L'Editoriale - Lo Statuto dei lavoratori cinquant'anni dopo

15 Maggio 2020

Lo Statuto dei lavoratori ha svolto una funzione centrale, quasi baricentrica, nel diritto del lavoro italiano rinnovandolo profondamente e rendendolo più moderno e vicino ai modelli europei. Tale importante risultato è stato raggiunto creando un nuovo equilibrio di posizioni tra le contrapposte parti del rapporto negoziale, incentrato, da un lato, su un articolato apparato normativo a tutela della “persona” del lavoratore con conseguente limitazione dei tradizionali poteri autoritativi dell'imprenditore, e, dall'altro con norme finalizzate alla tutela e alla promozione dell'attività sindacale...
Premessa

Sono trascorsi cinquant'anni dall'entrata in vigore, nel nostro ordinamento, della legge n. 300 del 1970, a tutti nota come Statuto dei lavoratori e mi piace ricordare che proprio cinquant'anni fa, giovanissimo studente al secondo anno di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, avevo cominciato a studiare il diritto del lavoro frequentando il corso istituzionale tenuto dal professor Scognamiglio e un seminario pomeridiano di approfondimento tenuto da un giovane assistente che si chiamava Matteo Dell'Olio. E ricordo che proprio all'inizio di questo seminario, mi pare che fosse nel mese di ottobre del 1970, il futuro professor Dell'Olio consegnò a ciascuno di noi studenti che frequentavamo il suo seminario (eravamo circa una ventina) un libretto bianco di poche pagine, stampato dalla facoltà di giurisprudenza, che recava il testo completo della nuova legge. Nel consegnarci tale libretto l'allora giovane assistente Dell'Olio, con il linguaggio sintetico e preciso che gli era tipico, ci disse che la nuova legge costituiva un passaggio importante nella storia del diritto del lavoro italiano.

Inutile dire che tutto il seminario fu impostato sullo studio della nuova legge ed è altresì inutile dire che il futuro prof. Dell'Olio aveva visto giusto atteso che, a distanza di cinquant'anni, possiamo dire che lo Statuto dei lavoratori ha svolto una funzione centrale, direi quasi baricentrica, nel diritto del lavoro italiano rinnovandolo profondamente e rendendolo più moderno e vicino ai modelli europei.

Tale importante risultato è stato raggiunto creando un nuovo equilibrio di posizioni tra le contrapposte parti del rapporto negoziale, incentrato, da un lato, su un articolato apparato normativo a tutela della “persona” del lavoratore con conseguente limitazione dei tradizionali poteri autoritativi dell'imprenditore, e, dall'altro con norme finalizzate alla tutela e alla promozione dell'attività sindacale.

Mi pare interessante notare che tale risultato, almeno per quanto riguarda l'evoluzione complessiva dell'equilibrio nel rapporto di lavoro e la maggiore consapevolezza, da parte del prestatore di lavoro, dei suoi diritti e della sua dignità, ha riguardato tutto il mondo del lavoro, a prescindere dalla tipologia e dalle dimensioni del datore di lavoro; e ciò a dispetto del fatto che la finalità originaria del legislatore dello Statuto è stata dichiaratamente quella di riformare i rapporti di lavoro nella grande fabbrica. Finalità che si evince chiaramente dalla previsione di requisiti dimensionali (sussistenza di un numero minimo di dipendenti nell'ambito della stessa unità produttiva) quale presupposto per determinare l'ambito di applicazione della disciplina vincolistica in tema di licenziamento, ovvero dell'azione sindacale organizzata all'interno dell'azienda.

Di seguito mi soffermerò brevemente, e senza nessuna pretesa di completezza, su quelle che sono state, a mio avviso, le norme più innovative dello Statuto dei lavoratori e cercherò di evidenziarne le eventuali criticità emerse nel corso del tempo. Non mi occuperò invece dei rapporti fra Statuto dei lavoratori e pubblico impiego, rapporti che rispondono a problematiche affatto diverse e che hanno subito nel tempo una complessa ed articolata evoluzione; essi meritano pertanto una approfondita e specifica riflessione che i limiti di questo editoriale non consentono.

La struttura complessiva dello Statuto dei lavoratori

All'interno dello Statuto coesistono due distinti plessi normativi: il primo comprende norme con finalità garantistica, che incidono prevalentemente sul rapporto individuale di lavoro (sono riconducibili all'interno di tale plesso anche le norme finalizzate a garantire il rispetto della libertà sindacale dei singoli); il secondo comprende norme di carattere "promozionale" dell'attività sindacale, caratterizzate dal riconoscimento ai sindacati che fossero in possesso di determinati requisiti (inizialmente, in particolare, quello della maggiore rappresentatività, ma tale requisito, come si vedrà, sarà sostituito, nel corso degli anni, da altri) di una serie di diritti di libertà e di attività all'interno dei luoghi di lavoro.

Plessi normativi che si pongono in funzione complementare l'uno con l'altro, essendo evidente che il rafforzamento del ruolo del sindacato all'interno dell'impresa contribuisce all'effettività dell'esercizio dei diritti individuali del prestatore di lavoro.

Con riferimento ai rapporti individuali, l'obbiettivo della realizzazione di un nuovo e diverso equilibrio fra gli interessi contrapposti delle parti del rapporto di lavoro è stato perseguito, in modo sostanzialmente innovativo, attraverso la fissazione di norme che, fissando una precisa disciplina vincolistica a favore del lavoratore subordinato, ha inciso direttamente sull'ambito dei poteri dell'imprenditore attinenti all'amministrazione del rapporto di lavoro.

È stato condivisibilmente affermato in dottrina (GHEZZI - ROMAGNOLI, I rapporti di lavoro, Bologna, 1987) che, con tali norme, il nesso strumentale del rapporto di lavoro con l'organizzazione produttiva è mantenuto rilevante sul piano giuridico, «ma nel quadro di un sistema di limiti che assoggetta la libertà dell'iniziativa economica e le sue forme di esercizio, al vincolo della compatibilità con i valori costituzionali della sicurezza, libertà, dignità umana, nell'attualizzazione concreta individuata dal legislatore del 1970”.

Per quanto concerne la normativa finalizzata alla promozione dell'attività sindacale, essa è stata perseguita con una tecnica legislativa che ha rigorosamente evitato di stabilire vincoli alla costituzione ed al funzionamento sia delle strutture, sia dell'attività sindacale.

Uno dei meriti di tale normativa è stato quello di aver favorito in modo significativo la crescita della sindacalizzazione e delle rappresentanze sindacali specie nelle aziende medio-grandi, il riconoscimento del sindacato quale attore delle relazioni industriali, nonché lo sviluppo della contrattazione collettiva come strumento principale di governo di rapporti collettivi, tutti elementi appunto caratteristici degli ordinamenti sindacali dei paesi occidentali.

