La disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo del Jobs Act tra limiti costituzionali e vincoli dell'ordinamento eurounitario

Riccardo Maraga
19 Maggio 2020

Il saggio analizza i limiti costituzionali ed in vincoli derivanti dall'ordinamento eurounitario che condizionano il legislatore nazionale nella disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo.
Abstract

Il saggio analizza i limiti costituzionali ed in vincoli derivanti dall'ordinamento eurounitario che condizionano il legislatore nazionale nella disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo.

In particolare, dopo un'analisi generale sui predetti vincoli, ci si sofferma sul sindacato di legittimità costituzionale del Jobs Act e su un recente arresto del CEDS che ha giudicato la normativa di contrasto ai licenziamenti illegittimi introdotta dal Jobs Act in contrasto con l'art. 24 della Carta Sociale Europea.

Disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo e limiti costituzionali

L'approvazione, da parte del legislatore, nel recente passato, di un susseguirsi di riforme volte a modificare la disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo ha portato la dottrina e la giurisprudenza a (tornare ad) interrogarsi sul rapporto (eventualmente presente) tra tale disciplina e i principi costituzionali, sul fronte interno, nonché i vincoli derivanti dall'adesione dell'Italia dall'ordinamento eurounitario, sul fronte esterno.

In altre parole, ci si è chiesti, e il sindacato incidentale di costituzionalità delle leggi ha portato tale quesito al vaglio della stessa Corte costituzionale, se il legislatore sia del tutto libero di modificare la disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo oppure se, al contrario, la necessità di rispettare i precetti costituzionali ed i vincoli derivanti dal diritto dell'Unione Europea circoscriva il potere emendativo del legislatore, dovendosi ritenere sussistente un contenuto minimo della tutela del lavoratore illegittimamente licenziato incomprimibile, pena il mancato rispetto dei vincoli derivanti dalla Costituzione e dal diritto eurounitario.

Il secondo problema che si pone, posto che, come vedremo, a questo primo interrogativo occorre dare una risposta affermativa, è identificare il perimetro di questo contenuto minimo di tutela incomprimibile del lavoratore illegittimamente licenziato. Ci si deve, in definitiva, chiedere qual è il minimo di tutela, in caso di recesso datoriale illegittimo, richiesto dai vincoli ordinamentali derivanti dalla Costituzione e dal diritto eurounitario.

Il tema, in verità, non è nuovo. Ai primi commentatori del testo costituzionale non era sfuggito, infatti, il legame esistente tra il diritto al lavoro ex art. 4, Cost. e la tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.

Come noto, la dottrina che ha commentato l'art. 4 della Carta costituzionale subito dopo l'entrata in vigore della Costituzione stessa si è fatta carico di individuare quali fossero i compiti che la realizzazione del programma di pieno impiego di cui alla norma costituzionale affidava ai pubblici poteri. Sgombrato il campo da interpretazioni massimaliste, volte ad individuare una sorta di diritto soggettivo all'assunzione in capo ai singoli cittadini, la dottrina ha evidenziato che il programma costituzionale richiede la realizzazione di politiche volte a creare un ambiente economico dinamico, suscettibile di soddisfare la domanda di lavoro e di saturare il mercato del lavoro stesso, creando dunque le basi per il pieno impiego.

Accanto alle misure intraprese dallo Stato per incentivare l'ingresso nel sistema produttivo dei soggetti che ne sono esclusi, la dottrina ha evidenziato come meriti un rilievo particolare quella gamma di azioni positive, necessitate dalla direttiva dell'art. 4, Cost., che rispondono alla declinazione del diritto al lavoro come diritto al mantenimento del posto.

Ciò partendo dall'assunto che “se la Costituzione ha assunto come interesse degno di tutela quello di ogni cittadino a ottenere un posto di lavoro o ad ottenerne un altro adeguato, la ratio legis vuole che risulti al tempo stesso protetto altresì l'interesse - in un certo senso, ancor più concreto - di ogni lavoratore a conservare il posto che occupa” (V. Crisafulli, Appunti preliminari sul diritto al lavoro nella Costituzione, RGL, 1951, I, p. 169).

E', dunque, la direttiva di cui all'art. 4, Cost. che ha giustificato il passaggio dal sistema codicistico, che trova espressione nell'art. 2118 c.c, in base al quale entrambe le parti del rapporto di lavoro hanno facoltà di recesso acausale, con il mero rispetto del preavviso, all'introduzione di una facoltà di recesso differenziata tra lavoratore e datore di lavoro, di cui è espressione l'obbligo di motivazione causale del licenziamento introdotto dall'art. 3, l. n. 604 del 1966. La necessità di inverare il programma costituzionale del pieno impiego ha, dunque, legittimato la previsione di uno squilibrio nella facoltà di recesso dal rapporto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore. Squilibrio determinato dal fatto che la normativa di contrasto ai licenziamenti illegittimi determina una piena recedibilità dal rapporto di lavoro per il lavoratore, onerato solo dell'obbligo di rispettare il preavviso contrattuale ex art. 2118 c.c., a fronte di una recedibilità vincolata per il datore di lavoro, chiamato a fornire una giustificazione causale del recesso, e a offrirne la relativa prova in caso di impugnazione giudiziale del licenziamento, nonché a rispettare il requisito della forma scritta dell'atto di recesso, oltre al rispetto del periodo di preavviso.

