Prime riflessioni sull'applicazione del criterio della “prevalenza quantitativa attenuata” nel concordato “misto” alla luce della disciplina del c.c.i.

25 Maggio 2020

La teoria che vorrebbe applicare le riflessioni sul contratto misto al concordato misto e che, quindi, vorrebbe vedere integrate o combinate le discipline dettate, rispettivamente, per il concordato liquidatorio e per il concordato in continuità, si scontra con il rilievo per cui tali discipline non sono in realtà compatibili, non fosse altro che per la diversa percentuale di soddisfacimento dei creditori prevista nelle due ipotesi.
Massima

La teoria che vorrebbe applicare le riflessioni sul contratto misto al concordato misto e che, quindi, vorrebbe vedere integrate o combinate le discipline dettate, rispettivamente, per il concordato liquidatorio e per il concordato in continuità, si scontra con il rilievo per cui tali discipline non sono in realtà compatibili, non fosse altro che per la diversa percentuale di soddisfacimento dei creditori prevista nelle due ipotesi.

In materia di concordato preventivo, fermo restando che quando i flussi di cassa generati dalla continuità siano prevalenti rispetto ai controvalori della liquidazione degli assets non strategici vi è, per definizione, una continuità, potrebbe pure trattarsi di continuità allorquando vi possa essere un “soddisfacimento” diverso da quello monetario se tale soddisfacimento, complessivamente inteso, abbia un valore maggiore di quanto ricavato dalla liquidazione degli altri beni.

Al fine di stabilire la disciplina applicabile al concordato “misto”, il Codice della crisi ha adottato un criterio di prevalenza che potrebbe definirsi “quantitativa attenuata”, che se concentra, da una parte, il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazione o ricavi della continuità) dovendo sempre “i ricavi attesi” essere superiori ai valori della liquidazione, dall'altra parte, amplia l'area semantica del “ricavato prodotto dalla continuità”, facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro.

Il caso

Con il provvedimento in esame, il Tribunale di Milano, nell'accogliere la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo presentata da una società, ha qualificato il concordato proposto, il quale prevedeva che i flussi destinati al soddisfacimento dei creditori derivassero, dal punto di vista quantitativo, prevalentemente dalla liquidazione dei beni della società e dall'incasso dei relativi crediti, mentre solo una somma esigua sarebbe derivata dalla prosecuzione dell'attività d'impresa, come misto in continuità indiretta, con conseguente applicabilità a tutti gli effetti della disciplina in materia di concordato in continuità aziendale, valorizzando le prospettive di soddisfacimento dei creditori mediante utilità diverse dal pagamento in denaro, quali, in primis, la prosecuzione dei rapporti contrattuali in essere e in particolare dei contratti di lavoro.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Nella pronuncia in commento il Tribunale di Milano ha affrontato la questione della disciplina applicabile al cd. concordato misto, adottando quale criterio interpretativo la disciplina (ancorché non ancora vigente) dettata dall'art. 84, comma 3, del Codice della crisi e dell'insolvenza, il quale, secondo il giudice meneghino, sancirebbe il criterio della cd. “prevalenza quantitativa attenuata”, vale a dire della prevalenza del ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta rispetto a quello derivante dalla liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, o viceversa, ma con il “correttivo” dell'inclusione, nella nozione di “ricavo prodotto dalla continuità”, anche di utilità diverse dal soddisfacimento monetario, purché specificamente individuate ed economicamente valutabili, quali, secondo quanto previsto dall'ultimo periodo della disposizione sopra richiamata, la prosecuzione o la rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o (in caso di continuità indiretta) con il suo avente causa. Sulla scorta di tale criterio interpretativo, il Tribunale è pervenuto, nella fattispecie sottoposta al suo esame, a qualificare il concordato proposto come concordato in continuità, ancorché lo stesso prevedesse un apporto assolutamente marginale (nella misura di circa l'8% del fabbisogno) dei flussi di cassa derivanti dalla prosecuzione dell'attività di impresa rispetto a quelli attesi dalla liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa e dall'incasso dei crediti.

Osservazioni

Il profilo di maggiore interesse della pronuncia in commento è indubbiamente quello di fornire una prima chiave interpretativa della disciplina dettata dal Codice della crisi in materia di concordato preventivo, “in anteprima” rispetto alla sua entrata in vigore, disciplina che (al pari del resto di quella oggi vigente) appare, come si vedrà, improntata a un indubbio favor verso il concordato in continuità.