Deve essere inoltre sottolineato che, coerentemente con la suddetta filosofia, il legislatore dello Statuto ha evitato di prevedere ogni possibile forma di partecipazione del sindacato nell'impresa e questo ha condizionato e condiziona (negativamente, a mio avviso) l'assetto delle relazioni industriali nel nostro Paese, esasperandone, particolarmente in alcuni passaggi, la conflittualità.

Le norme a tutela della libertà e dignità del lavoratore

All'interno del primo dei plessi normativi ai quali si è fatto in precedenza riferimento sono individuabili distinti blocchi di disposizioni, riferite a specifici poteri dell'imprenditore e agli interessi dei lavoratori ritenuti meritevoli di protezione: la dignità personale e la riservatezza (artt. 1, 4, 6, 8); la salute (art. 9); la professionalità (art. 13); il diritto al lavoro (art. 7, 18).

In questo contesto un ruolo certamente centrale deve essere riconosciuto all'art. 1 (libertà di opinione), che riconosce in favore dei lavoratori il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero senza distinzioni di opinioni politiche, sindacali o di fede religiosa. L'importanza della norma, che ribadisce un diritto fondamentale della persona già riconosciuto in favore di tutti ;dall'art. 21 Cost., è data dal fatto che il riconoscimento di tale diritto avviene nell'ambito di un tipico rapporto di diritto privato, connotato dall'esercizio di poteri privati, e che la norma consente esplicitamente che la manifestazione del pensiero da parte del prestatore possa avvenire nei luoghi di lavoro che sono nella disponibilità del datore di lavoro. Quest'ultimo non può limitare l'accesso del dipendente in azienda al solo espletamento della prestazione lavorativa, ma deve consentire, e quindi astenersi da contrastare, la libera manifestazione del pensiero da parte di quest'ultimo.

Connessa logicamente, oltre che teleologicamente alla norma da ultimo citata è quella di cui all'art. 8, che prevede il divieto di indagini sulle opinioni. Come è noto, la norma vieta al datore di lavoro di effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti al fine della valutazione della sua attitudine professionale. Il divieto, posto inizialmente con la finalità di por termine alla prassi, considerata talvolta ricorrente prima dell'entrata in vigore dello Statuto, della “ ;schedatura” del personale, opera per tutto il corso del rapporto di lavoro ed è esteso anche alla fase iniziale dell'assunzione. Le uniche indagini consentite sono quindi quelle che riguardano strettamente l'attitudine professionale del lavoratore a svolgere la prestazione dedotta nel contratto di lavoro. Più in generale può dirsi che con questa norma viene esplicitamente applicato al prestatore di lavoro, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato., il diritto alla riservatezza, che poco dopo l'entrata in vigore dello Statuto (con sentenza n. 38 dell'aprile 1973) la Corte costituzionale ha qualificato come diritto fondamentale.

Deve sottolinearsi il carattere fortemente innovativo della disciplina introdotta dalle due norme da ultimo citate. Ed infatti se, come prima rilevato, l'oggetto della suddetta normativa è costituito dall'affermazione del diritto alla libertà di opinione e del diritto alla riservatezza del prestatore di lavoro, e quindi dal riconoscimento della sua “dignità” quale persona, la sua portata innovativa dipende dal fatto che l'esplicito riconoscimento di tali diritti all'interno del rapporto di lavoro limita e condiziona il potere di controllo dell'imprenditore sulla persona del lavoratore, potere che, in quanto ritenuto costituire un aspetto specifico del potere direttivo, non era stato in precedenza disciplinato dall'ordinamento lavoristico. In proposito è stato condivisibilmente osservato in dottrina (GRANDI, Rapporto di lavoro, voce in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXVIII, Milano, 1987) che, paradossalmente, prima dell'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, l'implicazione della persona del lavoratore nel rapporto di lavoro aveva determinato una minore attenzione sulla necessità di distinguere i controlli funzionali al corretto svolgimento della prestazione di lavoro rispetto a quelli direttamente correlati ai comportamenti del prestatore generalmente intesi.

Il legislatore dello Statuto si è posto poi il problema di fissare una serie di limiti a presidio concreto del rispetto della persona del lavoratore dipendente. E ciò ha fatto con una serie di norme, talvolta fortemente innovative, che però, tenuto conto del tempo trascorso e, in particolare, dell'evoluzione tecnologica che ha fortemente modificato l'assetto organizzativo delle imprese ed il loro modello produttivo, appaiono talvolta sostanzialmente obsolete. Mi riferisco non solo agli artt. 2 e 3 che riguardano l'utilizzazione delle guardie giurate e del personale di vigilanza, e che pongono limiti alle modalità di controllo sull'attività lavorativa come tale, ma anche e soprattutto agli artt. 4 e 6, relativi, rispettivamente, ai divieti di utilizzo di impianti audiovisivi e di visite personali di controllo.

A mio avviso, è l'art. 4, in tema di controlli audiovisivi, quello che ha mostrato nel tempo la sua inadeguatezza dovuta all'evolversi della tecnologia. Ed infatti, se è evidente e condivisibile la ratio legis della norma, finalizzata a proteggere in modo efficace il lavoratore da controlli invasivi senza essere tuttavia vessatoria o impeditiva dell'attività aziendale, è altrettanto evidente la necessità di adattare la disciplina ad una struttura dell'attività lavorativa ormai governata in grandissima parte da strumenti informatici che implicano di per sé la immediata disponibilità dei dati concernenti la quantità e spesso la qualità del lavoro svolto dal singolo prestatore. Dati che sono essenziali per la funzionale gestione dell'attività imprenditoriale ma che, allo stesso tempo, potrebbero essere utilizzati in modo invasivo nei confronti del singolo lavoratore. Non a caso la norma è stata sostanzialmente riformulata dall'art. 23, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2015 n. 151, emesso sulla base della legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 (art. 1 comma 7 lett. f) che aveva dettato, come principio criterio direttivo, la “revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto dell'evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell'impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore”) e si inserisce nel più ampio disegno riformatore noto con il nome di Jobs Act. Come si vede il legislatore del 2014 appare pienamente consapevole della suddetta problematica ed ha dettato una normativa certamente più idonea ad affrontarla. Ritengo tuttavia che, nonostante la nuova formulazione della norma, il tema dei controlli del lavoratore in azienda, che si pone, del resto, in termini potenzialmente analoghi a quello della tutela della privacy del singolo nella società informatizzata, costituirà uno dei punti nodali che i giuristi del lavoro dovranno affrontare nel prossimo futuro.