È quindi proprio al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro, inteso come diritto di chi ha già un impiego a mantenerlo, che è stata introdotta la normativa di contrasto ai licenziamenti illegittimi, volta a “subordinare l'insorgere del potere di licenziamento alla presenza di gravi motivi e disporre procedure che consentano al prestatore di riprendere servizio se quei motivi siano trovati insussistenti” (G. F. Mancini, Art. 4, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Roma-Bologna, 1975, p. 239).

A consacrare lo stretto legame tra diritto al lavoro ex art. 4, Cost. e disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo, confermando le intuizioni della dottrina, è stata la giurisprudenza della Corte costituzionale la quale, chiarito che il diritto al lavoro non possa tradursi come diritto al mantenimento del posto di lavoro, ha evidenziato che “la disciplina dei licenziamenti non si muove su un piano del tutto diverso da quello proprio dell'art. 4” in quanto il rispetto di tale disposizione “esige che il legislatore adegui la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti” (Corte cost. n. 45 del 1965, FI, 1965, I, p. 1118).

Chiarito preliminarmente che la previsione di una disciplina legale volta a sanzionare l'esercizio illegittimo del potere di recesso del datore di lavoro risulta necessaria al fine di attuare il programma costituzionale di cui all'art. 4, Cost., ciò che occorre chiarire è se il rispetto della norma costituzionale e, potremmo dire, più in generale, del programma lavorista della Costituzione (che si esprime non solo nell'art. 4 ma anche nell'art. 1, nell'art. 3, comma 2, nell'art. 35) richieda l'adozione di una particolare tipologia di tutela contro il licenziamento illegittimo piuttosto che di un'altra.

Ciò in quanto, lo scopo di contrastare l'esercizio arbitrario del potere di licenziamento da parte del datore di lavoro può essere astrattamente perseguito con diversi strumenti di sanzione e di dissuasione, come dimostra la compresenza nel nostro ordinamento di diverse tecniche di tutela in caso di licenziamento illegittimo.

La principale differenza tra le varie tecniche di tutela sperimentate nel nostro ordinamento consiste nella conservazione o meno dell'effetto tipico del negozio di recesso, ossia, l'idoneità del licenziamento intimato, benché illegittimo, a determinare l'estinzione del rapporto di lavoro.

Sotto questo profilo, infatti, esiste una evidente differenza tra la tutela indennitaria, la quale postula la salvezza dell'effetto tipico del licenziamento, ossia la cessazione del rapporto di lavoro, obbligando unicamente il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore illegittimamente licenziato una indennità risarcitoria il cui ammontare è determinato dalla legge, e la tutela reintegratoria o ripristinatoria che, invece, determina il travolgimento dell'effetto tipico del recesso datoriale, postulando la ricostituzione ex post del rapporto di lavoro, senza soluzione di continuità, e ripristinando, per l'appunto, il rapporto di lavoro proprio come se l'atto di recesso – tamquam non esset - non fosse mai stato esercitato dal datore di lavoro.

La risposta a questo interrogativo non può prescindere dalla considerazione del fatto che più si rafforza la tutela offerta dall'ordinamento al lavoratore illegittimamente licenziato, più si comprime, sul fronte opposto, il diritto del datore di lavoro di organizzare autonomamente l'impresa di cui è titolare, prerogativa riconosciuta all'imprenditore da una norma di pari rango costituzionale, ossia l'art. 41, Cost. Non possono nutrirsi dubbi sul fatto che la scelta di sottoscrivere o terminare un rapporto di lavoro rappresenti espressione di tale potere organizzativo. Vero è che, in ogni caso, la Costituzione funzionalizza la libertà di iniziativa economica all'utilità sociale, con ciò consentendo eventuali limitazioni del potere di organizzazione dell'imprenditore che dovessero rendersi necessarie per non arrecare danno a tale utilità. Ne deriva, la necessità di individuare il nocciolo duro, costituzionalmente necessario, della disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo all'esito di una operazione giuridica di bilanciamento di interessi, tutti dotati di pari dignità nel quadro pluralista del nostro ordinamento costituzionale.

Il legislatore, almeno sino al 2012, all'esito di detto bilanciamento di contrapposti interessi, ha individuato nella dimensione aziendale del datore di lavoro, e nella conseguente presunta diversità di forza economica dello stesso, la linea di confine tra i due modelli di tutela in caso di licenziamento illegittimo.

Si è, cioè, ritenuto che il punto di equilibrio tra il potere di organizzazione dell'impresa del datore di lavoro ed il diritto a non essere licenziato arbitrariamente del lavoratore consistesse nella tutela ripristinatoria (di cui all'art. 18, l. n. 300 del 1970) nelle aziende più grandi e nella tutela indennitaria nelle aziende minori [di cui all'art. 8, l. n. 604 del 1966).

Tale assetto ha per un lungo periodo, a ben vedere, spostato i termini della questione e allontanato il tema relativo al contenuto della tutela “costituzionalmente necessaria”. Piuttosto che chiedersi se la disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo richiesta dal programma costituzionale debba avere natura reintegratoria o indennitaria, l'attenzione si è concentrata sulla legittimità, con riferimento al principio di eguaglianza ex art. 3, Cost., di una tutela differenziata in base alle dimensioni del datore di lavoro.

