Il criterio della “ragione più liquida” nel caso di giudicato interno e tra questioni di rito e questioni di merito

Roberto Succio
25 Maggio 2020

La questione in esame è la seguente: se il giudice di appello debba rilevare di ufficio la tardività di una domanda riconvenzionale che il giudice di primo grado abbia rigettato nel merito, senza, tuttavia, pronunciarsi sulla relativa tempestività.
Massima

La decisione della causa nel merito non comporta la formazione del giudicato implicito sulla legittimazione ad agire ove tale quaestio iuris, pur avendo costituito la premessa logica della statuizione di merito, non sia stata sollevata dalle parti, posto che una questione può ritenersi decisa dal giudice di merito soltanto ove abbia formato oggetto di discussione in contraddittorio. Il giudicato interno preclude la rilevabilità d'ufficio delle relative questioni solo se espresso, cioè formatosi su rapporti tra "questioni di merito" dedotte in giudizio e, dunque, tra le plurime domande od eccezioni di merito, e non quando implicito, cioè formatosi sui rapporti tra "questioni di merito" e "questioni pregiudiziali" o "preliminari di rito o merito", sulle quali il giudice non abbia pronunziato esplicitamente, sussistendo tra esse una mera presupposizione logico giuridica.

Il caso

La Corte di appello di Catanzaro statuiva nel merito –accogliendola – in ordine alla domanda di indennizzo per occupazione di immobile spiegata dal convenuto in via riconvenzionale, anziché dichiararne la inammissibilità ex art. 167, comma 2, c.p.c., in ragione del tardivo deposito della comparsa di costituzione e risposta nel giudizio di primo grado con cui tale domanda era stata avanzata.

I ricorrenti di fronte alla Corte Suprema - premesso che la inammissibilità, per tardività, della domanda riconvenzionale doveva essere rilevata di ufficio - lamentano che tale rilievo di inammissibilità era stato erroneamente omesso tanto dal tribunale, che aveva rigettato la domanda nel merito, quanto dalla Corte di appello, che riformando la sentenza del tribunale, l'aveva accolta.

Secondo i controricorrenti, il tribunale, pronunciandosi sul merito della domanda riconvenzionale (sia pure per rigettarla), avrebbe implicitamente ritenuto la stessa ammissibile escludendone la tardività. Su tale implicita statuizione di ammissibilità si sarebbe formato il giudicato interno, non avendo essa formato oggetto di specifica impugnazione in appello da parte dei ricorrenti.

La questione

La questione in esame è la seguente: se il giudice di appello debba rilevare di ufficio la tardività di una domanda riconvenzionale che il giudice di primo grado abbia rigettato nel merito, senza, tuttavia, pronunciarsi sulla relativa tempestività.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Corte le questioni pregiudiziali di rito che non siano state fatte oggetto di alcuna soluzione nella motivazione della sentenza di primo grado rimarranno rilevabili anche ad opera del giudice di appello, pur in mancanza di un motivo di gravame o della riproposizione di esse. Detto passaggio in giudicato (con conseguente preclusione della deducibilità/rilevabilità di ufficio della questione nel successivo grado giudizio o nel giudizio di legittimità) è previsto solo nel caso in cui vi sia stata una pronuncia esplicita proprio su detta questione e non anche nel caso in cui essa è stata implicitamente risolta con la decisione sul merito della domanda. Pertanto, la parte vittoriosa nel merito non è tenuta a reagire con l'impugnazione incidentale all'inosservanza dell'ordine delle questioni di cui all'art.276 c.p.c. insita nella pronuncia di rigetto nel merito di una domanda da dichiarare inammissibile.

Osservazioni

La Corte di cassazione si pronuncia nuovamente, e in senso conforme alla sua più recente giurisprudenza.

Risulta quindi definitivamente contraddetto il precedente orientamento, risalente invero alla pur recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 11799/2017 e viceversa trova conferma e continuità l'orientamento espresso sempre dalle Sezioni Unite n. 7925/2019 e n. 7940/2019.

In precedenza, si era ritenuto che il mancato esame di una eccezione pregiudiziale di rito astrattamente idonea a precludere l'esame di una domanda che, di fatto, sia stata esaminata dal giudice e rigettata nel merito onerava la parte che l'aveva proposta, ancorché vittoriosa nel merito, di proporre appello incidentale, restando quindi preclusa in mancanza di tale impugnazione la possibilità per la parte stessa di riproporre l'eccezione ai sensi dell'art. 346c.p.c. Parallelamente, tal inerzia della parte rendeva impossibile per il giudice dell'impugnazione rilevare la questione ex officio.