Considerazioni analoghe possono essere fatte con riferimento all'art. 8 che, come prima evidenziato, nel porre il divieto di indagini sulle opinioni, costituisce una norma finalizzata a garantire la sfera privata di riservatezza del lavoratore. Ed infatti, se è vero che il limite posto al divieto di indagini sulle opinioni deve atteggiarsi in stretto riferimento alle specifiche mansioni dedotte in contratto, per cui l'indagine può essere ammessa solo su fatti aventi una connessione immediata e necessaria con tali mansioni, appare tuttavia evidente che, anche in questo caso, la rigidità della disposizione si scontra con la facilità di acquisire dati, di per sé sostanzialmente innocui, ma che possono essere tuttavia facilmente elaborati al fine di ottenere un profilo del lavoratore potenzialmente invasivo della privacy dello stesso.

Altra materia che è stata regolata in maniera fortemente innovativa dallo Statuto dei lavoratori è quella dei controlli concernenti malattie e infortuni del prestatore di lavoro (art. 5). La norma infatti limita fortemente il potere di controllo dell'imprenditore nei confronti del lavoratore assente per infermità o infortunio, controllo tradizionalmente effettuato dai medici di fabbrica, ed affida il relativo accertamento esclusivamente a soggetti pubblici a ciò specificamente deputati; inizialmente ai servizi ispettivi degli enti previdenziali; successivamente alle Unità sanitarie locali (USL) (legge n. 833 del 1978) e ai medici indicati nel decreto legge n. 463 del 1983, convertito dalla legge n. 638 del 1983. La ratio della norma è quella di garantire l'imparzialità del controllo sullo stato di salute del prestatore di lavoro, affidando l'esclusiva di tale controllo a strutture del tutto autonome dal datore di lavoro, in posizione di terzietà rispetto ai contrapposti interessi delle parti del rapporto di lavoro e pertanto idonee a garantire correttezza ed imparzialità dei controlli; esigenze queste largamente condivise e fatte oggetto di specifiche prescrizioni da parte dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL). Si tratta di una norma che ha dato luogo ad un notevole contenzioso e rispetto alla quale sono stati operati dal legislatore importanti aggiustamenti finalizzati a migliorare l'efficienza dei controlli. Merita di essere ricordata in proposito la previsione (decreto-legge n. 463 del 1983 cit.) di un obbligo di reperibilità del lavoratore assente per malattia in alcune fasce orarie, obbligo finalizzato a facilitare l'attività di controllo. Deve essere tuttavia evidenziato che la filosofia complessiva della norma è stata sempre confermata ed il principio della necessità che l'accertamento delle condizioni di salute del dipendente sia affidato ad un medico che si trovi in posizione di terzietà rispetto ai soggetti del rapporto di lavoro è stato pienamente acquisito alla moderna cultura giuslavoristica.

Su un piano nettamente distinto ma parallelo va posto l'art. 9 (tutela della salute e dell'integrità fisica) che, pur avendo ad oggetto un tema (quello della salute e della sicurezza in fabbrica) che appartiene alla tradizione del diritto del lavoro, introduce significative innovazioni nella materia, che, all'epoca dell'entrata in vigore dello Statuto, era oggetto di una disciplina caratterizzata da un basso grado di effettività anche a causa dell'inadeguatezza dei servizi ispettivi del lavoro. Il meccanismo creato dalla norma fa dipendere il grado di effettività di quest'ultima dal potere contrattuale delle parti collettive e dalla volontà di esercitarlo per promuovere un miglioramento dell'ambiente di lavoro invece che per altri fini. A supporto dell'effettività del suddetto meccanismo si è ritenuta l'applicabilità del procedimento previsto dall'art. 28 della stessa (repressione della condotta antisindacale) al fine di rimuovere eventuali ostacoli frapposti dal datore di lavoro ai controlli esercitati dai lavoratori sull'ambiente di lavoro. Sotto altro profilo si è sostenuta la possibilità dei sindacati e delle rappresentanze previste dallo stesso art. 9 di costituirsi parte civile in caso di reati commessi dal datore di lavoro in tema di disciplina della sicurezza sul lavoro. Di fatto deve peraltro registrarsi uno scarsissimo ricorso alla tutela giudiziaria concernente l'applicazione dell'art. 9. Piuttosto si è verificato un apprezzabile ricorso alla contrattazione collettiva nazionale ed aziendale per regolamentare l'attività di controllo da parte delle organizzazioni sindacali. Ad esempio, mediante la previsione di accertamenti delle condizioni ambientali, pagati dall'azienda ed affidati ad enti specializzati concordati fra le parti; ovvero mediante la previsione di obblighi di informazione a carico dell'impresa relativi soprattutto alle sostanze impiegate nelle lavorazioni, fatto salvo il rispetto del segreto industriale. Un significativo progresso si è inoltre realizzato con l'entrata in vigore della legge n. 833 del 1978 sul servizio sanitario nazionale che ha previsto interventi finalizzati alla prevenzione da parte delle USL in collaborazione con le r.s.a. e con il datore di lavoro- Non può dirsi, a mio avviso, che, nonostante le potenzialità applicative della disciplina statutaria, la situazione attuale della tutela della salute sul posto di lavoro abbia raggiunto risultati soddisfacenti. Basta verificare in proposito i dati relativi all'evoluzione statistica degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. E può, in questo particolare momento, facilmente prevedersi che la problematica della tutela dell'ambiente di lavoro diventi ancora più acuta, se possibile, a seguito dell'epidemia del corona virus di questi mesi.

Tutela della professionalità

Un altro profilo di profonda innovazione introdotto dallo Statuto dei lavoratori attiene alla disciplina delle mansioni (art. 13 che riformula integralmente l'art. 2103 cod. civ.). Con tale norma il legislatore ha inciso in modo deciso sulla configurazione dello ius variandi che costituisce uno dei poteri tipici del datore di lavoro e quindi sulla definizione dell'oggetto stesso del rapporto di lavoro subordinato. In particolare, il limite allo ius variandi è stato individuato nelle mansioni professionalmente equivalenti; è scomparso il riferimento alle esigenze dell'impresa (già presente nell'art. 2103 nella sua originaria formulazione); è stato previsto il diritto alla promozione definitiva e non solo alla retribuzione corrispondente, in caso di assegnazione a mansioni superiori; è stata sancita la nullità dei patti modificativi in peius delle mansioni.