Come noto, la distinzione tra concordato in continuità e concordato liquidatorio, sulla base dell'attuale disciplina della legge fallimentare, è foriera di importati ricadute applicative, e ciò non solo sotto i profili, evidenziati nella pronuncia in commento, relativi all'operatività, con riferimento al concordato liquidatorio, del limite di soddisfacimento da assicurare ai creditori chirografari ex art. 160, comma 4, l. fall., nonché della necessità di attestazione “rafforzata” ai sensi dell'art. 186 bis, comma 2, l. fall. e di nomina del liquidatore ex art. 182 l. fall., ma anche in relazione alla possibilità, prevista dall'art. 186 bis, comma 2, lett. c) l. fall. in materia di concordato in continuità, di differire di un anno dall'omologazione il pagamento dei creditori privilegiati. È altrettanto noto che la disciplina maggiormente restrittiva prevista per il concordato liquidatorio ha aperto la strada a veri e propri abusi nel ricorso, da parte del debitore, allo strumento del concordato in continuità, anche in fattispecie caratterizzate da un apporto pressoché irrilevante dei flussi di cassa rivenienti dalla prosecuzione dell'attività d'impresa rispetto a quelli ricavati dalla liquidazione degli assests non strategici.

Per altro verso, la normativa attualmente vigente in materia ha dato luogo a numerose incertezze interpretative, inevitabilmente sfociate nella formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti tra loro, che hanno di volta in volta privilegiato un criterio di natura puramente “quantitativa”, basato sul raffronto tra le risorse provenienti rispettivamente dalla prosecuzione dell'attività caratteristica e dalla liquidazione dei beni (è il caso, ad esempio, di Trib. Monza, 26 luglio 2016, in Fall., 2017, 4, 429) oppure di tipo “qualitativo/funzionale”, incentrato sulla conservazione dell'impresa ogniqualvolta ciò non rechi pregiudizio alle ragioni dei creditori (cfr. Trib. Massa, 29 settembre 2016, ibidem, nonché la recente Cass., 15 gennaio 2020, su cui si tornerà infra), oppure ancora un criterio di tipo “misto”, basato sulla coesistenza, nell'ambito della medesima procedura concordataria, della disciplina del concordato in continuità e di quella del concordato liquidatorio (in questi termini, si vedano, tra le altre, Trib. Torre Annunziata, 29 luglio 2016 e Trib. Ravenna, 28 aprile 2015, pubblicate su ilcaso.it, entrambe citate nel provvedimento in esame, nonché Trib. Siracusa, 23 dicembre 2015, in Fall., 2016, 572 e Trib. Forlì, 24 dicembre 2014, in www.ilcaso.it); soluzione, quest'ultima, che viene decisamente respinta dal Tribunale di Milano nella pronuncia in commento (come si evince dalla prima massima sopra riportata). Il tutto, è quasi superfluo osservarlo, con buona pace delle esigenze di certezza del diritto e delle legittime aspettative dell'imprenditore in crisi, da un lato, e dei creditori chirografari, dall'altro.

Sennonché, la nuova disciplina introdotta dall'art. 84 CCI, analizzata in dettaglio dal Tribunale di Milano nel provvedimento qui in esame, non sembra destinata a sopire una volta per tutte i suaccennati contrasti giurisprudenziali, posto che, come si è visto, l'opzione di fondo per il criterio della prevalenza quantitativa, espressa dal terzo comma, primo periodo (a norma del quale “Nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato della continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino”), è significativamente attenuata dalla previsione contenuta nell'ultimo periodo del medesimo comma, secondo cui l'”utilità” da assicurarsi ai creditori, rilevante ai fini del giudizio circa la “prevalenza” delle risorse provenienti dalla continuità rispetto a quelle derivanti dalla liquidazione o viceversa, “può anche essere rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”; il che, evidentemente, lascia all'interprete un ampio margine di discrezionalità, al di fuori dell'ipotesi, espressamente contemplata dal secondo periodo del comma in esame, in cui i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivino “da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso”, nel qual caso la continuità si considera sempre sussistente. Proprio alla luce di quest'ultima previsione, assunta come criterio interpretativo ai fini dell'individuazione della disciplina applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame, il Tribunale di Milano, nel provvedimento in commento, ha ritenuto di riconoscere al concordato proposto la natura di concordato in continuità, posto che, nella specie, il piano concordatario prevedeva l'impiego nell'attività di impresa di un numero di dipendenti superiore alla soglia sopra indicata.

