Deducibilità dei costi della stabile organizzazione

20 Maggio 2020

Ai sensi dell'art. 7 della Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America, la stabile organizzazione, dal punto di vista fiscale, è un'entità distinta ed autonoma rispetto alla casa madre, i cui redditi, prodotti nel territorio dello Stato, sono assoggettati ad imposta, ai sensi dell'art. 23, comma 1, lett. e), Tuir.
Massima

Ai sensi dell'art. 7 della Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America, la stabile organizzazione, dal punto di vista fiscale, è un'entità distinta ed autonoma rispetto alla casa madre, i cui redditi, prodotti nel territorio dello Stato, sono assoggettati ad imposta, ai sensi dell'art. 23, comma 1, lett. e), Tuir. Quando un'impresa di uno Stato contraente svolge la sua attività nell'altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione, vanno attribuiti a detta stabile organizzazione gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di un'impresa distinta e separata, dovendo quindi porsi dei limiti alla deducibilità dei componenti negativi del reddito della succursale italiana. La stabile organizzazione deve essere dotata di una struttura patrimoniale appropriata per le funzioni che esercita, dovendosi quindi applicare il divieto di dedurre le spese connesse ai finanziamenti interni, ossia quelli che costituiscono mere attribuzioni di risorse proprie della casa madre.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di stabile organizzazione, con particolare riferimento ai criteri di deducibilità dei costi.

Nel caso di specie, una società di diritto statunitensesvolgeva attività bancaria in Italia tramite una sua succursale a Milano, qualificata, ai fini delle imposte sui redditi, come stabile organizzazione, la quale concedeva linee di credito alla propria clientela italiana.

Tale stabile organizzazione aveva impugnato, davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, un avviso di accertamento IRES e IRAP, per l'annualità 2004, emesso sulla base di un processo verbale di constatazione della polizia tributaria, che aveva recuperato a tassazione componenti negativi del reddito di impresa, in quanto correlati a ricavi ed attività esclusivamente riferibili alla casa madre statunitense.

La CTP di Milano aveva accolto il ricorso con pronuncia poi parzialmente riformata dalla CTR, che, in sostanza, aveva ritenuto illegittimo l'avviso solo limitatamente all'irrogazione delle sanzioni, confermandolo nel resto.

I giudici di secondo grado avevano in particolare richiamato il contenuto dell'art. 7, commi 2 e 3, della Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi e le evasioni fiscali, vigente ratione temporis, affermando che:

(a) l'art. 7, comma 3, cit., in tema di deducibilità delle spese attribuibili alle attività svolte dalla stabile organizzazione, è norma specifica che supera le eventuali, diverse disposizioni nazionali in tema di inerenza degli oneri connessi alla produzione di ricavi;

(b) nella specie, la ripresa fiscale riguardava oneri sostenuti dalla Stabile organizzazione, la quale, per esercitare la propria attività creditizia, aveva utilizzato, oltre al proprio patrimonio, anche le risorse finanziarie rese disponibili dalla casa madre dietro corrispettivo;

(c) in tal modo la società aveva sottratto all'erario nazionale, a favore di quello estero, il costo dell'approvvigionamento delle risorse finanziarie eccedenti il fondo di dotazione della stabile organizzazione stessa ed aveva gravato quest'ultima di oneri eccedenti quelli attribuibili all'attività svolta in Italia, ammessi in deduzione, ai sensi del terzo comma, dell'art. 7, della Convenzione, costituiti dagli interessi passivi a carico della filiale milanese e dalle spese connesse alla gestione dei crediti;

(d) l'Amministrazione finanziaria, seguendo un procedimento di calcolo non contestato dal punto di vista algebrico, aveva dunque legittimamente ripreso a tassazione la quota parte delle spese connesse all'attività esercitata dalla stabile organizzazione, utilizzando, come detto, una provvista eccedente il fondo di dotazione, e, in tal modo, aveva eliminato “il duplicato abbattimento di oneri”, conservando solo quello che ragionevolmente derivava dall'attività svolta in Italia.

Le questioni

La banca statunitense ricorreva infine per cassazione, deducendo, per quanto qui di interesse, la violazione e falsa applicazione dell'art. 7, comma 3 della Convenzione, e censurando la sentenza impugnata per avere riconosciuto che l'indeducibilità dei componenti negativi del reddito, emersi a seguito della cessione a terzi di taluni contratti di finanziamento stipulati dalla branch, trovasse il proprio fondamento giuridico nell'art. 7, comma 3, della Convenzione citata, la quale avrebbe prevalso sul diritto tributario interno, senza considerare però, affermava la ricorrente, che detto articolo non era applicabile al caso di specie, in quanto le disposizioni convenzionali non hanno la funzione di introdurre fattispecie o presupposti impositivi ulteriori rispetto a quelli previsti dalle norme tributarie interne degli Stati contraenti, ed intervengono, sempre e soltanto, in favore del contribuente (e mai contro di esso), ove questi ne invochi l'applicazione al fine di limitare il potere impositivo dello Stato contraente.

