Licenziamento collettivo, tra responsabilità dello Stato e onere della prova

25 Maggio 2020

In materia di licenziamento collettivo, profilandosi il danno in termini di perdita da chances, il lavoratore deve assolvere ad un preciso onere probatorio, sia pure in modo presuntivo e sulla base di un calcolo delle probabilità, circa la reale possibilità che avrebbe avuto di conseguire i vantaggi derivanti dall'assoggettamento a un procedimento “selettivo” di licenziamento collettivo o, addirittura, di non essere ricompreso nel novero dei soggetti da licenziare, per la posizione acquisita all'interno dell'impresa a confronto di altri lavoratori.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8889, depositata il 13 maggio 2020.

Licenziamenti collettivi: per il diritto europeo i datori di lavoro “pari sono”. La pronuncia in commento trae origine da un precedente giudizio promosso dal medesimo ricorrente al fine di far accertare dal giudice del lavoro l'illegittimità del licenziamento intimato nei suoi confronti, insieme ad altri 24 dipendenti, dall'associazione di categoria per la quale lavorava: in quella occasione, il ricorrente aveva sostenuto che dovesse trovare applicazione la procedura di licenziamento collettivo, secondo quanto indicato dalla direttiva 75/129/CE, all'epoca non recepita nell'ordinamento italiano. La sua domanda era stata respinta dal giudice del lavoro sull'assunto che la normativa sul licenziamento collettivo non potesse riguardare una società senza scopo di lucro – come nella fattispecie – nonostante fosse già intervenuta la pronuncia della Corte di Giustizia che, nel caso C-32/02, aveva già statuito che la legge italiana n. 223/1991 conteneva una distinzione inaccettabile tra il licenziamento operato da un datore di lavoro organizzato in forma di impresa e quello intimato da un datore di lavoro non imprenditore. Pertanto, esaurito ogni grado di giudizio, il lavoratore adiva il tribunale ordinario per far accertare la responsabilità dello Stato italiano conseguente alla mancata trasposizione della direttiva in questione e per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni. Sennonché, i giudici di merito respingevano la domanda risarcitoria, non avendo il ricorrente provato gli elementi idonei a far ritenere che la corretta trasposizione della direttiva avrebbe impedito il licenziamento.

Lo Stato non recepisce una direttiva europea: è responsabilità contrattuale. La pronuncia in commento ricorda che, in generale, ove lo Stato non adempia agli obblighi di agire o di mettere in esecuzione la normativa europea, ledendo le posizioni soggettive altrui nel frattempo maturate, si configura una responsabilità contrattuale per violazione di un obbligo ex lege. Ed, infatti, in caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia della UE, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni va sempre ricondotto - anche a prescindere dall'esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria - allo schema della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell'ordinamento comunitario, ma non anche alla stregua dell'ordinamento interno (Cass. Civ., n. 9147/2009). Ne consegue che il relativo risarcimento, pur avendo natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall'ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un'idonea compensazione della perdita subita in ragione del danno oggettivamente apprezzabile. La pretesa risarcitoria nei confronti dello Stato, sul piano dell'ordinamento interno, si pone in termini di violazione di un'obbligazione prevista ex lege ex art. 1173 c.c., soggetta alle regole di risarcibilità del danno derivante da un'obbligazione inadempiuta, ai sensi dell'art. 1223 c.c. (cfr., ad es., Cass. Civ., 16321/2018).

Responsabilità dello Stato “inadempiente”: il danno va provato. Tanto chiarito, la Suprema Corte ritiene corretta la decisione di merito nella parte in cui ha affermato che, profilandosi il danno preteso in termini di perdita di chance, il ricorrente avrebbe dovuto assolvere ad un preciso onere probatorio, sia pure in modo presuntivo e sulla base di un calcolo delle probabilità, circa la reale possibilità che il lavoratore avrebbe avuto di conseguire i vantaggi derivanti dall'assoggettamento a un procedimento “selettivo” e gradato di licenziamento collettivo o, addirittura, di non essere ricompreso nel novero dei soggetti da licenziare, per la posizione acquisita all'interno dell'impresa a confronto di altri lavoratori.

Perdita da chance: cosa deve provare il lavoratore? Nella fattispecie, trova, quindi, applicazione il principio secondo cui il lavoratore che lamenti la violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di osservare la par condicio e chieda il risarcimento dei danni derivanti dalla perdita di chance, deve fornire gli elementi atti a dimostrare, seppure in modo presuntivo, e sulla base di un calcolo delle probabilità, la possibilità che egli avrebbe avuto di conseguire il risultato utile (cfr. Cass. Civ., n. 495/2016). I Giudici di merito hanno ritenuto che il ricorrente non avesse allegato, prima ancora che provato, elementi idonei a ritenere, anche presuntivamente, che la corretta trasposizione della direttiva avrebbe impedito in concreto il licenziamento e determinato la definitiva reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore. Il ricorso del lavoratore, pertanto, viene respinto.

(FONTE: dirittoegiustizia.it)

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