La nuova normativa sopra richiamata pone peraltro il problema, non affrontato nella pronuncia in commento, se le “modalità alternative” di soddisfacimento ivi previste possano riguardare o meno anche i crediti privilegiati e, in caso di risposta affermativa (per la quale sembra doversi propendere, in assenza di specifiche limitazioni da parte del legislatore a riguardo), se da ciò consegua – come sembra parimenti doversi affermare – la necessità di attribuire la legittimazione al voto anche a detti creditori, se e nella misura in cui il piano concordatario preveda la loro soddisfazione per mezzo di “utilità” diverse dal pagamento in denaro.

Di là da quest'ultimo aspetto, come anticipato, la normativa in esame sembrerebbe incentivare, anche per mezzo del temperamento della rigidità del criterio della prevalenza quantitativa di cui si è detto, il ricorso allo strumento del concordato in continuità, in un'ottica di salvaguardia dei valori produttivi e dei livelli occupazionali. In tale contesto, peraltro, è prevedibile che, nella predisposizione dei futuri piani concordatari, assumerà un rilievo crescente la specifica valorizzazione, ove possibile, dei rapporti contrattuali facenti capo all'impresa in crisi, che il debitore potrà mettere “sul piatto della bilancia” al fine di poter beneficiare della disciplina di maggior favore che anche il CCI, al pari della vigente legge fallimentare, riserva al concordato in continuità rispetto a quello liquidatorio, sotto il profilo (i) della necessità di assicurare una percentuale minima di soddisfazione dei crediti chirografari, prevista unicamente per il concordato liquidatorio (art. 84, ultimo comma) (ii) della previsione, in caso di concordato in continuità, di una moratoria fino a due anni dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione (art. 86).

Da ultimo, occorre dare atto che sulla materia qui in esame è recentemente intervenuta la Cassazione, la quale sembra essersi posta in controtendenza rispetto all'evoluzione legislativa, ripudiando tout court il criterio della prevalenza quantitativa (invece accolto - sia pure, come si è visto, in forma temperata - dal CCI) e negando la stessa ammissibilità giuridica della figura del concordato “misto”. Secondo i Giudici di legittimità, infatti, la fattispecie così definita sarebbe sempre riconducibile a una delle ipotesi di concordato con continuità previste dall'art. 186 bis l. fall., con conseguente applicazione della relativa disciplina al concordato nella sua interezza, a prescindere da qualsiasi valutazione comparativa tra i ricavi attesi rispettivamente dalla prosecuzione dell'attività di impresa e dalla liquidazione dei beni non strategici, fatti salvi solo i casi di abuso (Cass., 15 gennaio 2020, n. 734); casi, questi ultimi, nei quali peraltro ad essere in discussione è generalmente la stessa ammissibilità della proposta concordataria, prima ancora che la qualificabilità del concordato proposto come liquidatorio o in continuità.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

In giurisprudenza, sulla questione della disciplina applicabile al cd. concordato misto, si segnalano, in aggiunta ai precedenti già richiamati nel corpo del commento: Trib. Firenze, 2 novembre 2016, in Fall., 2017, 118; Trib. Firenze, 11 maggio 2016, in Fall., 2016, 1009; Trib. Mantova, 19 settembre 2013, in www.ilcaso.it.

In dottrina, la materia in esame è stata trattata, tra gli altri, da A. PETROSILLO, Il concordato “misto” e il criterio della “prevalenza quantitativa attenuata, su questo portale, a commento della medesima pronuncia qui in esame, e da P. GENOVIVA, Il concordato preventivo “misto” alla prova della “restaurazione” della soglia minima di soddisfacimento per i creditori chirografari, in Fall., 2017, 4, 429. In merito alla disciplina introdotta dal Codice della Crisi e dell'Insolvenza in materia di concordato preventivo si rinvia, tra gli altri, a D. FICO, Il concordato in continuità tra normativa vigente e Codice della crisi, su questo portale.

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