La situazione processuale che qui si pone è tutt'altro che infrequente nella pratica giudiziaria. Ben può accadere che il giudice, nel pronunciare nel merito, rigettando la domanda, non decida su un'eccezione di rito proposta dal convenuto, del tutto trascurandola. Ebbene, secondo la pronuncia del 2017 tal statuizione del giudicante può assumere un duplice significato e un duplice effetto. Da un lato potrebbe esser valutata come considerazione di infondatezza dell'eccezione, il cui superamento è avvenuto in mente iudicis tant'è che questi ha proseguito il proprio ragionare e argomentare trattando il merito; ma d'altro canto il giudicante potrebbe avere solo scelto la soluzione più liquida – in questo derogando l'art. 276 c.p.c. – decidendo la causa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia risultato necessario esaminare previamente le altre; e ciò imponendosi a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio.

In questo secondo caso, sempre secondo l'orientamento più risalente, poiché l'eccezione di rito doveva esaminarsi prima del merito e ne condizionava l'esame, il silenzio del giudice si risolveva però - ancorché la sua opinione sull'eccezione di rito non fosse stata manifestata e potesse in ipotesi essere espressione di scelta della soluzione più liquida - in un error in procedendo,cioè nell'inosservanza della regola per cui il merito si sarebbe potuto esaminare solo per il caso di infondatezza dell'eccezione di rito. La violazione di tale regola, in quest'ottica, avrebbe reso necessaria la sua censura con l'appello incidentale e non la riproposizione dell'eccezione di rito, perché doveva esser espressa con un'attività di critica del modus procedendi del giudice di primo grado.

Secondo parte della giurisprudenza, dal punto di vista generale l'efficacia del giudicato si estende non solo alle ragioni fatte valere dalle parti ma investe anche tutte «le ragioni non dedotte che si presentino come un antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia» (Cass. civ., 7 aprile 2000, n. 4426; Cass. civ., 14 gennaio 2002, n. 349; Cass. civ., 21 maggio 2007, n. 11672, cit.; Cass. civ., 26 giugno 2009, n. 15093; Cass. civ., 11 febbraio 2011, n. 3434; Cass. civ., 8 febbraio 2012, n. 1815). In tal modo, concretamente non solo il giudicato implicito implica un'accezione amplissima del cd. deducibile, fortemente criticata da autorevole dottrina (Allorio, Critica alla teoria del giudicato implicito, in Problemi di diritto, II, Sulla dottrina della giurisdizione e del giudicato, Milano, 1957, pp. 215-216), ma altresì un'incontenibile estensione del giudicato esterno.

I confini di operatività del giudicato implicito sono poi tracciati anche dal principio – concettualmente speculare - della cd. “ragione più liquida”.

Esso presuppone però la soluzione della questione in ordine alla sussistenza o meno di un vero e proprio ordine logico-giuridico di trattazione delle questioni e, in caso di risposta affermativa, in base a quali norme o princìpi esso sia presente nell'ordinamento e infine quali effetti abbia la mancata osservanza di tali prescrizioni.

Non vi sono espliciti riferimenti a tal principio nelle norme del codice di rito: esso può ricavarsi in parte dall'art. 14 e dall'art. 11 Cost. e in parte da alcune norme processuali, vale a dire gli artt. 187, 276, comma 2, 277, 279c.p.c., oltre che dall'art. 118, comma2 disp. att. c.p.c. Da ciò emerge come in via generale le questioni pregiudiziali dovrebbero essere decise prima del merito, secondo una sorta di priorità logica delle pregiudiziali.

Nondimeno, ciò dovrà evincersi – a mio avviso – unicamente dalla motivazione della sentenza: la scelta del giudice di non rispettare l'ordine logico delle questioni, decidendo per l'evidente fondatezza, così come quella di rispettarlo, deve necessariamente emergere dalla sentenza; allo stesso modo deve esservi traccia nella sentenza stessa di come il giudice quantomeno si sia posto il problema della sussistenza delle pregiudiziali perché esse possano ritenersi implicitamente giudicate (Cass. civ., 5 luglio 1995, n. 7411; cfr. Cass. civ., 28 marzo 1991, n. 3360, in Foro it., 1991, I, c. 1625; cfr. Cass. civ., 2004, n. 8720).

Il giudicato ha di mira la certezza del diritto ma deve rispondere anche ad un canone di economicità del giudizio; vanno quindi evitati inutili allungamenti e parimenti garantito diritto di difesa, anche nell'ottica dell'impugnazione. È estremamente importante che vi sia chiarezza su quale sia l'oggetto che esso copre, pena la controindicazione di violare proprio quegli stessi princìpi che l'istituto stesso dovrebbe salvaguardare.

Se quindi nel rapporto tra più questioni di merito il principio della ragione più liquida può consentire al giudice di superare l'ordine delle questioni, accogliendo la domanda senza tener conto di alcuni antecedenti logici della decisione, entro il limite della domanda di parte e dell'obbligo di motivazione, detto criterio «non opera nel rapporto tra questioni pregiudiziali di rito e questioni di merito, ma trova applicazione solo nel rapporto tra questioni preliminari di merito e altre questioni di merito», come ricorda la Corte nella pronuncia che si annota.