Con un secondo motivo di impugnazione la società censurava poi la sentenza impugnata per avere il giudice di appello ritenuto legittima l'applicazione, da parte dell'Amministrazione finanziaria, dell'art. 7, comma 3, della Convenzione, senza compiere la necessaria valutazione in merito all'attribuibilità o meno alla filiale milanese dei contestati componenti negativi del reddito dell'impresa bancaria.

E assumeva al riguardo che, trattandosi di oneri correlati a taluni crediti da finanziamento, vantati dalla branch nei confronti della propria clientela italiana, l'applicazione dell'art. 7, comma 3, cit., con la conseguente indeducibilità degli stessi oneri dal reddito imponibile della Stabile organizzazione, sarebbestata possibile solo laddove tali crediti fossero stati, in tutto o in parte, ascrivibili all'attività bancaria svolta dalla casa madre al di fuori del territorio dello Stato (e cioè non per il tramite della propria struttura organizzativa/stabile organizzazione italiana).

La critica concerneva infine anche il percorso motivazionale della sentenza impugnata, la quale, secondo la ricorrente, non manifestava le ragioni per le quali doveva essere negata la riferibilità alla stabile organizzazione dei detti componenti negativi.

In dettaglio, secondo la suddetta linea argomentativa, era del tutto incomprensibile la ragione per la quale gli oneri sostenuti per la cessione di talune attività della succursale milanese (e cioè i contratti di finanziamento da quest'ultima conclusi con i clienti italiani, nell'esercizio della propria attività d'impresa) fossero stati dalla CTR assimilati ai costi«dell'approvvigionamento delle risorse finanziarie eccedenti il fondo di dotazione della stabile organizzazione», per i quali operava l'indeducibilità del reddito della branch in forza della previsione dell'art. 7, comma 3, della Convenzione.

Secondo la ricorrente, del resto, una cosa era il costo dell'approvvigionamento finanziario (interessi e commissioni passive sui finanziamenti ricevuti dalla casa madre americana, la cui deducibilità, tuttavia, non era oggetto di contestazione da parte dell'ufficio), e tutt'altra cosa era invece l'onere derivante dalla «perdita» subita dalla stabile organizzazione all'atto di realizzo delle proprie attività patrimoniali, la cui deducibilità era contestata dall'ufficio, che, nell'avviso di accertamento, facevainfatti riferimento agli oneri di cui alla voce 120 del conto economico delle imprese bancarie, nel quale sono registrate le perdite su crediti da finanziamento.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la S.C., la prima censura era infondata.

Evidenziano infatti i giudici di legittimità che, come già anche affermato recentemente dalla stessa Cassazione (Cass., 19/09/2019, n. 23355), occupandosi della Convenzione tra Italia e il Regno Unito in tema di doppia imposizione (il cui art. 7 ha lo stesso contenuto dell'art. 7 della Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America):

(a) la stabile organizzazione, dal punto di vista fiscale, è un'entità distinta ed autonoma rispetto alla «casa madre», i cui redditi, prodotti nel territorio dello Stato, sono assoggettati ad imposta, ai sensi dell'art. 23, comma 1, lett. e), Tuir;

(b) l'art. 7, § 2, della Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, prevede che quando un'impresa di uno Stato contraente svolge la sua attività nell'altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata, in ciascuno Stato contraente vanno attribuiti a detta stabile organizzazione gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di un'impresa distinta e separata, svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe e in piena indipendenza dall'impresa di cui essa costituisce una stabile organizzazione;

(c) il Commentario OCSE (§ 18.3.), in merito al detto art. 7, ha chiarito che la stabile organizzazione deve essere dotata «di una struttura patrimoniale appropriata sia per l'impresa, sia per le funzioni che esercita. Per tali ragioni, il divieto di dedurre le spese connesse ai finanziamenti interni - ossia quelli che costituiscono mere attribuzioni di risorse proprie della casa madre - dovrebbe continuare ad applicarsi in via generale».

Tanto premesso, nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale si era dunque conformata ai princìpi di diritto sopra enunciati, in particolare laddove aveva affermato che la Convenzione poneva dei limiti alla deducibilità dei componenti negativi del reddito della succursale italiana, intesi sia come interessi passivi che come spese connesse alla gestione del credito (nella specie, perdite su crediti e oneri di commissione per la cessione di contratti di finanziamento).

Il secondo motivo di impugnazione, secondo la Suprema Corte, era invece fondato, nei termini che seguono.

Rileva infatti la Cassazione che, posto che si era in presenza di una doppia censura - violazione di legge e vizio di motivazione -, andava prioritariamente esaminata la seconda doglianza (vizio di motivazione), accolta la quale restava assorbito il primo rilievo critico (violazione di legge).

Esaminando quindi il dedotto vizio di motivazione, la Corte rileva che la CTR non aveva in effetti spiegato, con chiarezza, le ragioni di condivisione dell'azione accertatrice, e cioè sulla base di quali elementi di fatto avesse ritenuto che l'importo, riguardante perdite su crediti e altri oneri connesse alla cessione (ad altri istituti di credito) di contratti di finanziamento, stipulati dalla succursale milanese con i propri clienti italiani, non rilevasse come costo deducibile, ossia come componente negativo del reddito della Stabile organizzazione, assoggettato ad imposizione fiscale in Italia.