La giurisprudenza costituzionale ha mostrato sempre una certa cautela sul punto, riconoscendo che esiste un legame tra i principi espressi dall'art. 4, Cost. e la disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo, ma ribadendo altresì che “L'attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale”. (Corte cost. n. 194 del 1970, MGL, 1970). A corollario di tale impostazione, la Corte costituzionale, difendendo la scelta del legislatore ordinario di diversificare la tutela in base alle dimensioni aziendali del datore di lavoro, “ha più volte […] indicato i motivi razionali che giustificano la diversificazione del regime dei licenziamenti individuali in ragione delle dimensioni dell'impresa, evidenziando che essi vanno ricercati nelle esigenze di funzionalità delle unità produttive, soprattutto ai fini occupazionali, nonché nel diverso grado di fiduciarietà e di tensione psicologica riscontrabile nei rapporti diretti fra dipendente e piccolo imprenditore rispetto alla situazione nella grande impresa” (C. cost. n. 44 del 1996. In senso conforme cfr. sentenze nn. 398 del 1994, 189 e 102 del 1975, 55 del 1974).

La stessa ammissibilità di entrambe le tecniche normative di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo rende evidente che la capacità di realizzazione dei principi di cui all'art. 4, Cost. non è monopolio esclusivo della tutela ripristinatoria. Concetto che, peraltro, la stessa Corte Costituzionale non ha mancato di esplicitare quando, chiamata ad esprimersi circa l'ammissibilità di un referendum avente ad oggetto l'abrogazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ha concluso per l'ammissibilità del referendum in quanto, pur essendo la norma statutaria “indubbiamente manifestazione di quell'indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, che ha portato, nel tempo, ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro, secondo garanzie affidate alla discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi d'attuazione”, secondo la Consulta “è da escludere, tuttavia, che la disposizione che si intende sottoporre a consultazione, per quanto espressiva di esigenze ricollegabili ai menzionati principi costituzionali, concreti l'unico possibile paradigma attuativo dei principi medesimi”.

Secondo la Corte Costituzionale, infatti “l'eventuale abrogazione della c.d. tutela reale avrebbe il solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro, che risulta ricondotta, nelle discipline che attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al criterio di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento. Né, una volta rimosso l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, verrebbe meno ogni tutela in materia di licenziamenti illegittimi, in quanto resterebbe, comunque, operante nell'ordinamento, anche alla luce dei principi desumibili dalla Carta Sociale Europea, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, la cui tendenziale generalità deve essere qui sottolineata” (C. cost. n. 46 del 2000, MGL, 2000, p. 376 ss.).

Sul piano strettamente giuridico, facendo applicazione delle categorie civilistiche, e al di là di valutazioni di ordine ideologico che pure hanno ampiamente condizionato il dibattito sulla disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo, l'idea della assoluta fungibilità della tutela indennitaria e della tutela reale, in caso di licenziamento illegittimo, non è in verità esente da critiche. Si fa riferimento, in particolare, al fatto che nel sistema generale, come esplicitato dall'art. 2058 c.c. e ricavabile dall'art. 24 Cost., la tutela specifica – che nel diritto del lavoro è rappresentata dalla tutela ripristinatoria - costituisce la regola, mentre la tutela per equivalente – che in ambito lavoristico corrisponde alla tutela indennitaria – è l'eccezione.

L'evoluzione recente della materia ha dimostrato che, benché la tutela reale non sia dotata di copertura costituzionale potendosi inverare i principi di cui all'art. 4, Cost. anche con la tutela indennitaria, esiste un contenuto minimo di tutela del lavoratore illegittimamente licenziato “costituzionalmente necessario” (come si vedrà infra) in quanto, al di sotto di esso, la tutela diventa meramente estetica e non dispiega più alcuna forza dissuasiva nei confronti di eventuali abusi della facoltà di recesso da parte del datore di lavoro, finendo dunque per abdicare alla sua funzione.

Disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo e vincoli derivanti dall'ordinamento eurounitario

L'individuazione di un contenuto minimo di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo “costituzionalmente necessario”, non può prescindere anche dall'analisi di eventuali vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'ordinamento eurounitario e, più in generale, ad ordinamenti giuridici sovranazionali. Ciò in quanto, eventuali disposizioni normative sovranazionali aventi ad oggetto la tutela del lavoratore illegittimamente licenziato si pongono come norme interposte ai sensi dell'art. 117 Cost. finendo, dunque, per rappresentare anch'esse dei parametri di valutazione della costituzionalità delle leggi in materia di disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo.

Analizzando la giurisprudenza costituzionale è, infatti, possibile verificare come il sindacato di legittimità costituzionale delle disposizioni normative in materia di licenziamenti non ha scrutinato solo l'eventuale violazione da parte di dette leggi di norme costituzionali ma ha riguardato anche “la prospettata violazione di una serie di disposizioni normative di fonte sovranazionale, interposte ai sensi dell'art. 117, comma 1 Cost., le quali sanciscono, in ragione di graduati schemi regolativi, il diritto del lavoratore a una tutela efficace nei confronti del licenziamento ingiustificato: l'art. 10 Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, l'art. 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE) e l'art. 24 della Carta Sociale Europea (CSE)” (F. Perrone, La forza vincolante delle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali: riflessioni critiche alla luce della decisione CGIL c. Italia dell'11 febbraio 2020 sul Jobs Act sulle tutele crescenti, LDE, 2020, I).

La verifica dei vincoli derivanti dall'ordinamento eurounitario alla facoltà del legislatore di normare la materia delle conseguenze sanzionatorie in caso licenziamento illegittimo deve, in verità, limitarsi all'art. 24 della Carta Sociale Europea.

Ciò per un duplice ordine di ragioni.