Di conseguenza, se si conviene sul principio che il criterio della ragione più liquida non può trovare applicazione nel rapporto tra questioni pregiudiziali di rito e questioni di merito, risulta privo di fondamento, come prosegue la Corte nella ridetta sentenza, «l'assunto secondo cui la parte vittoriosa nel merito sarebbe tenuta a reagire con l'impugnazione incidentale all'inosservanza dell'ordine delle questioni di cui all'art.276 c.p.c. insita nella pronuncia di rigetto nel merito di una domanda da dichiarare inammissibile. Deve infatti ritenersi che il mancato rispetto dell'ordine delle questioni di cui all'art. 276 c.p.c. non generi alcuna nullità della sentenza», e quindi non costituisca error in procedendo.

L'errore logico qui censurato consiste in una sorta di non consentita sovrapposizione della successione cronologica delle attività di cognizione del giudice con il quadro logicodella decisione complessivamente adottata in esito ad esse, all'interno delle quali si collocano i passaggi che portano alla decisione finale.

La pronuncia in commento conferma quindi la statuizione delle Sezioni Unite del 2019 (Cass.civ., Sez. Un., 20 marzo 2019, n. 7925), evocata in esordio di queste righe, secondo la quale «il giudicato interno, tuttavia, preclude la rilevabilità d'ufficio delle relative questioni solo se espresso, cioè formatosi su rapporti tra "questioni di merito" dedotte in giudizio e, dunque, tra le plurime domande od eccezioni di merito, e non quando implicito, cioè formatosi sui rapporti tra "questioni di merito" e "questioni pregiudiziali" o "preliminari di rito o merito", sulle quali il giudice non abbia pronunziato esplicitamente, sussistendo tra esse una mera presupposizione logico-giuridica» (Cass. civ., 31 ottobre 2017, n. 25906).

Pertanto, «la decisione della causa nel merito non comporta la formazione del giudicato implicito sulla legittimazione ad agire ove tale «quaestio iuris», pur avendo costituito la premessa logica della statuizione di merito, non sia stata sollevata dalle parti, posto che una questione può ritenersi decisa dal giudice di merito soltanto ove abbia formato oggetto di discussione in contraddittorio».

La soluzione adottata trova ampio e robusto conforto in una serie abbondante di precedenti pronunce (Cass. civ., 16 maggio 2006, n. 11356; Cass. civ., Sez. Un., 9 ottobre 2008, n. 24883; Cass. civ., Sez. Un., 30 ottobre 2008, n. 26019; Cass. civ., Sez. Un., 18 dicembre 2008, n. 29523; Cass. civ., Sez. Un., 18 dicembre 2008, n. 29531; Cass. civ., 28 maggio 2012, n. 8438) non recenti ma tutte monoconcordi nel ritenere esplicitamente che l'applicazione del criterio della ragione più liquida, operante anche in grado d'appello, escluda la presenza del giudicato implicito; ne deriva che le questioni non esaminate in applicazione di tal principio non restano precluse in mancanza d'impugnazione e possono essere rilevate d'ufficio anche da parte del giudice superiore.

E a ben vedere, pretendere di estendere l'onere di proporre appello incidentale condizionato anche ai casi in cui la domanda o l'eccezione non sia stata decisa è affermazione irrazionale sul piano della logica processuale: si imporrebbe in concreto alla parte vittoriosa di impugnare incidentalmente una decisione che non esiste, che non si può leggere – e quindi né comprendere prima né censurare poi – perché in realtà non è mai stata presa.

Ove quindi la questione in parola non emerga almeno in sede di motivazione, non si formerà alcun giudicato implicito e non potrà quindi limitarsi l'esercizio del potere officioso del giudice rispetto al rilievo della questione stessa.

In ultimo, può osservarsi come i principi sopra enunciati trovino applicazione anche nel processo tributario, sia pure residuando alcuni profili di ambiguità.

Ancora di recente, si è infatti statuito con riferimento a tal processo che proprio in applicazione del principio processuale della "ragione più liquida", desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., «la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell'evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare ai sensi dell'art. 276 c.p.c.» (Cass. civ.,sez. V, 9 gennaio 2019, n. 363).

In questo caso, si è nel concreto rigettato il ricorso dell'Amministrazione finanziaria volto a far dichiarare non dovuta l'agevolazione di cui all'art. 33 della l. n. 338/2000 affermando, in accoglimento del ricorso incidentale, la decadenza della stessa dall'esercizio della pretesa impositiva, stante il carattere pregiudiziale della relativa censura.

Orbene, la decadenza per intempestività dell'Erario dal potere accertativo, in questo contesto, pare per vero collocarsi in una sorta di “zona grigia”, non del tutto chiaramente determinata come eccezione di merito o eccezione di rito; ciò stante la particolare natura del processo tributario, come processo di impugnazione – merito il cui oggetto è la legittimità dell'atto impositivo e la conseguente connessa determinazione della fondatezza della pretesa tributaria.

Sul punto, è agevole prevedere che la giurisprudenza tornerà a riesaminare la questione.