello razionale di comportamento, che l'imprenditore in una fase iniziale attinga ai crediti, nella misura strettamente necessaria a consentire la prosecuzione temporanea dell'attività d'impresa; e poi, ma solo quando avrà risolto anche solo in parte i propri deficit cognitivi e previsionali, potrà formulare richieste di erogazione più ponderate, al limite ancora strumentali alla prosecuzione temporanea dell'attività ove occorra una più approfondita osservazione della situazione, od altrimenti già parametrate al reale fabbisogno finanziario funzionale al recupero, insieme coll'auspicabile contributo dei soci, dell'equilibrio e dell'efficienza.

Quanto invece all'obbligo di ripianificare l'attività strategica, in termini di discontinuità rispetto al passato, le peculiari limitazioni cognitive e previsionali tipiche dell'era CoVid mi sembrano sufficienti per ritenerlo temporaneamente “disattivato”; o meglio, l'imprenditore non potrà comunque assumere decisioni, che possano influire sulle scelte future, che sottraggano spazio a “possibilità” insite nell'impresa, e che debbano tuttavia essere verificate quanto alla loro attuabilità rispetto allo sviluppo degli eventi pandemici; ma questo sulla base dell'ordinario canone di diligenza nella gestione dell'impresa.

Egli comunque non sarà in grado normalmente di elaborare subito la “adeguata” soluzione regolatoria della propria situazione critica.

Tuttavia, quando le limitazioni cognitive in questione potranno ritenersi ormai superate, ritengo che l'imprenditore riacquisterà, automaticamente ed immediatamente, la sfera integrale delle proprie opzioni, e così anche dei propri obblighi.

Dunque, a partire da tale momento, è mio parere che cesserà anche la facoltà di assumere la permanenza della continuità aziendale sulla base dei meri presupposti di cui all'art. 7 Decreto Liquidità; e così l'imprenditore dovrà trarre subito le necessarie conclusioni dalla propria situazione: instando per il concordato, o per altra soluzione regolatoria disponibile; ivi compresa l'istanza di fallimento “in proprio”, qualora sia già cessato l'arco temporale della improcedibilità di cui all'art. 10.

Analogamente, a me sembra che un'esegesi funzionale delle norme debba condurre alla conclusione per cui, quando la situazione dell'imprenditore sia già oggi chiara e non incerta, rispetto ai possibili esiti della crisi, al momento dell'entrata in vigore del Decreto Liquidità, l'imprenditore non possa non prenderne definitivamente atto.

Se ad es. la crisi trovi la propria eziologia in fatti strutturali, e risalenti, che purtuttavia non avevano ancora intaccato definitivamente la continuità aziendale, ed il sopravvenire dell'evento pandemico abbia determinato la sottrazione di qualsiasi spazio ristrutturativo per l'azienda, l'imprenditore non potrà più avvalersi della facoltà di cui all'art. 7.

Comunque egli non potrà, sino al 30 giugno 2020, instare per il proprio fallimento, stante il rigore formale (in gran parte immotivato) dell'art. 10; né potrà operare l'art. 2447 c.c., stante la disattivazione radicale del n. 4 dell'art. 2484; purtuttavia gli amministratori dovranno per lo meno convocare l'assemblea per lo scioglimento volontario, e improntare la propria gestione ad una logica massimamente “conservativa”, in attesa che la temporaneità della disciplina eccezionale venga meno.

Ritengo tuttavia che i presupposti fattuali atti a contro-sterilizzare le norme di cui stiamo parlando debbano in queste ipotesi affermarsi all'osservazione con caratteri di immediata evidenza, nel dubbio dovendo prevalere la ratio tesa alla continuazione dell'attività imprenditoriale, che come si ricordava risponde a finalità politiche (condivisibili o meno) di ordine generale, tese a contrastare i potenziali effetti pro- ciclici che potrebbero essere indotti dall'applicazione indiscriminata delle norme ordinarie, con esiti potenzialmente catastrofici per il sistema economico.

In ogni caso, non può essere sottaciuto come la disattivazione dell'art. 2486 c.c. comporti altresì la impossibilità di accedere al criterio liquidativo di cui al comma 3°, introdotto dal CCII, ed anch'esso già in vigore, ed avente ad oggetto l'applicazione dei criteri “sintetici” di liquidazione del danno (differenza fra netti patrimoniali, differenza fra attivo e passivo fallimentari).

Ciò si armonizzerebbe in effetti con la ridotta esigenza di rendere l'ammontare del quantum risarcitorio prevedibile ex ante, in relazione alle conseguenze di comportamenti che maturano in un contesto fattuale intriso da elementi caratterizzati da una assai limitata prevedibilità.

Non ritengo invece che ciò debba comportare anche l'adesione del Legislatore ad un modello di responsabilità “per singoli atti”, anziché per “conseguenze di un'attività”, e dunque per saldi del valore del patrimonio.

L'inapplicabilità dell'art. 2486 c.c. non può comportare anche che il danno eventualmente da risarcire (qualora sia accertata la violazione delle altre norme sopra esaminate) muti qualitativamente ed ontologicamente: si tratterà comunque, all'occorrenza, di un pregiudizio connaturato ad una illegittima prosecuzione di attività, distonica rispetto alle indicazioni del sistema; e sarà compito del Giudice liquidare il danno, se del caso ai sensi dell'art. 1226 c.c., magari facendo anche ricorso comunque al “modello” legale del comma 3° dell'art. 2486 c.c., non diversamente del resto da quanto accadeva prima dell'entrata in vigore della norma.

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