In primis, in quanto la Corte Costituzionale ha chiarito l'inidoneità dell'art. 10 della Convenzione OIL a costituire norma interposta ex art. 117, Cost., stante la mancata ratifica da parte dell'Italia della Convenzione OIL dalla quale deriva che tale convenzione non è da ritenersi vincolante, né può integrare il parametro costituzionale evocato, poiché l'art. 117, primo comma, Cost., fa riferimento al rispetto dei «vincoli» derivanti dagli «obblighi internazionali». (C. cost. n. 194 del 2018).

In secondo luogo, con riferimento, all'art. 30 della CDFUE, l'inidoneità di tale norma a costituire norma interposta ai sensi dell'art. 117, Cost. deriva dal fatto che, a norma dell'art. 51 CDFUE, «[l]e disposizioni della presente Carta si applicano […] agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione» (comma 1, primo periodo). Da tale disposizione discende, secondo la giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell'Unione europea, che le disposizioni della CDFUE sono applicabili agli Stati membri «quando agiscono nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione» (cfr. Corte giust. UE, 26 febbraio 2013, causa C-617/10; 26 ottobre 2017, causa C-333/17).

Ne deriva che, come affermato dalla Consulta, «perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna “sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell'Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell'Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell'Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto” (sentenza n. 80 del 2011)» (C. cost. n. 63 del 2016; in senso conforme, sentenza n. 111(2017; ordinanza n. 138/2011). Più in particolare, la norma interna oggetto di scrutinio dovrebbe rientrare nell'ambito di applicazione di una norma del diritto dell'Unione diversa da quelle della CDFUE stessa (Corte giust. UE, 1° dicembre 2016, causa C-395/15; 8 dicembre 2016, causa C-27/16; 16 gennaio 2014, causa C-332/13; 12 luglio 2012, causa C-466/11).

L'art 30 CDFUE non risulta, dunque, parametro interposto di valutazione della legittimità costituzionale delle leggi in materia di licenziamenti illegittimi posto che queste ultime non risultano adottate in attuazione del diritto dell'Unione Europea; né il solo fatto che tali disposizioni normative ricadano in un settore nel quale l'Unione Europea è astrattamente competente ai sensi dell'art. 153, paragrafo 2, lettera d), del TFUE può comportare l'automatica applicabilità della CDFUE, dato il mancato esercizio da parte dell'Unione di tale competenza, nel cui ambito l'Unione non ha adottato nemmeno direttive recanti prescrizioni minime (cfr. Corte giust. UE, 5 febbraio 2015, causa C-117/14; 10 luglio 2014, causa C-198/13; 16 gennaio 2008, causa C-361/07).

Ecco allora che l'unica norma interposta utilizzabile come parametro nel giudizio di costituzionalità delle leggi in materia di conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo è l'art. 24 della Carta Sociale Europea del 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la l. 9 febbraio 1999, n. 30.

Tale disposizione, rubricata “Diritto ad una tutela in caso di licenziamento”, prevede, dal punto di vista sostanziale, che “Per assicurare l'effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s'impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell'impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione” (comma 1) e, dal punto di vista del diritto di difesa, dispone che “A tal fine, le Parti si impegnano a garantire che un lavoratore, il quale ritenga di essere stato oggetto di una misura di licenziamento senza un valido motivo, possa avere un diritto di ricorso contro questa misura davanti ad un organo imparziale”.

L'idoneità di detta disposizione a costituire parametro interposto ex art. 117, Cost. è stata affermata dalla Corte Costituzionale in due recenti arresti (C. cost. nn. 120 del 2018 e 194 del 2018 con note di C. Lazzari, Sulla Carta Sociale Europea quale parametro interposto ai fini dell'art. 117, comma 1, Cost.: note a margine delle sentenze della Corte costituzionale n. 120/2018 e n. 194/2018, Federalismi, 2019; G.E. Polizzi, Le norme della Carta sociale europea come parametro interposto di legittimità costituzionale alla luce delle sentenze Corte costituzionale nn. 120 e 194 del 2018, Federalismi, 2019).

A tale conclusione la Consulta è giunta dopo aver rilevato che la Carta Sociale Europea presenta spiccati elementi di specialità rispetto ai normali accordi internazionali, elementi che la collegano alla CEDU. In particolare, nell'interpretazione del Giudice delle leggi, la Carta Sociale Europea costituisce il “naturale completamento [della CEDU] sul piano sociale poiché, come si legge nel preambolo, gli Stati membri del Consiglio d'Europa hanno voluto estendere la tutela anche ai diritti sociali, ricordando il carattere indivisibile di tutti i diritti dell'uomo”.

Da tali caratteristiche discende la qualificazione della Carta Sociale Europea come fonte internazionale, ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost.

Non essendo, tuttavia, la Carta dotata di efficacia diretta, la sua applicazione non può avvenire immediatamente ad opera del giudice comune ma richiede l'intervento della Corte Costituzionale, cui va prospettata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del primo comma dell'art. 117 Cost., della norma nazionale ritenuta in contrasto con la Carta Sociale Europea.

Se è, dunque, certo che le disposizioni della Carta Sociale Europea possano costituire parametri di verifica della legittimità costituzionale delle leggi in materie di conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo, molto più complessa appare l'individuazione del ruolo che in tale sindacato possano rivestire le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS), istituito dal Protocollo addizionale del 1995, entrato in vigore il 1° luglio 1998, adottate con riferimento ai reclami collettivi presentati dalle parti sociali e dalle organizzazioni non governative ed aventi ad oggetto norme degli Stati contraenti, o delle loro articolazioni territoriali, che si assumono lesive dei diritti sanciti dalla Carta Sociale Europea.

