L'interdizione legale un istituto anomalo tra diritto e procedura civile

Roberto Masoni
19 Maggio 2020

Si domanda come vada individuata la competenza del giudice tutelare in presenza di nomina dell'a.d.s. quando il beneficiario si trovi in stato di interdizione legale e quest'ultimo venga trasferito ad un diverso istituto penitenziario, appartenente a diversa circoscrizione di tribunale.
Massima

Laddove il beneficiario della misura si trovi in stato di detenzione in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna, la competenza territoriale spetta al giudice del luogo in cui egli aveva la dimora abituale prima dell'inizio dello stato detentivo. In specie, non può trovare applicazione il criterio legale che individua la residenza nel luogo in cui è posta la sede principale degli interessi e degli affari della persona, dato che tale criterio, implicando il carattere volontario dello stabilimento, postula un elemento soggettivo, la cui sussistenza resta esclusa quando l'interessato, essendo sottoposto a pena detentiva, non possa fissare liberamente la propria dimora.

Il caso

Il g.t. del Tribunale di Parma ha disposto la cessazione dell'amministrazione di sostegno aperta a beneficio di persona detenuta presso la Casa Circondariale di Parma. Il detenuto è stato successivamente trasferito presso la Casa di reclusione di Opera (MI), con trasmissione del fascicolo al Tribunale di Milano, “per competenza”.

L'interdetto legale ha proposto regolamento di competenza assumendo di avere avanzato reclamo avverso il decreto del g.t., senza che la procedura medesima fosse radicata, chiedendo quindi la determinazione del giudice competente a pronunciare sul reclamo.

La Corte Suprema ha accolto il regolamento rimettendo gli atti al g.t. presso il Tribunale di Parma.

La questione

Si domanda come vada individuata la competenza del giudice tutelare in presenza di nomina dell'a.d.s. quando il beneficiario si trovi in stato di interdizione legale e quest'ultimo venga trasferito ad un diverso istituto penitenziario, appartenente a diversa circoscrizione di tribunale.

Le soluzioni giuridiche

Anzitutto, la Corte, in sede di regolamento di competenza, pur in assenza di un provvedimento decisorio pronunziato sul reclamo interposto avverso decreto del g.t., procedura che neppure era stata nè aperta, né su di esso vi era stata pronunzia, lo ritiene ammissibile e nel merito lo accoglie, determinando la competenza del g.t.

Con riguardo poi alla competenza territoriale dell'ufficio tutelare in presenza di un beneficiario detenuto in casa circondariale, la Corte ribadisce il principio, ormai tralaticio, affermato in materia di interdizione legale, secondo cui la competenza è riconosciuta al giudice di ultimo domicilio o residenza, di dimora abituale, dell'internato prima dell'inizio dello stato detentivo.

Osservazioni

I. Competenza territoriale del g.t. e non infrequenti equivoci

Il principio affermato nella pronunzia in rassegna appare tralaticio.

Lo stesso è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza, con riguardo all'individuazione del g.t. competente in materia di interdizione legale (Cass. civ., n. 588/2008; Cass. civ., n. 10373/2013; Cass. civ., n. 1631/2016; Cass. civ., n. 12453/2017).

La pronunzia evidenzia come al riguardo il criterio applicabile sia quello della dimora abituale dell'interdetto legale «prima dell'inizio dello stato detentivo». La giustificazione risiede nel fatto che non può trovare applicazione il criterio volontaristico, che individua la residenza nel luogo ove l'interessato ha posto la sede principale dei suoi affari ed interessi (art. 43 c.c.), che in concreto sarebbe individuabile nel luogo ove trovasi l'istituto di pena ove il condannato attualmente si trovi. In ipotesi di persona sottoposta a misura carceraria esula, evidentemente, ogni riferimento ad un criterio di tipo volontaristico su cui si fonda l'elezione di domicilio.

Il principio, ribadito dalla nomofilachia, va opportunamente evidenziato tenuto conto dei non infrequenti “rimpalli” di fascicolo (ed il caso in epigrafe ne costituisce ulteriore conferma), da un ufficio tutelare ad un altro, che nella prassi si verificano quando l'interdetto legale viene trasferito da una struttura carceraria che lo ospita ad un'altra, collocata in altra circoscrizione di tribunale. Empiricamente, si ritiene che il fascicolo processuale debba spostarsi, in forza di una sorta di ambulatorietà non scritta nelle fonti, allorchè il soggetto che ne è titolare viene tradotto da un istituto ad un altro. Ma questa è un'interpretazione erronea, come precisa la nomofilachia in modo costante.