Si tratta evidentemente di norma caratterizzata da un notevole grado di rigidità, che è stata variamente interpretata nel corso dei decenni di sua applicazione. In particolare, il tasso di rigidità è oscillato in relazione all'interpretazione che si è di volta in volta affermata sul concetto di equivalenza e che è stata talvolta mitigata grazie al rinvio alle valutazioni operate dalla contrattazione collettiva. Mi pare utile ricordare, con riferimento alla disposizione di cui all'ultimo comma della norma in esame, che sancisce la nullità dei patti modificativi in peius delle mansioni, che la giurisprudenza di legittimità ha fatto salvi (statuendo così che non opera in tali casi la suddetta sanzione della nullità) i patti relativi all'adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti a quelle in precedenza svolte nei casi in cui sussista uno specifico interesse del lavoratore e più precisamente quando il patto di demansionamento sia stato stipulato per scongiurare un licenziamento, nel caso in cui il lavoratore, a causa di una sopravvenuta inabilità, non sia più abile a svolgere le mansioni in precedenza svolte.

Tuttavia, nonostante gli sforzi interpretativi finalizzati a mitigare le rigidità sopra evidenziate, sono aumentate le difficoltà applicative della norma in relazione all'evoluzione dell'organizzazione del lavoro in azienda, difficoltà determinate, da un lato, dall'evoluzione tecnologica e, dall'altro, dall'esigenza di far fronte alle sempre più impegnative sfide della concorrenza imposte dalla globalizzazione. È stato in proposito condivisibilmente affermato (TREU, Statuto dei lavoratori, Voce in Enciclopedia del Diritto, vol. XLIII, Milano 1990) che, in una situazione caratterizzata da una continua evoluzione tecnologica ed organizzativa, “la garanzia del patrimonio professionale del lavoratore dipende sempre meno da un concetto statico di equivalenza delle (singole) mansioni, per doversi appoggiare sulle opportunità di lavoro e di formazione professionale di volta in volta assegnate ai lavoratori e sui programmi di mobilità e di carriera”.

Tali difficoltà applicative hanno indotto il legislatore a modificare significativamente la norma in esame. Ed infatti con il d.lgs. n. 81 del 2015 (emesso in base alla delega di cui all'art. 1, comma 7, punto e) della legge n. 183 del 2014) ha riformulato l'art. 2103 cod. civ. in modo di introdurre una maggiore elasticità nella disciplina dello ius variandi. Tale maggiore elasticità è stata ottenuta in primo luogo modificando il parametro legale in base al quale deve essere verificata la legittimità dell'esercizio dello ius variandi dell'imprenditore: non più il potere di adibizione “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”, previsto dalla precedente disciplina, ma la possibilità di assegnare il lavoratore “a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Viene quindi eliminato il criterio dell'equivalenza, il rispetto del quale era affidato al sindacato del giudice; ed infatti, secondo il nuovo testo della norma, l'imprenditore potrà assegnare il prestatore a tutte le mansioni che siano ricomprese nell'ambito del livello di inquadramento attribuito. Sono poi previste ipotesi di legittima assegnazione del lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.

L'esercizio del potere disciplinare e la sua procedimentalizzazione

Uno dei profili più emblematici del riequilibrio dei poteri nel rapporto di lavoro subordinato, perseguito dallo Statuto dei lavoratori, è costituito dalla normativa sull'esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere disciplinare (art. 7). Profilo quest'ultimo di particolare rilievo, atteso che il potere disciplinare del datore di lavoro è coessenziale al carattere subordinato del rapporto di lavoro; esso connota infatti il rapporto e per altro verso il suo esercizio costituisce tipico elemento indiziario della sussistenza della subordinazione.

In particolare, l'art. 7, innovando decisamente rispetto alla disciplina codicistica (in particolare, l'art. 2106 cod.civ.) ed anche alla contrattazione collettiva prevalente, ha sottoposto l'esercizio del potere disciplinare al rispetto di passaggi procedurali finalizzati a garantire la posizione contrattuale del lavoratore.

Passaggi significativi della suddetta procedimentalizzazione sono: la preventiva individuazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti e delle sanzioni disciplinari ad essi conseguenti; la pubblicità del codice disciplinare “mediante affissione in luogo accessibile a tutti”; la previa contestazione degli addebiti, da attuarsi in forma scritta; la conseguente necessità (affermata in modo sostanzialmente uniforme dalla giurisprudenza) che la contestazione soddisfi i requisiti della specificità e della immediatezza e abbia il carattere della immutabilità; il diritto del prestatore di lavoro di difendersi dalla contestazione, diritto che può essere esercitato nella più completa libertà di forme e con l'eventuale assistenza sindacale, ove il lavoratore si determini in tal senso; la tipizzazione delle sanzioni con previsione tassativa che esclude, quindi, che possano essere configurati come sanzioni provvedimenti di trasferimento, le note di qualifica, la sospensione cautelare; i termini per l'adozione del provvedimento disciplinare. Naturalmente il rispetto della suddetta procedura è soggetto al controllo giudiziale che non è quindi limitato al rispetto del principio di proporzionalità sancito dall'art. 2106 cod.civ.

La procedimentalizzazione dell'irrogazione della sanzione è stata poi estesa anche al licenziamento disciplinare a seguito del decisivo intervento della Corte costituzionale (C. cost. n. 204 del 1982) la quale ha stabilito che al licenziamento disciplinare sono applicabili solo (ma sempre) i tre commi iniziali dell'art. 7: quelli che richiedono la analitica previsione delle infrazioni cui è correlata la sanzione, i requisiti procedurali della contestazione per iscritto dell'addebito, l'osservanza del termine dilatorio di cinque giorni, l'audizione dell'interessato con eventuale assistenza sindacale. Estensione di grande rilievo applicativo, ove si consideri che, fino all'entrata in vigore della legge Fornero (nel 2012) al licenziamento intimato senza l'osservanza di queste procedure è stato pacificamente applicato l'art. 18 dello Statuto, e quindi il regime della reintegrazione nel posto di lavoro. L'estensione dell'applicabilità della disciplina di cui all'art. 7 al licenziamento disciplinare è stata poi estesa (C. cost. n. 427 del 1989) anche alle piccole unità produttive alle quali, per carenza dei requisiti dimensionali, non si applicava la disposizione di cui all'art. 18.

In definitiva la portata innovativa dei principi fondamentali introdotti dall'art. 7 si è estesa, tranne poche eccezioni, a tutto il complesso mondo del lavoro subordinato e possono considerarsi come una definitiva acquisizione alla cultura giuridica del lavoro.