La Corte costituzionale ha, sul punto, evidenziato che le analogie tra Carta Sociale Europea e CEDU riguardano unicamente il carattere di specialità delle relative disposizioni ma non si estendono al ruolo interpretativo svolto dai rispettivi organismi chiamati ad interpretare le relative disposizioni.

In altre parole: se con riferimento alla CEDU la Corte Costituzionale ha potuto affermare che: «le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea” concludendo, dunque, che “la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata» (C. Cost. sentenza n. 348/2007), non si può dire lo stesso per le decisioni del CEDS in quanto “le pronunce del Comitato, pur nella loro autorevolezza, non vincolano i giudici nazionali nella interpretazione della Carta” (C. cost. n. 120 del 2018, cit.).

La Consulta addiviene a tale conclusione confrontando gli impegni che si sono assunte le parti contraenti nella CEDU e nella Carta Sociale Europea. In particolare, nel sistema della Carta Sociale Europea non è dato rivenire una norma di tenore analogo all'art. 46 della CEDU, ove si afferma che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”, con l'effetto di escludere che le decisioni del CEDS possano avere, a differenze di quelle adottate dalla Corte EDU, autorità di res iudicata relativamente allo Stato in causa ed alla controversia decisa.

La disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo introdotta dal Jobs Act

Ricostruito il rapporto esistente tra disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo e parametri costituzionali (sia diretti che interposti ex art. 117, Cost.) occorre chiedersi se le riforme introdotte nel recente passato in materia siano state o meno rispettose del contenuto minimo di tutela “costituzionalmente necessario” che deve caratterizzare la normativa di contrasto al licenziamento illegittimo.

Il Jobs Act (e, nello specifico, uno dei decreti attuativi della riforma, il d.lgs. n. 23 del 2015) in particolare, ha messo in discussione il punto di equilibrio sul quale si era assestato il sistema sino al 2015 e che si fondava sulla dicotomia tra tutela reintegratoria – applicabile nelle aziende di maggiori dimensioni, ovvero dotate del requisito dimensionale di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (l 20 maggio 1970, n. 300) – e tutela obbligatoria o indennitaria – applicabile alle aziende minori, sprovviste del requisito dimensionale di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

È vero che la tutela reintegratoria aveva già subito, ad opera della l. n. 92 del 2012, un indubbio ridimensionamento, ma è parimenti vero che il Jobs Act presenta un effetto molto più dirompente nel quadro regolatorio delle conseguenze sanzionatorie del recesso datoriale illegittimo.

Ciò almeno per due ordini di ragioni.

Innanzitutto il Jobs Act presenta un profilo di possibile contrasto con il principio di eguaglianza di cui all'art. 3, Cost. che la riforma Fornero non aveva invece posto. Ciò in quanto la nuova disciplina in materia di licenziamenti illegittimi si applica solo ai rapporti di lavoro instaurati successivamente all'entrata in vigore del d.lgs. 23 del 2015, introducendo quindi una differenziazione di tutela, anche marcata, fondata solo sul dato temporale dell'assunzione.

In secondo luogo, il Jobs Act sottrae all'area della tutela reintegratoria alcune fattispecie di licenziamento illegittimo per le quali, invece, la precedente riforma Fornero aveva continuato a prevedere tale tutela, seppur nella forma soft della cosiddetta “reintegrazione attenuata”.

Ci si riferisce, in particolare, all'ipotesi del licenziamento disciplinare comminato a fronte di una violazione disciplinare per la quale il contratto collettivo prevede l'applicazione di una sanzione conservativa e all'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che si fondi su un fatto manifestamente infondato.

Oltre alla ulteriore erosione dell'area della tutela reintegratoria ed alla previsione della tutela indennitaria come regola generalmente applicabile in caso di declaratoria giudiziale della illegittimità del licenziamento, il Jobs Act, nella sua versione originaria, introduceva anche un meccanismo fisso e crescente di quantificazione dell'indennizzo spettante al lavoratore basato sul solo criterio dell'anzianità aziendale, esautorando del tutto il Giudice nella quantificazione dell'indennizzo, chiamato ad effettuare una mera operazione di calcolo aritmetico, senza aver la possibilità di personalizzare il risarcimento sulla base di altri criteri di quantificazione pur presenti nelle precedenti normative relative al licenziamento illegittimo.

La creazione di un sistema di tutela duale, nel quale il mero dato della data di assunzione determina l'accesso ad una tutela fortemente differenziata in caso di licenziamento illegittimo, e la netta virata verso una forma di tutela meramente economica, con il sistema del risarcimento fisso e crescente in base all'anzianità aziendale, ha condotto sin da subito parte della dottrina ad individuare nelle norme del Jobs Act una “offesa a quei principi Costituzionali” che sarebbe determinata “da una tutela che, anche ove possa legittimamente esaurirsi tutta dentro una logica puramente monetaria, è del tutto inidonea a garantire, non si dice una efficacia sanzionatoria e dissuasiva nei confronti del recesso datoriale illegittimo, ma almeno una minima effettività risarcitoria” (S. Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT, 246/2015).

