Immediatezza della contestazione disciplinare e rispetto del principio di buona fede
16 Maggio 2020
Abstract
La Suprema Corte ha ritenuto correttamente applicato il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, anche riguardato sotto il peculiare profilo della tempestività della contestazione disciplinare, sul rilievo che la Corte territoriale, nel ritenere la ricorrenza nel caso di specie della giusta causa di recesso, ha, da un lato, attribuito rilevanza al dato della piena consapevolezza, da parte del lavoratore, della rilevanza disciplinare delle condotte addebitate, per essere state le stesse poste a base di altro provvedimento disciplinare assunto dalla società a carico del dipendente e, dall'altro, alla necessità di approfondire l'indagine sui comportamenti del lavoratore prima di procedere alla contestazione. Il caso
Con sentenza del 2018, la Corte d'Appello confermava la decisione resa dal Tribunale e rigettava la domanda proposta dal lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro avente ad oggetto la declaratoria dell'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al dipendente per essere state riscontrate a suo carico notevoli anomalie concernenti i rimborsi spese richiesti in occasione delle numerose trasferte impostegli dal suo ruolo aziendale.
La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto sussistere la lesione del vincolo fiduciario idonea a fondare la giusta causa di licenziamento non ravvisandosi, in relazione al meccanismo di controllo delle spese di trasferta adottato dalla società in una logica di contemperamento tra le esigenze immediate di rimborso del personale e le esigenze aziendali di accurata verifica delle richieste di rimborso né la tardività della contestazione né la lesione dell'affidamento del dipendente circa l'irrilevanza disciplinare delle condotte e rilevando, viceversa, queste ultime nel senso di avvalorare il carattere doloso dell'artificiosa predisposizione delle richieste. La questione
Il caso in esame appare particolarmente interessante sotto un duplice profilo: da un lato, consente di riflettere sul principio dell'immediatezza della contestazione di cui all'art. 7 St. Lav., dall'altro permette di analizzare la portata della lesione del vincolo fiduciario idonea a fondare la giusta causa di licenziamento, con particolare riferimento all'applicazione del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto.
Con riferimento al primo profilo, la Suprema Corte ha da tempo affermato che il principio dell'immediatezza della contestazione, di cui all'art. 7, commi 3 e 4, l. n. 300 del 1970, è volto ad assicurare al lavoratore incolpato un diritto di difesa effettivo, in modo da consentirgli di allestire il materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, nel caso di ritardo della contestazione, mira a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – “in relazione al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all'esercizio del relativo potere e l'invalidità della sanzione irrogata” (Cass. n. 16227 del 2013).
In proposito la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il principio di immediatezza della contestazione disciplinare - volto a bilanciare l'interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini, da un lato, ed il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, dall'altro - deve intendersi in senso relativo, essendo dunque, “compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, allorché l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero la complessità della struttura organizzativa dell'impresa sia suscettibile di far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo” (Cass. n. 12337 del 2016).
Sul punto sembra opportuno richiamare ulteriori principi più volte affermati dalla Suprema Corte, secondo i quali l'immediatezza della contestazione, la cui “ratio” riflette l'esigenza dell'osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, va intesa in senso relativo ed obbliga il datore di lavoro a portare a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena gli stessi gli appaiano ragionevolmente sussistenti, non consentendo di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento per giusta causa l'immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro.
Dunque, bisogna tener conto del momento di effettiva conoscenza datoriale dell'inadempimento contestato al dipendente e, se non è consentito dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di avere la assoluta certezza dei fatti, tuttavia, nel momento in cui la contestazione viene elevata, essa deve essere sufficientemente precisa e dettagliata, così da consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente. Ne consegue che il requisito della tempestività va bilanciato con quello della specificità che deve del pari essere rispettato (Cass. n. 16598 del 2019).
Ciò posto, mette conto altresì evidenziare che in tema di licenziamento disciplinare, la violazione del principio di tempestività che si traduca in un ritardo notevole ed ingiustificato della contestazione comporta, per i licenziamenti intimati sotto la vigenza dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, l'applicazione della tutela indennitaria "forte" nella misura prevista dal comma 5 dello stesso art. 18, restando la tutela indennitaria "debole" di cui al comma 6 limitata all'ipotesi di violazione di natura procedurale, cioè di contestazione avvenuta oltre i termini previsti dalla legge o dal contratto collettivo (Cass. sez. un. n. 30985 del 2017; Cass. n. 12231 del 2018).