Le conseguenze dell'illegittimo esercizio del potere di licenziare

Il significato innovativo della disciplina dell'art. 18 sull'equilibrio del rapporto di lavoro è ancora più evidente. Ed infatti la norma ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la stabilità reale del rapporto stesso in luogo della stabilità c.d. obbligatoria prevista dalla legge n. 604 del 1966; in altre parole una stabilità effettiva che sostituisce il precedente regime risarcitorio, in base al quale veniva comunque confermata l'operatività del recesso ancorché illegittimo; in questo caso il datore di lavoro veniva di fatto sottoposto a una sanzione di tipo esclusivamente pecuniario. Stabilità reale che di fatto risulta peraltro limitata dalla incoercibilità dell'obbligo di reintegrazione, secondo una giurisprudenza ampiamente consolidata, con la conseguenza che l'unica misura di coazione indiretta alla reintegrazione effettiva è rimasto l'obbligo del datore, previsto dall'art. 18 dello Statuto, di pagare comunque la retribuzione al lavoratore nonostante la non ammissione al lavoro, e quindi senza contropartita.

È stato condivisibilmente osservato (TREU, op. cit.) che Il sistema sanzionatorio dell'art. 18 presenta de iure una efficacia potenzialmente più incisiva sui rapporti di lavoro di quella prevista dagli ordinamenti europei vicini, come la Repubblica federale tedesca e la Gran Bretagna, che non collegano alla dichiarata illegittimità del licenziamento la ricostituzione giuridica del rapporto di lavoro (e quindi la reintegrazione), ma affidano agli organi giudicanti ampia discrezionalità di adottare rimedi propriamente sanzionatori.

Di fatto l'art. 18 è stata una norma “storica”, eletta ad icona del movimento sindacale tanto da essere immediatamente riconoscibile, nel dibattito politico, come pure nella stampa non specializzata, come “articolo 18” tout court. Disposizione altresì tormentata, oggetto, direttamente o indirettamente, anche di istanze referendarie, variamente orientate per essere tendenti o alla generalizzazione della tutela reintegratoria oppure, all'opposto, alla sua radicale abrogazione (cfr., ad esempio, C. cost. 6 febbraio 2003 n. 41; C. cost. 2 febbraio 1990 n. 65), ma che ha resistito negli anni essendo stata novellata solo nel 1990 (dalla legge n. 108 del 1990) nel rispetto però dell'impianto originario.

La disciplina dell'art. 18 è stata completamente riformulata con la già citata legge n. 92 del 2012 (c.d. legge Fornero) che ha fortemente limitato l'ambito di applicazione della tutela reintegratoria. Non a caso la rubrica dell'art. 18, che nella versione originaria era “Reintegrazione nel posto di lavoro”, e quindi rendeva di immediata evidenza la novità contenuta nella norma, nella versione introdotta dalla citata legge Fornero è divenuta “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo”. In sostanza con la nuova disciplina si è passati da un unico regime di tutela reintegratoria a quattro regimi di tutela differenziata, applicabili nei (riscritti) limiti dimensionali di quella che era la tutela reale. Sono rispettivamente il regime di tutela reintegratoria piena (art. 18, primo e secondo comma), quello di tutela reintegratoria attenuata (art. 18, quarto e settimo comma), quello di tutela indennitaria ampia (art. 18, quinto e settimo comma) ed infine quello di tutela indennitaria ridotta (art. 18, sesto comma).

Dopo la nuova disciplina introdotta dalla legge n. 92 del 2012 il quadro normativo è mutato ulteriormente ad opera del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 recante disposizioni in attuazione della legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 (c.d. Jobs Act), che ha nuovamente modificato il regime di tutela dell'art. 18 pur senza intervenire direttamente e testualmente su tale disposizione. L'art. 1 d.lgs. n. 23 del 2015 riferisce la nuova disciplina del licenziamento illegittimo ai «lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (quindi si applica esclusivamente ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulati dopo il 6 marzo 2015). In sostanza il d.lgs. n. 23 del 2015 conferma anche per i “nuovi” contratti (quelli a tutele crescenti), il reticolo delle tutele differenziate della legge n. 92 del 2012, ridisegnando i confini di applicazione delle tutele ivi previste in termini di maggiore flessibilità in uscita (e quindi di minor favore) per il lavoratore licenziato.

Deve sottolinearsi che, anche dopo le suddette riforme è rimasto immutato il principio cardine della giustiziabilità delle ragioni del licenziamento essendo rimasta ferma la prescrizione secondo cui il licenziamento è possibile solo per giusta causa o per giustificato motivo; canone generalissimo che marginalizza la libera recedibilità a limitate ipotesi di natura eccezionale. Tale garanzia di carattere generale, che risale alla legge n. 604 del 1966 prima citata, è del resto coerente con l'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, nel testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona il 13 dicembre 2007, ratificato con legge 2 agosto 2008 n. 130 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.

Le ragioni di politica del lavoro poste alla base delle nuove discipline introdotte, rispettivamente, nel 2012 e nel 2015, la cui caratteristica comune è quella di ridurre drasticamente l'ambito di applicazione della tutela reintegratoria nel caso di licenziamento illegittimo possono ricondursi alla convinzione che tali nuove discipline rendono più attrattivo per le imprese il lavoro subordinato a tempo indeterminato rispetto alle varie tipologie contrattuali che consentono l'acquisizione di lavoro flessibile. Esse inoltre rispondono a una esigenza di contenimento del rischio (e del costo) della lite giudiziaria che abbia ad oggetto l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento e le sue conseguenze in termini di reintegrazione nel posto di lavoro e di ristoro delle retribuzioni perse dal lavoratore; rischio e costo che, fino all'entrata in vigore della legge Fornero, erano crescenti di pari passo con la durata del processo, articolato di consueto in due gradi di merito ed in quello di legittimità, se non più. Una reintegrazione nel posto di lavoro che arrivava, in casi non infrequenti, dopo dieci anni di causa, determinava l'assegnazione di tutte le retribuzioni perse in tale periodo; il rischio di tale conseguenza sanzionatoria del licenziamento illecito, dovuta a vicende imprevedibili come la durata complessiva della causa e il particolare susseguirsi delle decisioni che precedevano quella definitiva, è stato fortemente ridotto dal legislatore del 2012 che ha ritenuto di limitarlo ai licenziamenti la cui illegittimità sia più grave o più evidente.

In questa travagliata vicenda normativa è intervenuta da ultimo la Corte costituzionale (C. cost. n. 194 del 2018) che, con una decisione di notevole rilievo sistematico, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015 prima citato, sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall'art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 87 del 2018 (c.d. decreto dignità, medio tempore intervenuto), convertito, con modificazioni, nella legge n. 96 del 2018, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, con ciò eliminando il meccanismo (previsto dalle due norme suddette) di determinazione automatica dell'indennità da licenziamento illegittimo sulla base di un unico criterio (quello dell'anzianità di servizio) e valorizzando uno spazio importante per la determinazione dell'indennità, da parte del giudice, sulla base di una gamma più articolata di elementi di valutazione.