La tecnica normativa seguita dal legislatore del Jobs Act e, in particolare, la realizzazione del sistema di tutela duale e la predeterminazione fissa e crescente dell'indennizzo, ha indubbiamente posto alla dottrina maggiori ed ulteriori interrogativi sulla frizione con i principi costituzionali rispetto alla precedente riforma dell'art. 18 operata dalla l. n. 92 del 2012. La riforma Fornero, infatti, introduceva l'idea di una differenziazione delle tutele ottenibili dal lavoratore licenziato, fondata sul diverso “disvalore attribuibile in misura assai diversa ai comportamenti del datore di lavoro – tra loro anche molto variegati – che violano le norme poste a tutela del licenziamento”. Alla base della differenziazione delle tutele, dunque, veniva posto “Un disvalore che ben può incidere sul tipo di sanzione applicabile, con l'effetto di modulare la reazione del legislatore tenendo conto dell'offesa arrecata, secondo un indirizzo metodologico saldamente ancorato ai principi generali dell'ordinamento giuridico” (così A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all'art. 18 Statuto dei Lavoratori, in Risistemare il diritto del lavoro, Liber amicorum Marcello Pedrazzoli, Milano, 2012, p. 875 ss.).

Le modifiche apportate alla disciplina originaria dal Decreto Dignità e dalla sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale

I profili di frizione tra la disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo introdotta dal Jobs Act e le norme costituzionali non sono stati, di certo, oggetto di dibattitto unicamente nella comunità scientifica ma, come sempre accade in questa materia, hanno alimentato ampiamente anche il dibattito politico. Non stupisce, dunque, che, venuta meno la maggioranza parlamentare che aveva varato tale riforma, il successivo esecutivo, con lo strumento della decretazione d'urgenza, abbia modificato tale disciplina.

Nonostante l'enfasi contenuta nel titolo dato al decreto (Decreto Dignità, d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito dalla l. 9 agosto 2018, n. 96), in verità, le modifiche introdotte sono apparse sin da subito di scarso rilievo e, soprattutto, non hanno messo in discussione l'impostazione generale della nuova disciplina sanzionatoria in caso di recesso datoriale illegittimo.

Il Decreto Dignità, infatti, non ha messo in discussione né la sussistenza di un sistema duale di tutela basato sul solo dato cronologico della data di assunzione, né ha modificato l'ancoraggio dell'indennizzo fisso e crescente al solo dato dell'anzianità aziendale.

L'unica modifica introdotta ha riguardato gli importi minimo e massimo liquidabili al lavoratore illegittimamente licenziato che, per effetto del d.l. Dignità, sono quantificati in una forbice tra 6 e 36 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, (rispetto all'originaria previsione che prevedeva una forbice tra 4 e 24 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto).

Resta inteso che, non essendo venuto meno il criterio per cui l'indennizzo liquidabile è pari a due mensilità per ogni anno di servizio, l'unico effetto tangibile prodotto nell'immediato dal Decreto Dignità era rappresentato dall'innalzamento della misura minima dell'indennizzo, che passava da 4 a 6 mensilità. La modifica del valore massimo dell'indennizzo, passato da 24 a 36 mensilità, era infatti destinata a produrre effetti solo con riferimento a lavoratori subordinati aventi oltre 12 anni di anzianità di servizio; fattispecie che, essendo la normativa stata introdotta nel 2015, non poteva materialmente verificarsi nell'immediato.

Ben più profondo è stato, invece, l'effetto prodotto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 sulla disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo di cui al d.lgs. n. 23 del 2015.

Tale decisione, che può essere definita di illegittimità parziale testuale, avendo emendato l'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, ritenuto non conforme alla Costituzione, attraverso una riduzione del testo della disposizione dalla quale sono state espunte le parole riportate nel dispositivo, ha prodotto l'effetto di espungere dall'ordinamento sia il criterio, fisso e crescente, di determinazione dell'indennità liquidabile al lavoratore illegittimamente licenziato, correlata dal legislatore alla sola anzianità di servizio del lavoratore, sia la nozione di retribuzione, ossia quella che costituisce base di calcolo del Tfr, da assumere come riferimento per il computo dell'indennità (Cfr. A. Maresca, Licenziamento ingiustificato e indennizzo del lavoratore dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 - (alla ricerca della norma che non c'è), DRI, 2019, I, p. 228).

L'esame delle motivazioni che hanno indotto la Consulta a dichiarare incostituzionale il meccanismo di liquidazione dell'indennizzo spettante al lavoratore illegittimamente licenziato conduce all'individuazione di quel minimo di tutela “costituzionalmente necessario” al di sotto del quale la normativa contro i licenziamenti illegittimi finisce per contrastare con i principi costituzionali e con le norme sovranazionali interposte ex art. 117, Cost.

Pur costituendo, secondo parte della dottrina, un vulnus nei confronti del principio di eguaglianza, la Consulta non considera violativo di tale principio il fatto che il Jobs Act introduca una tutela duale, differenziata in base al dato cronologico dell'assunzione del dipendente. Ciò in quanto, ad avviso della Corte, “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” (Cfr. C. cost. ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 del 2008 e n. 77 del 2008) Nel caso di specie, peraltro, la differenziazione di tutela sarebbe assistita dal «canone di ragionevolezza» in quanto disposta allo scopo, dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell'art. 1, comma 7, della l. n. 183 del 2014).

Il profilo di irragionevolezza della tutela introdotta dal d.lgs. n. 23 del 2015 viene, invece, ravvisato nella determinazione di un'indennità in un importo rigido e forfetizzato, “pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrastante anzitutto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse.

La disciplina scrutinata dalla Consulta, nel prestabilire interamente il quantum dell'indennizzo in relazione all'unico parametro dell'anzianità di servizio, connota l'indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità con ciò contrastando con un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, e, cioè, con il fatto che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori, di cui l'anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è solo uno dei tanti.