Lo sviluppo argomentativo della sentenza, seppure esistente, era dunque lacunoso e carente, in quanto la Commissione Tributaria Regionale non aveva illustrato le ragioni per le quali aveva ritenuto indeducibili i componenti negativi, consistenti (non già negli interessi passivi sui finanziamenti che la filiale milanese aveva ricevuto dalla casa madre statunitense, bensì) nelle perdite su crediti, derivanti dalla cessione dei contratti di finanziamento stipulati dalla branch con i propri clienti italiani.

Osservazioni

Al di là del fatto che la contestazione riguardasse una stabile organizzazione di una società estera e al di là degli specifici profili della Convenzione Italia/Stati Uniti, per come risolta da parte della Corte di Cassazione, la fattispecie, alla fine dei conti, può inquadrarsi nei più generali temi dell'inerenza.

In un caso analogo, del resto, la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, con la sentenza n. 524/1/18 del 13 giugno 2018, aveva affermato che, ai fini della deducibilità del costo, relativo, in quell'occasione, ad una consulenza da parte di una società estera, è necessaria una seria prova, inerente l'effettività e la tipologia concreta delle prestazioni ricevute.

E la prova della deducibilità dei componenti negativi, in generale, spetta al contribuente che intenda giovarsene.

Come infattiriconosciuto dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, nel quadro dei generali principi che governano l'onere della prova (art. 2697 c.c.), in ipotesi di accertamento delle imposte sui redditi, spetta:1) all'Amministrazione finanziaria dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata (fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso rivelatori dell'esistenza di un maggiore imponibile), 2) al contribuente l'onere della prova circa l'esistenza a) dei fatti che danno luogo ad oneri e/o a costi deducibili e b) del requisito dell'inerenza degli stessi all'attività professionale o d'impresa.

La contribuente chiariva dunque, in quel giudizio, quelle che erano le modalità operative e i rapporti economici e commerciali esistenti tra le due società e come il soggetto estero operasse all'estero (anche in quel caso negli USA), occupandosi (anche) di trovare clienti per conto della società italiana, la quale, pertantole aveva riconosciuto commissioni per detta attività, in quanto funzionale a concorrere formare il reddito di impresa.

E questa era anche, in fondo, la linea di valutazione (oneri di competenza della casa madre indebitamente sostenuti dalla stabile organizzazione in Italia) seguita dalla sentenza della CTR oggetto di esame, come visto, “cassata” non per violazione di legge, ma piuttosto per difetto di motivazione, non avendo i giudici spiegato esattamente il filo del loro ragionamento.

Il ragionamento che sembra essere stato seguito dalla CTR nel giudizio oggetto di odierno commento sembrava infatti essere basato sulla considerazione che ai fini della deducibilità dei costi non è sufficiente che l'attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale, o che sia indicato in contabilità, circostanze che hanno un valore meramente indiziario circa l'inerenza, dovendo il contribuente dimostrare che l'operazione da cui deriva la spesa sia inserita nella sua specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore (e non di altri, ancor più se soggetti facenti parte dello stesso Gruppo e con sede all'estero).

Laddove, quindi, tale considerazione dovrebbe anche indurre a valorizzare spese che, anche in prospettive di ampia visione, si rivelino potenzialmente vantaggiose.

Il thema decidendum, nella fattispecie in esame, avrebbe quindi dovuto più correttamente concentrarsi (senza deviare dalle motivazioni dell'accertamento) sul se le perdite su crediti e altri oneri connessi alla cessione (ad altri istituti di credito) di contratti di finanziamento (oggetto di contestazione), stipulati dalla succursale milanese con i propri clienti italiani, fossero giustificati, come componenti negativi del reddito della Stabile organizzazione, in base ai generali principi di inerenza e deducibilità dei costi, laddove, ad esempio, l'antieconomicità dell'operazione poteva eventualmente assumere rilievo quale indizio di non inerenza (cfr., Cass., sentenza n. 19565 del 04.08.2017).

Il contribuente (stabile organizzazione o meno) deve infatti sempre muoversi nei limiti della ragionevolezza e dell'economicità, laddove la Corte di Cassazione ha a tal proposito statuito (cfr., Cass., Sez. V, Sent. n. 9497 dell'11/04/2008), che “rientra nei poteri del Fisco la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d'impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l'Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti”.

Una situazione “antieconomica” può dunque evincersi in tutte quelle ipotesi in cui non solo vi sia un'entità di costi eccessivamente elevata, ma anche laddove i ricavi vengano eccessivamente ridotti, potendo in tali ipotesi gli atti posti in essere dall'imprenditore considerarsi rivelatori di scopi c.d. extraimprenditoriali, con conseguente sottrazione al Fisco di materia imponibile senza alcuna valida motivazione.

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