Le libertà sindacali

Il Titolo II sancisce il vigore di alcune libertà sindacali nei confronti del datore di lavoro. I contenuti della libertà sindacale articolati nel titolo, e, più specificamente, il diritto di associazione e di attività sindacale e il divieto di atti discriminatori, sono il portato della tradizione culturale italiana ed europea continentale e, per il loro carattere fondamentale, non trovano né il limite dimensionale delle piccole unità produttive, né hanno sperimentato ostacoli particolari alla loro applicazione.

In particolare, l'art. 14, nel riconoscere, da un lato, il diritto dei lavoratori di costituire associazioni sindacali e di aderirvi e, dall'altro, quello di svolgere attività sindacale, ribadisce una garanzia di rango costituzionale (art. 39, primo comma, Cost.). A livello di Unione Europea il diritto di ogni persona di fondare sindacati insieme con altri, e di aderirvi per la difesa dei propri interessi, è enunciato dall'art. 12 della Carta europea dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. In realtà, come fu sottolineato da colui che è stato considerato il “padre” dello Statuto (GIUGNI, in FRENI - GIUGNI, Lo statuto dei lavoratori, Milano, 1971) il proprium della disposizione consiste nell'estensione della garanzia costituzionale (che fondamentalmente riguarda il rapporto cittadino - Stato) ad un tipico rapporto interprivato, quale è il rapporto di lavoro e nel riconoscimento che i diritti ivi contenuti sono garantiti all'interno del luogo di lavoro.

Va sottolineato che la norma in questione, che ha come naturali destinatari i prestatori di lavoro subordinato, ha dimostrato nel tempo una notevole forza espansiva. Ad esempio, l'art. 7 legge n. 196 del 1997, con riferimento alla fornitura di lavoro temporaneo, ha previsto che il prestatore di lavoro, per tutta la durata del suo contratto, ha diritto di esercitare presso l'impresa utilizzatrice i diritti di libertà e di attività sindacale nonché di partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici. Analoga previsione è contenuta, con riferimento alla fattispecie della somministrazione, nell'art. 24 del d.lgs. n. 276 del 2003 e nell'art. 36 del d.lgs. n. 81 del 2015, facente parte del c.d. Jobs Act.

Il riconoscimento, operato dallo Statuto, della libertà sindacale trova la più significativa applicazione nel divieto di atti e trattamenti discriminatori contenuto negli art. 15 e 16. In particolare, l'art. 15 costituisce la prima e più ampia affermazione del principio di non discriminazione nel rapporto di lavoro. Nella originaria formulazione della norma il principio era riferito alle discriminazioni per motivi sindacali, alle quali erano assimilate le discriminazioni per motivi religiosi e politici (peraltro di rilievo abbastanza marginale nel contesto italiano). Successivamente la norma si arricchita con l'aggiunta dei divieti di discriminazione per ragioni di sesso, razza e lingua (art. 13 legge n. 903 del 1977). Da ultimo l'art. 4, comma 1, d.lgs. n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE, ha ulteriormente aggiunto, sempre nel secondo comma della disposizione, le ipotesi di discriminazione per handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali. In sede applicativa si è distinto inoltre tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta. La prima è configurabile allorché, per motivi discriminatori, un lavoratore viene trattato meno favorevolmente rispetto ad un altro in una situazione analoga. La seconda sussiste quando una disposizione, un atto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere i lavoratori che si trovino in una delle situazioni tutelate dalla norma, in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri prestatori di lavoro.

Il principio di non discriminazione, come affermato dallo Statuto, che, a livello di attività sindacale ha avuto un alto grado di effettività garantito dal ricorso all'art. 28, ha anche prodotto una progressiva evoluzione nell'orientamento della giurisprudenza, nel senso dell'affermazione che il principio di eguaglianza costituzionale costituisce, se non una norma vincolante nei rapporti interprivati, almeno un principio tendenziale cui anche questi dovrebbero ispirarsi.

La normativa di sostegno dell'attività sindacale

Se è vero che le disposizioni di cui al titolo II dello Statuto costituiscono una articolazione della libertà sindacale nell'àmbito aziendale, il titolo III prevede l'attivazione di ulteriori situazioni finalizzate alla promozione della presenza e dell'attività sindacale nell'impresa e alla realizzazione delle condizioni di una maggiore effettività dell'azione sindacale all'interno dell'organizzazione produttiva.

Va in proposito sottolineato che il modello promozionale adottato dal legislatore dello Statuto non prevede, a differenza di altri modelli europei, alcun sostegno diretto all'attività contrattuale del sindacato maggiormente rappresentativo. In particolare, non è prevista l'attribuzione di efficacia erga omnes alla contrattazione collettiva, non è previsto nemmeno un obbligo legale a trattare in capo ai datori di lavoro e correlativamente non è previsto un diritto a negoziare dei sindacati dei lavoratori. Un atteggiamento, quindi, sostanzialmente “astensionistico” in materia sindacale dettato dalla considerazione che una scelta diversa avrebbe comportato il pressoché inevitabile intervento legislativo anche nel definire gli oggetti, le procedure (se non i contenuti) della contrattazione e quindi avrebbe inciso, più o meno diffusamente, sulla organizzazione del sindacato (cfr. relazione al progetto Brodolini, in appendice a FRENI e GIUGNI, Lo statuto dei lavoratori, Milano, 1971). Deve sottolinearsi che in materia di pubblico impiego il legislatore ha adottato un orientamento affatto diverso avendo ritenuto (cfr. legge n. 93 del 1983, legge quadro sul pubblico impiego) che l'introduzione del metodo contrattuale nel pubblico impiego abbisognasse non solo di una legittimazione del metodo, ma dell'imposizione alla pubblica amministrazione di un vero e proprio obbligo a negoziare con il sindacato maggiormente rappresentativo ed ha pertanto proceduto a definire in modo dettagliato i soggetti, la procedura e il contenuto della contrattazione.

Sotto altro profilo il legislatore dello Statuto ha omesso di intervenire in maniera organica su attività funzionali alla contrattazione collettiva come gli obblighi di informazione e si è completamente astenuto dalla previsione di forme di partecipazione sindacale nell'impresa.

Il cardine della disciplina promozionale dello Statuto è costituito dalla previsione (art. 19) della Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, individuate come i soggetti destinatari della disciplina incentivante. La norma individua tali soggetti facendo riferimento a quelle associazioni sindacali dotate dei requisiti di rappresentatività fissati dalla norma stessa, la quale si trova quindi a rivestire un ruolo centrale nella struttura della legge.