I non infrequenti misunderstanding in materia sono spiegabili per effetto della sussistenza di fonti normative stratificate, disseminate in diversificate fonti normative; nel codice civile, in quello penale ed in quelli di procedura, e la cui coordinazione, affidata all'interprete, non appare agevole, né di immediata evidenza.

II. Il variegato quadro normativo

Tenuto conto di questa eterogeneità di fonti normative, si tenterà di fornire una ricostruzione dell'istituto tentando il coordinamento delle molteplici disposizioni attinenti.

Ebbene, l'interdizione legale costituisce una pena accessoria, che attinge il condannato all'ergastolo ed il condannato per un delitto non colposo (art. 33, comma 1, c.p.) alla pena della reclusione non inferiore ad anni cinque (art. 32 c.p.).

L'interdizione legale, a differenza dell'interdizione giudiziale che viene pronunziata in presenza di una condizione di grave infermità mentale (art. 414 c.c.) ed in ottica protettiva di un incapace, “consegue di diritto” ed ipso iure alla condanna penale, costituendo «effetto penale di essa» (art. 20 c.p.) e determinando un'incapacità di agire limitata.

L'istituto è anomalo e forse rappresenta «un residuo, un'eco, della morte civile contemplata da passate legislazioni» (Trabucchi), secondo taluno (Bianca) sarebbe «contrario al senso di umanità».

A fronte della pronunzia di condanna per gravi reati, si rende necessaria la nomina di un tutore al condannato in stato di interdizione legale.

L'art. 662, comma 1, c.p.p. stabilisce che: «per l'esecuzione delle pene accessorie, il pubblico ministero, fuori dei casi previsti dagli artt. 32 e 34 c.p., trasmette l'estratto della sentenza di condanna agli organi della polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza e, occorrendo, agli altri organi interessati, indicando le pene accessorie da eseguire. Nei casi previsti dagli articoli 32 e 34 c.p., il pubblico ministero trasmette l'estratto della sentenza al giudice civile competente».

Divenuta irrevocabile la sentenza di condanna, agli effetti dell'esecuzione della pena, e in particolare dell'esecuzione della pena accessoria in oggetto, il p.m. Trasmette l'estratto della relativa sentenza al “giudice civile competente”.

Il giudice civile competente è il giudice tutelare, cui compete la scelta del tutore, e ciò in «applicazione delle norme della legge civile sulla interdizione giudiziale» (art. 32, comma 4, c.p.), ovvero, in particolare l'art. 424 c.c., che, a sua volta, rende applicabili agli interdetti giudiziali le disposizioni dettate per la tutela dei minori e, perciò, gli artt. 343 e ss. c.c.

Per l'individuazione del giudice tutelare territorialmente competente occorre poi riferirsi al criterio indicato dall'art. 343, comma 1, c.c. che richiama l'ufficio giudiziario ove trovasi«la sede principale degli affari e interessi del minore», ovvero la sede giudiziaria del luogo dove il condannato ha il domicilio.

III. Limitata capacità dell'interdetto legale

Diversamente dall'interdetto giudiziale, il quale grazie alla pronunzia della sentenza di interdizione viene privato della capacità di agire (art. 424 c.c.), in materia di interdizione legale, la privazione della capacità di agire del condannato non è totale, dato che l'incapacità appare circoscritta alla «disponibilità e all'amministrazione dei beni» (art. 32, comma 4, c.p.). Un effetto che si verifica in ottica ulteriormente afflittiva per il condannato.

Questo significa, pacificamente, che l'interdetto legale è in grado di compiere e ricevere tutti gli atti che incidono su diritti personali o che non ammettono rappresentanza.

Quindi, l'interdetto può sposarsi, riconoscere un figlio naturale, fare testamento, separarsi e divorziare, esercitare i poteri-doveri che trovano giustificazione all'interno dei rapporti di famiglia. Non anche concludere convenzioni matrimoniali.

L'interdetto legale non può donare, né in via diretta, per l'incapacità di agire che l'attinge (art. 774 c.c.) e neppure in via indiretta, tramite tutore, salvo che per le «liberalità in occasione delle nozze a favore dei discendenti dell'interdetto» (art. 777 c.c.).

Nella sfera patrimoniale l'interdetto legale viene sostituito per il compimento di singoli atti, che gli sono preclusi per effetto dell'incapacità legale, dal tutore nominato dal giudice tutelare.

Si ritiene peraltro che non vi sia spazio per la nomina del tutore provvisorio, mentre esisterebbero le condizioni per la contemporanea nomina di tutore e protutore.