Sono, dunque, i caratteri di rigidità della tutela indennitaria e la sottrazione di qualsiasi discrezionalità in capo al giudice ad aver condotto la Corte alla declaratoria di incostituzionalità della norma censurata, incapace di soddisfare quella esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore imposta dal principio di eguaglianza.

La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell'esperienza concreta – diverse.

Inoltre, secondo la Consulta, la norma censurata viola anche gli artt. 4 e 35, Cost. in quanto l'inadeguatezza dell'indennità forfetizzata stabilita dal Jobs Act rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato è suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall'intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l'equilibrio degli obblighi assunti nel contratto.

La disciplina sanzionatoria in caso di recesso datoriale illegittimo introdotta dal Jobs Act è stata considerata lesiva anche dell'art. 117, Cost. per contrasto nei confronti di una norma interposta, ossia, l'art. 24 della Carta Sociale Europea.

Non può sfuggire che, nonostante la inidoneità delle decisioni del CEDS a costituire parametro interposto ex art. 117, Cost., non essendosi le parti stipulanti la Carta Sociale Europea vincolate agli arresti interpretativi del CEDS, la Consulta introduce, in ogni caso, una decisione del Comitato nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015 per violazione dell'art. 24 CSE. Ci si riferisce al richiamo al reclamo collettivo n. 106/2014, proposto al CEDS dalla Finnish Society of Social Rights contro la Finlandia. Nel predetto reclamo, il Comitato europeo dei diritti sociali ha chiarito che l'indennizzo è congruo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.

Ebbene, la Corte costituzionale, pur ribadendo che le decisioni del CEDS non vincolano i giudizi nazionali, ne riconosce l'autorevolezza e, di fatto, l'utilizzabilità come parametro interpretativo delle norme della CSE, utilizzabile anche nel sindacato di costituzionalità delle leggi.

L'intervento della Corte Costituzionale muta profondamente la disciplina sanzionatoria prevista dal Jobs Act in caso di licenziamento illegittimo lasciando, peraltro, aperti numerosi problemi applicativi che non potranno che essere risolti, in sede giurisdizionale, dai giudici ai quali la norma, con un capovolgimento di prospettiva a 360 gradi rispetto alla sua originaria formulazione, finisce per conferire una discrezionalità dai confini vertiginosi nella determinazione dell'indennizzo liquidabile al lavoratore illegittimamente licenziato.

Ciò in quanto, non solo viene meno il criterio fisso e crescente di ancoraggio dell'indennizzo all'anzianità aziendale, ma il testo amputato dall'intervento della Consulta non prevede alcun criterio da seguire nella definizione dell'indennizzo, essendo i criteri di cui all'art. 8, l. n. 604 del 1966 e di cui all'art. 18, l. n. 300 del 1970 stati richiamati dalla Consulta solo in motivazione ma non nel dispositivo della decisione. Parimenti espunto risulta anche il criterio di individuazione della mensilità retributiva cui ancorare l'indennizzo.

Il reclamo collettivo n. 158 del 2017: Jobs Act e Carta Sociale Europea

Sulla conformità del regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo introdotto dal Jobs Act con l'art. 24 della Carta Sociale Europea è stato chiamato a pronunciarsi il CEDS con Reclamo collettivo n. 158/2017 - Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) contro Italia.

Nel corso del procedimento, gli atti relativi al reclamo sono stati integrati dando evidenza delle modifiche introdotte al d.lgs. n. 3 del 2015 dal Decreto Dignità e dalla sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale.

In particolare, la CGIL ha adito il CEDS al fine di vedere dichiarato che le disposizioni contenute negli articoli 3, 4, 9 e 10 del d.lgs. n. 23 del 4 marzo del 2015 sono contrarie all'articolo 24 (diritto ad una tutela in caso di licenziamento) della Carta, in quanto prevedono, in caso di licenziamento illegittimo nel settore privato, un'indennità risarcitoria il cui ammontare è limitato dal plafond, il che esclude al giudice ogni possibilità di valutare e di riconoscere l'eventuale danno supplementare subito dal lavoratore a seguito del licenziamento.

Il CEDS, confermando il proprio orientamento espresso nella decisione Finnish Society of Social Rights contro Finlandia, reclamo n. 106 del 2014, ha ribadito che, ai sensi della Carta Sociale Europea, i lavoratori licenziati senza un valido motivo devono ottenere un indennizzo o un altro risarcimento adeguato. I meccanismi indennitari sono ritenuti conformi alla Carta quando prevedono: (i) il rimborso delle perdite finanziarie subite tra la data del licenziamento e la decisione dell'organo del ricorso; (ii) la possibilità di reintegro del lavoratore e/o (iii) indennità di un importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito dalla vittima.

Partendo da questa premessa sistematica, il Comitato rileva che nel quadro regolatorio previsto dal Jobs Act in caso di licenziamento illegittimo, fatta eccezione per le ipotesi di licenziamento nullo, ritorsivo o discriminatorio, nonché per i licenziamenti disciplinari in cui si dimostri in giudizio la manifesta insussistenza del fatto contestato, la sanzione applicata dall'ordinamento in caso di recesso datoriale illegittimo, oltre a non consentire la reintegrazione nel posto di lavoro, si sostanzia in un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, poiché l'importo è limitato, a seconda dei casi, dal plafond di 6, 12, 24 o 36 mensilità di riferimento.