In coerenza con la “filosofia” che caratterizza lo Statuto la norma non definisce il modello organizzativo delle rappresentanze sindacali e riduce al minimo la sua istituzionalizzazione limitandosi a richiedere solo, nella sua formulazione originaria, un collegamento generico con sindacati esterni e, in particolare, con le “confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

In definitiva, in origine, la norma individuava come «cerniera» del sistema il sindacato maggiormente rappresentativo, al quale era attribuita la titolarità di specifici diritti sindacali. La legittimità costituzionale di tale assetto normativo è stata inizialmente confermata dal giudice delle leggi (C. cost. n. 54 del 1974) che ha giustificato la scelta "selettiva" implicita nella promozione del sindacato maggiormente rappresentativo in quanto tale rispetto ad un sistema di piena libertà sindacale. In sostanza, da una parte, la Corte fa leva sull'impianto complessivo dello Statuto, il quale garantisce ad ogni singolo e ad ogni organizzazione gli elementari diritti di libertà sindacale che realizzano ampiamente la garanzia dell'art. 39, comma 1,Cost. e che permettono a qualsiasi aggregazione di lavoratori di svolgere attività sindacale nell'impresa e di costituire rappresentanze fuori dei moduli dell'art. 19 dello Statuto; dall'altro, la Corte rileva come la scelta di riconoscere benefici ulteriori ad organizzazioni ritenute maggiormente rappresentative non realizza alcuna violazione del principio di eguaglianza, in quanto la differenza di trattamento è razionale secondo il criterio, normalmente adottato dalla stessa Corte, di congruenza fra criterio discriminante e sua rilevanza: nel caso specifico in quanto attribuisce tali benefici solo ai soggetti titolari di effettive capacità di rappresentare gli interessi sindacali dei lavoratori.

È interessante notare l'evoluzione che ha subito la norma nel corso del tempo, evoluzione che appare rispecchiare in qualche modo anche il complesso articolarsi nel tempo del ruolo del sindacato.

In esito a referendum in data del 13 giugno 1995, scompare il sindacato maggiormente rappresentativo e la nuova formulazione dell'art. 19 attribuisce il potere di costituire rappresentanze aziendali alle sole associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell'unità produttiva di qualunque livello essi siano, dunque anche di livello aziendale.

La Corte costituzionale è successivamente più volte intervenuta sulla norma, da ultimo con una decisione (C.cost. n. 231 del 2013) che ha modificato radicalmente il proprio precedente orientamento. Essa ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, primo comma, lettera b), Stat. lav. (che era parzialmente sopravvissuto all'esito referendario) nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda. In sostanza, sul presupposto che il criterio della sottoscrizione del contratto collettivo, risultante dall'esito della consultazione referendaria, sia inidoneo rispetto alla sua primigenia funzione di selezionare i soggetti sindacali in ragione della loro rappresentatività, la pronuncia (additiva) della Corte ha introdotto il criterio della verifica della partecipazione del sindacato alle trattative.

Appare peraltro interessante notare che il concetto di sindacato maggiormente rappresentativo, introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 19 ed eliminato dall'esito referendario prima ricordato, non scompare del tutto ma conserva una apprezzabile validità, essendo richiamato da numerose norme che disciplinano diversi istituti del diritto del lavoro. Basterà richiamare, a mero titolo esemplificativo, disposizioni che, ai livelli sovra-aziendali, attribuiscono alle associazioni sindacali più rappresentative la legittimazione a stipulare determinati accordi o contratti collettivi, come ad esempio l'art. 2, comma 1, e 3, comma 3, del decreto legge n. 726 del 1984, convertito con modificazioni dalla legge n. 863 del 1984, in tema, rispettivamente, di contratti di solidarietà e di contratti di formazione e lavoro, l'art. 23 della legge n. 56 del 1987, in tema di ampliamento delle ipotesi in cui è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, l'art. 45 del d.lgs. n. 29 del 1993, in tema di contrattazione collettiva a livello nazionale nel pubblico impiego. Devono essere inoltre ricordate le norme che attribuiscono alle suddette associazioni sindacali particolari diritti di informazione o di consultazione come, ad esempio, l'art. 47 della legge n. 428 del 1990, in tema di procedure concernenti il trasferimento d'azienda e l'art. 4, comma 2, della legge n. 223 del 1991 in tema di procedure per la dichiarazione di mobilità.

Il diritto di assemblea costituisce una delle novità più significative introdotte dallo Statuto in tema di normativa di sostegno all'attività sindacale. Tale diritto, disciplinato dall'art. 20, è azionabile da una iniziativa autonoma delle rappresentanze sindacali aziendali e può essere esercitato, all'interno di un certo limite quantitativo, anche in orario di lavoro, nel qual caso sussiste il diritto alla retribuzione. Funzione dell'istituto è quella di permettere ai lavoratori di prendere parte concreta all'elaborazione ed alla decisione in tema di politiche contrattuali e sindacali. L'aspetto più innovativo è costituito dal fatto che, a differenza di altri mezzi di espressione del pensiero, lo svolgimento dell'assemblea implica la collaborazione del datore di lavoro, nel senso che quest'ultimo deve mettere a disposizione dei lavoratori quanto è necessario affinché l'assemblea possa svolgersi: il locale o lo spazio idoneo, il libero accesso ad esso, l'illuminazione e così via. La norma prevede una serie di temi, materie di interesse sindacale e del lavoro, che possono essere discussi in assemblea ma tale indicazione è stata di fatto interpretata in modo sufficientemente lato per comprendere tutta la vasta gamma degli interessi sindacali. Un effetto indotto ma importante del riconoscimento del diritto di assemblea è stato quello di modificare la tradizionale concezione del luogo di lavoro, come luogo di esclusiva pertinenza del datore.

Una applicazione certamente più ridotta ha invece avuto l'istituto del referendum (art. 21), finalizzato a consentire ai lavoratori, anche se non appartenenti al sindacato, di partecipare alla discussione di problemi sindacali ed alle scelte conseguenti. Si tratta quindi di un istituto almeno potenzialmente idoneo a favorire un collegamento fra sindacato e base, e ad integrare la pratica assembleare, non sempre capace di garantire il concorso della volontà di tutti i lavoratori alle decisioni sindacali. Il referendum, inizialmente utilizzato in maniera assolutamente limitata, ha conosciuto momenti di notevole espansione allorché si è ritenuto di procedere alla consultazione dei lavoratori in occasione delle vertenze, sia nel momento iniziale (l'elaborazione della piattaforma contrattuale), sia nel momento finale (la conclusione dell'accordo).