Tuttavia, nell'ottica di garantire al condannato una minima autodeterminazione rispetto agli atti della vita quotidiana, l'interdetto legale risulta titolare di un peculio da lui parzialmente utilizzabile nel corso dell'esecuzione della pena (cd. fondo disponibile)

Dispone l'art. 25 della l. 26 luglio 1975, n. 354: «il peculio dei detenuti e degli internati è costituito dalla parte della remunerazione ad essi riservata ai sensi del precedente articolo, dal danaro posseduto all'atto dell'ingresso in istituto, da quello ricavato dalla vendita degli oggetti di loro proprietà o inviato dalla famiglia e da altri o ricevuto a titolo di premio o di sussidio. Le somme costituite in peculio producono a favore dei titolari interessi legali. Il peculio è tenuto in deposito dalla direzione dell'istituto. Il regolamento deve prevedere le modalità del deposito e stabilire la parte di peculio disponibile dai detenuti e dagli internati per acquisti autorizzati di oggetti personali o invii ai familiari o conviventi, e la parte da consegnare agli stessi all'atto della dimissione dagli istituti».

IV. La competenza territoriale

Con riguardo ai profili processuali sui quali è intervenuta la pronunzia in epigrafe, dispone l'art. 32, comma 4 c.p.: «alla interdizione legale si applicano, per ciò che concerne la disponibilità e l'amministrazione dei beni, nonché la rappresentanza negli atti ad esse relative, le norme della legge civile sulla interdizione giudiziale».

La norma penalistica richiama le disposizioni dettate in tema di interdizione giudiziale, ovvero l'art. 424 c.c.; una disposizione che, a sua volta, richiama le disposizionidettate«sulla tutela dei minori», ovvero gli artt. 343 e ss. c.c.

Da ciò consegue che, come si è già notato, competente alla nomina del tutore dell'interdetto legale è il giudice tutelare presso il tribunale, il quale «soprintende alle tutele e alle curatele» (art. 344, comma 1, c.c.).

Dal punto di vista territoriale, la tutela dell'interdetto legale si apre «presso il tribunale dove è la sede principale degli affari e interessi» del condannato (art. 343, comma 1, c.c.), in adesione all'identico criterio dettato per l'individuazione del domicilio della persona (art. 43, comma 1, c.c.).

Consegue che «la competenza va attribuita al tribunale del luogo in cui è la sede principale degli affari e interessi dell'interdetto legale, da individuarsi nella residenza anagrafica, quale dato presuntivo della collocazione geografica di quei rapporti ed interessi, criterio tuttavia superabile in presenza di prova contraria» (Cass. civ., n. 23107/2015).

Tuttavia, precisa sempre la nomofilachia (anche nella pronunzia in rassegna) che il criterio del domicilio è inapplicabile laddove, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la persona si trovasse ristretta presso una struttura detentiva.

Nella specie, «giudice competente per l'apertura della tutela dell'interdetto legale va individuato in quello del luogo in cui la persona interessata ha la sede principale degli affari od interessi, che coincide, ove l'interessato sia detenuto al momento in cui la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, con quello di abituale dimora nel cui circondario si trova la struttura di detenzione nella quale l'interdetto è ristretto, dovendosi ritenere inapplicabile il criterio del domicilio che presuppone l'elemento soggettivo del volontario stabilimento» (Cass. civ., n. 10373/2013).

Si precisa ancora che «non rileva, ai fini dello spostamento della competenza, che, successivamente all'apertura della tutela e prima della nomina del tutore, l'interessato sia stato trasferito ad altra casa circondariale, operando il principio di cui all'art. 5 c.p.c., senza che possa trovare applicazione l'art. 343, comma 2, c.c., che presuppone la già avvenuta nomina del tutore» (Cass. civ., n. 10373/2013).

In forza del principio di perpetuatio iurisdictionis, ciò significa che, la competenza rimane radicata avendo riguardo allo «stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda», non avendo rilevanza «i successivi mutamenti dello stato medesimo» (art. 5 c.p.c.).

In applicazione del principio, in ipotesi di traduzione dell'interdetto legale in un diverso istituto penitenziario, ciò significa che ciò che rileva, agli effetti della competenza territoriale, è il luogo di dimora abituale del condannato prima della condanna definitiva. Dato che lo stesso rappresenta «lo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda», i cui mutamenti (la nuova collocazione in carcere) non influenzano la competenza territoriale del giudice, che rimane ferma.

Guida all'approfondimento
  • Bianca C.M., Diritto civile La norma giuridica - i soggetti, Milano, 2002, I, II° ed., 261 e ss.;
  • Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, Torno, 2019, XXVII ed., I;
  • Masoni, Il giudice tutelare, Milano, 2018, 297 e ss.;
  • Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2017, 48° ed., 322.

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