Per quanto attiene, invece, alla lesione del vincolo fiduciario idonea a fondare la giusta causa di licenziamento, merita osservare che la stessa deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed, in particolare, dell'elemento fiduciario. Ne consegue che il giudice è chiamato a valutare, da una parte, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità del profilo intenzionale; dall'altra, la proporzionalità tra i fatti e la sanzione inflitta, al fine di stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del lavoratore, risulti tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. n. 16598 del 2019).
Al riguardo, preme ricordare che il criterio della diligenza del lavoratore non deve essere commisurato solo al tipo di attività oggetto della prestazione, alle mansioni ed alla qualifica professionale del dipendente, ma deve correlarsi, in una prospettiva più ampia che travalichi i caratteri dell'attività lavorativa in senso stretto, all'interesse dell'impresa (art. 2104 c.c.) e, pertanto, sia alle esigenze di organizzazione della struttura, in cui il rapporto si inserisce, sia all'interesse datoriale al suo corretto funzionamento. Invero, con riferimento all'ambito di applicabilità dell'art. 2105 c.c., mette conto evidenziare il principio di diritto, secondo il quale dal collegamento dell'obbligo di fedeltà "con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto" (Cass. n. 3558 del 2019).
Sul punto, sembra opportuno rilevare come nella giurisprudenza di legittimità sia del tutto consolidato, “il principio, secondo il quale, al fine di stabilire se sussista la giusta causa di licenziamento e se sia stata rispettata la regola (art. 2106 c.c.) della proporzionalità della sanzione, occorre accertare in concreto se - in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, alla posizione che in esso abbia avuto il prestatore d'opera e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava - la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente, risulti idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale, quindi, da esigere l'applicazione di una sanzione non minore di quella massima” (Cass. n. 3558 del 2019). Le soluzioni giuridiche
Nel caso de quo, la Cassazione ritiene infondati i motivi di ricorso, risultando nella specie correttamente applicato il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, anche riguardato sotto il peculiare profilo della tempestività della contestazione disciplinare, per basarsi la pronunzia della Corte territoriale sul dato della piena consapevolezza da parte del dipendente della rilevanza disciplinare delle condotte addebitate, per essere state le stesse poste a base di altro provvedimento disciplinare assunto dalla società a carico del lavoratore e sulla ritenuta plausibilità della necessità di un accertamento, non solo più vasto di quello che avrebbe richiesto l'esecuzione del normale controllo a campione che ha interessato il lavoratore e perciò esteso fino ad un periodo contiguo a quello per il quale era stato adottato il provvedimento disciplinare, ma anche più accurato, fino ad implicare l'assunzione di informazioni presso gli stessi esercizi ove erano state effettuate quelle spese.
Dai suddetti elementi, la Corte territoriale fa discendere la legittimità, anche sotto il profilo della tutela dell'affidamento, del controllo successivo involgente tredici mesi e l'irrilevanza, ai fini del giudizio di tempestività della contestazione, del tempo decorso per lo svolgimento del peculiare tipo di indagine.
In proposito, merita osservare come la giurisprudenza di legittimità abbia da tempo chiarito che la tempestività di una contestazione disciplinare va valutata muovendo non dall'epoca dell'astratta conoscibilità dell'infrazione, bensì dal momento in cui il datore di lavoro ne abbia acquisito in concreto piena conoscenza, a tal fine non bastando meri sospetti (Cass. n. 50 del 2017).
Va inoltre evidenziato che in tema di licenziamento per giusta causa, ove vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, “pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l'esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 c.c.” (Cass. n. 15524 del 2018). Osservazioni
In conclusione, sembra interessante richiamare l'orientamento della Suprema Corte in tema di specificazione della giusta causa di licenziamento in sede interpretativa.
Invero, la giusta causa si sostanzia in una nozione di legge che si inscrive in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (quali la correttezza ex art. 1175 c.c.; l'obbligo di fedeltà, la lealtà, la buona fede ex art. 1375 c.c.; la giusta causa ex art. 2119 c.c.) - “il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che è stata definita la “spirale ermeneutica” (tra fatto e diritto), di essere integrato, colmato, sia sul piano della quaestio facti che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell'interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall'ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresì le circostanze più concludenti e più pertinenti rispetto a quelle regole, a quelle valutazioni, a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilità della tota res (realtà fattuale e regulae iuris), ma da consentire inoltre al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona” (Cass. n. 6985 del 2017).
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