Repressione della condotta antisindacale

Con l'art. 28 Stat. lav. il legislatore ha introdotto nel sistema delle relazioni industriali a livello di azienda uno strumento, dalle caratteristiche fortemente innovative, destinato a garantire l'effettività del principio della libertà sindacale e dei diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori. Essa è stata salutata in dottrina (PROTO PISANI, Il procedimento di repressione nell'attività sindacale, Milano, 1976) come una invenzione procedurale che fornisce la sola tutela adeguata ad interessi già riconosciuti dalla stessa Costituzione, ma sino ad allora non giustiziabili. La norma ha mantenuto sostanzialmente nel tempo la sua originaria formulazione; deve peraltro registrarsi un ricorso sempre più limitato a tale istituto da parte delle organizzazioni sindacali.

Con l'art. 28 il legislatore, attribuendo l'azione ivi prevista agli organi locali delle associazioni sindacali nazionali, ha elevato a dignità di diritti soggettivi l'interesse collettivo dei lavoratori alla libertà ed all'attività sindacale, attuando così i precetti costituzionali che avevano astrattamente proclamato tali diritti. Si tratta di interessi diversi da quelli spettanti ad ogni singolo lavoratore e cioè interessi che trascendono quelli derivanti dal singolo rapporto di lavoro (così Cass. 26 gennaio 1982 n. 515).

L'esperienza applicativa ha dimostrato che, grazie a una formulazione della norma sufficientemente ampia per comprendere qualsiasi organizzazione minimamente diffusa, non sono emerse rilevanti istanze di tutela collettiva non recepite dal sistema. Inoltre, la tecnica di individuazione della fattispecie protetta, tipizzata solo dal punto di vista dei beni protetti (libertà, attività antisindacale e sciopero) e non dei comportamenti ha consentito alla giurisprudenza di reprimere non solo comportamenti contrari agli interessi del sindacato, ma anche atti lesivi dei diritti di singoli individui connessi all'esercizio delle libertà sindacali (cosiddetta plurioffensività della condotta). Ciò grazie anche alle peculiarità del procedimento che si caratterizza non solo per la legittimazione ad agire, attribuita ad un soggetto collettivo portatore dell'interesse sovraindividuale protetto, ma anche per la natura sommaria ed urgente del procedimento e per la particolare efficacia attribuita al provvedimento col quale il giudice ordina la cessazione della condotta antisindacale e la rimozione dei suoi effetti.

Quale ex giudice del lavoro ricordo bene le difficoltà applicative riguardanti la definizione del concetto di antisindacalità dal punto di vista oggettivo, in rapporto agli interessi contrapposti dell'impresa e del sindacato dovendosi distinguere fra comportamenti antisindacali, e come tali illegittimi, e comportamenti pienamente legittimi in quanto meramente antagonistici del datore contro il sindacato e quindi ricompresi nella corretta dialettica fra parti contrapposte. Una linea di confine che poteva essere trovata soltanto cercando di applicare i princìpi dell'ordinamento, ed in particolare i principi costituzionali.

Considerazioni finali

Al termine di questo veloce excursus sulle più interessanti e innovative disposizioni contenute nello Statuto dei lavoratori, alcune brevissime considerazioni si impongono all'esito di una verifica dell'adeguatezza dell'impianto complessivo della legge a distanza di mezzo secolo dalla sua entrata in vigore.

La suddetta verifica non offre risultati univoci ma, come ho cercato di evidenziare nel corso della trattazione che precede, offre una articolata gamma di risultati.

Se da un lato, appare a mio avviso indiscutibile che alcune norme hanno determinato un mutamento definitivo nell'articolarsi dei rapporti fra i soggetti del rapporto di lavoro subordinato, tutelando la dignità e la forza contrattuale del prestatore di lavoro, è tuttavia altrettanto evidente che diversi aspetti della normativa statutaria hanno presentato nel tempo crescenti difficoltà applicative e hanno risentito o risentono attualmente delle mutate condizioni del sistema sociale ed economico, così da manifestare esigenze di adattamenti più o meno accentuati.

Si richiamano, a mero titolo di esempio, le indicazioni già ricordate circa alcune norme del titolo I, come l'art. 4 e l'art. 8, che appaiono obsolete in seguito alle innovazioni introdotte dalle tecnologie soprattutto informatiche; vi sono poi norme che sono state ampiamente modificate per limitare la loro originale rigidità, come l'art. 13, ovvero norme, come quelle contenute nell'art. 18 che sono state radicalmente trasformate o, infine, altre, come l'art. 9, che per inadeguatezza dei sistemi di controllo oltre che per le incertezze dell'azione sindacale, non hanno mai raggiunto l'efficacia auspicata.

Sullo sfondo resta, tuttavia, a mio avviso, un vizio di base dell'impostazione complessiva dello Statuto, costituito dalla mancata promozione della partecipazione dei lavoratori nell'impresa in adesione ad un modello prevalentemente dialettico dei rapporti fra lavoratori e imprenditore. Ciò ha determinato che la contrattazione collettiva, che pure è un metodo di partecipazione, è rimasta, in Italia più che altrove, estranea all'impresa. Come condivisibilmente osservato da Treu (TREU, op. cit.) agli inizi degli anni 90, ma l'osservazione può considerarsi ancora attuale, essa ha avuto carattere essenzialmente rivendicativo e non si è interessata, almeno tendenzialmente, a verificare la compatibilità aziendale né eventuali obiettivi comuni fra le parti, quali ad esempio il miglioramento delle performance qualitativo/quantitative della produzione. Un modello di rapporti, quello promosso dallo Statuto, che si rivela sempre più inadeguato rispetto alle trasformazioni in atto nel tessuto economico sociale e nella composizione socioculturale del lavoro dipendente come del resto emerge chiaramente dai risultati ottenuti attraverso formule partecipative sperimentate con successo in alcuni Paesi europei (mi riferisco, in particolare all'esperienza della Mitbestimmung in Germania).

Sotto altro, ma ancora più rilevante, profilo deve rilevarsi la necessità di porre nuove regole di garanzia, analoghe a quelle che nel 1970 hanno ispirato il legislatore dello Statuto dei lavoratori, a tutela dei prestatori di lavoro che operano nell'ambito dei nuovi lavori; penso a quella variegata costellazione di nuove tipologie di lavori, non sempre inquadrabili nell'ambito del rapporto subordinato, che vanno dagli smart workers ai riders e a tutta l'infinita tipologia di rapporti resi possibili dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e dai nuovi modelli organizzativi che il mondo della produzione e della distribuzione è riuscito o riuscirà in futuro a escogitare.

Ma questo è un altro discorso.

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