Riproponendo un concetto simile a quello enunciato dalla Consulta nella decisione n. 194 del 2018, il Comitato ricorda che qualsiasi tetto massimo che svincola le indennità riconosciute al lavoratore illegittimamente licenziato dal danno subito e che non presenti un carattere sufficientemente dissuasivo, è, in linea di principio, contrario alla Carta. Non può sfuggire una certa sintonia tra tale argomentazione e il principio, enunciato da C. cost. n. 194 del 2018, secondo cui il danno subito dal lavoratore a causa dell'illegittimo recesso datoriale debba essere personalizzato, essendo l'afflittività del licenziamento illegittimo diversa caso per caso. Da tali argomentazioni il CEDS conclude che il sistema di repressione del licenziamento illegittimo introdotto dal Jobs Act, anche alla luce delle innovazioni prodotte dalla Corte Costituzionale, non presenta un vero carattere dissuasivo del licenziamento illegittimo, con ciò violando l'art. 24 della Carta Sociale Europea.

Gli scenari futuri: verso lo smantellamento del Jobs Act?

Il quadro descritto evidenzia come, nel prossimo futuro, è dato attendersi, in assenza di un complessivo riordino della materia da parte del legislatore, ulteriori pronunce che potrebbero scalfire anche altre disposizioni del d.lgs. n. 23 del 2015.

D'altronde, tale approdo è inevitabile in quanto la facoltà emendativa della norma censurata da parte della Corte costituzionale è strettamente circoscritta ai profili di contrasto con la Costituzione evidenziati nell'ordinanza di rimessione.

In verità, i principi espressi dalla Consulta con riferimento alla illegittimità del criterio fisso e crescente di determinazione dell'indennizzo spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, legato al solo criterio dell'anzianità di servizio, potrebbero condurre alla declaratoria di incostituzionalità di altre disposizioni del d.lgs. n. 23 del 2015 nelle quali, non essendo le stesse state scrutinate dalla Consulta, continua ad essere utilizzato il predetto criterio fisso e crescente di determinazione dell'indennità, inidoneo a determinare una tutela personalizzata in caso di recesso datoriale illegittimo.

Ci si riferisce, in particolare, all'art. 4, relativo all'illegittimità del licenziamento determinato da vizi procedurali e formali, all'art. 6, relativo alla quantificazione della cosiddetta “offerta di conciliazione”, all'art. 9, relativo alle aziende sprovviste dei requisiti dimensionali di cui all'art. 18, Stat. Lav. e all'art. 10, che disciplina le conseguenze sanzionatorie in caso di illegittimità del licenziamento collettivo.

Non stupisce, dunque, che nel corso del 2019, il Tribunale di Milano e la Corte di appello di Napoli, abbiano sollevato, con tre distinte ordinanze, dei rinvii pregiudiziali (alla Corte giust. UE e alla Corte costituzionale) che attengono alla questione della portata dissuasiva delle sanzioni introdotte dall'art. 10, d.lgs. n. 23 del 2015 nell'ipotesi di violazione dei criteri di scelta nell'ambito di un licenziamento collettivo (cfr. R. Cosio, Le ordinanze di Milano e Napoli sul jobs act. Il problema della doppia pregiudizialità, LDE, 2019). Né pare difficile immaginare che anche il regime applicabile alle piccole aziende finisca ben presto al vaglio della Consulta (cfr. P. Passalacqua, La tutela contro il licenziamento nelle piccole imprese dopo Corte cost. n. 194/2018 tra ius conditum e ius condendum, MGL, 2019, 4).

Il tema di fondo che si pone è, quindi, capire che ruolo potrebbe giocare la decisione del CEDS sul Jobs Act in eventuali ulteriori giudizi di costituzionalità sollevati innanzi alla Corte Costituzionale.

Sotto questo profilo, non può sfuggire che la Corte costituzionale, pur avendo escluso il carattere vincolante delle decisioni del CEDS, ne abbia riconosciuto il carattere autorevole ed abbia, di fatto, mutuato l'interpretazione dell'art. 24 della Carta Sociale Europa fatta propria dal CEDS nel contenzioso Finnish Society of Social Rights contro Finlandia, reclamo n° 106/2014, al fine di verificare se l'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015 prevedesse una tutela adeguatamente dissuasiva in caso di licenziamento illegittimo. D'altronde, il contenuto letterale dell'art. 24 della Carta Sociale Europea risulta di per sé scarsamente utilizzabile come parametro di valutazione della legge, senza un inevitabile supporto interpretativo. La norma, infatti, fa riferimento al diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione. Pare francamente difficile declinare i concetti di congruità e di adeguatezza senza fare ricorso ai percorsi interpretativi seguiti dall'organismo che è chiamato a vigilare sul rispetto della Carta stessa da parte dei contraenti.

In conclusione

La disciplina legale in caso di licenziamento illegittimo appare condizionata da vincoli ordinamentali interni ed esterni che finiscono per ridurre i margini entro i quali il legislatore è chiamato a muoversi. In particolare, i principi costituzionali che esprimo la natura lavorista della Carta costituzionale e l'art. 24 della Carta Sociale Europea costituiscono i parametri, interni ed interposti, di valutazione della legittimità costituzionale delle leggi in materia di contrasto ai licenziamenti illegittimi.

Gli arresti della Corte costituzionale in materia consentono di individuare un contenuto minimo di tutela incomprimibile da parte del legislatore, pena la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma.

Il perimetro di questo contenuto minimo, tuttavia, può risultare sensibilmente modificato qualora il Giudice delle leggi desse piena cittadinanza, nel sindacato di costituzionalità della norma, alle decisioni del CEDS che, allo stato, sono state ritenute autorevoli ma non vincolanti per il giudice nazionale.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario