Riduzione della retribuzione con mansioni invariate: si applica l'art. 2013 c.c.?
25 Maggio 2020
Massima
È nullo l'accordo stipulato tra il datore ed il lavoratore, al di fuori delle “sedi protette” di cui all'art. 2113 c.c., con il quale, permanendo invariata la prestazione svolta, sia stata disposta la riduzione del trattamento retributivo.
La riduzione della retribuzione al di fuori dei limiti formali e sostanziali fissati all'art. 2103 c.c., infatti, è vietata non solo ove a ciò segua l'esecuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle inizialmente assegnate in sede di assunzione, ma anche e soprattutto qualora esse non siano mutate. Il caso
Il Tribunale di Lecco rigettava il ricorso proposto da un dirigente il quale lamentava l'illegittimità della riduzione della propria retribuzione. Il giudice di prime cure riteneva legittimo l'accordo precedentemente sottoscritto dalle parti con cui era stata pattuita una riduzione pari al 10% della retribuzione, con rinuncia da parte del lavoratore a quanto previsto dal CCNL in materia di Trattamento Minimo Complessivo Garantito (TMCG) e ad ogni impugnazione di detta rinuncia, applicandosi l'art. 2103 c.c. alle sole ipotesi di variazione in peius delle mansioni del lavoratore le quali, nel caso esaminato, erano rimaste invariate. La pattuizione, inoltre, non aveva avuto ad oggetto diritti indisponibili, sicché non poteva ritenersi violato neanche l'art. 2113 c.c.
Il dirigente impugnava la sentenza, sostenendo l'invalidità dell'accordo non effettuato nei limiti sostanziali e formali previsti dall'art. 2103 c.c. Non essendo stato formalizzato in una “sede protetta”, inoltre, lo stesso sarebbe illegittimo, afferendo diritti derivanti da disposizioni legali e negoziali inderogabili. Asseriva, inoltre, la sussistenza della giusta causa delle dimissioni sebbene tra queste e suddetto accordo fosse trascorso un certo lasso di tempo.
Si costituiva in giudizio la parte datoriale, sostenendo la validità dell'accordo ed evidenziando come la retribuzione non potesse ritenersi inferiore al minimo garantito contrattualmente in applicazione dell'art. CCNL applicato. La questione
Può ritenersi valido l'accordo con il quale le parti hanno disposto la riduzione della retribuzione del lavoratore pur rimanendo invariate le mansioni? La soluzione
La Corte di appello di Milano ha dichiarato fondato il gravame.
È stata rilevata, in primis, la nullità dell'accordo, essendo stato formalizzato in violazione di norme imperative: l'art. 2103 c.c. detta regole stringenti per le ipotesi di riduzione della retribuzione, prevedendo che la stessa non muti, neppure in caso di passaggio a mansioni inferiori, non rilevando il fatto che il lavoratore abbia in seguito continuato le medesime mansioni. Evidenzia la Corte come il divieto di una riduzione della retribuzione operi non solo ove a ciò segua l'esecuzione di mansioni deteriori rispetto a quelle stabilite ab origine, ma anche e soprattutto qualora esse non siano mutate.
Non rilevante è stato ritenuto anche il consenso delle parti: l'art. 2103, comma 6, c.c. stabilisce, infatti, che un tale accordo debba essere concluso in “sede protetta”, ossia nell'ambito di contesti in cui la volontà negoziale del lavoratore si presuma tutelata da illegittime pressioni da parte del datore. Nel caso di specie, il patto era stato stipulato al di fuori del sistema di garanzie previsto dal legislatore, sicché la sussistenza o meno di una crisi economica della società non avrebbe potuto acquisire alcuna importanza, sebbene essa costituisca una condizione prevista dal codice per addivenire, lecitamente, ad una modifica peggiorativa della retribuzione.
La Corte, pertanto, rilevata l'inosservanza delle regole inderogabili dettate a tutela del lavoratore, ha dichiarato l'invalidità dell'accordo. Il giudice ha constatato, inoltre, come la retribuzione conseguente alla riduzione fosse inferiore al TMG previsto dall'art. 3 del CCNL, in violazione anche dei minimi retributivi garantiti dall'art. 36 Cost.
In ordina alla sussistenza della giusta causa di dimissioni, il Collegio ha osservato come non appaia rilevante il lasso temporale intercorso tra la sottoscrizione dell'accordo ed il recesso del lavoratore, tenuto conto che quest'ultimo aveva diffidato la società ad adempiere correttamente ai suoi obblighi retributivi, concedendo un congruo termine per l'adempimento, alla cui scadenza, in assenza di un riscontro, aveva rassegnato le proprie dimissioni. Il comportamento datoriale integrava pertanto una giusta causa di dimissioni. Osservazioni
In linea generale, con riferimento al principio di irriducibilità della retribuzione, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come esso implichi che il trattamento economico concordato al momento dell'assunzione non sia riducibile, con nullità di ogni patto contrario. Suddetto principio viene desunto dal divieto di assegnazione a mansioni inferiori e dalla necessaria proporzione tra l'ammontare della retribuzione e la qualità e quantità del lavoro prestato (artt. 2103 c.c. e 36 Cost.). Si è sostenuto che il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato – rispetto al quale opera il divieto di riduzione - debba essere computato con riferimento ai corrispettivi attinenti alle qualità professionali tipiche della qualifica rivestita (cd. indennità intrinseche), con esclusione dei compensi rapportati a specifici disagi o difficoltà connessi alle prestazioni (cd. indennità estrinseche), i quali non possono essere oggetto di pretesa allorché siano venute meno le situazioni cui essi erano collegati (Cass. n. 29247 del 2017).
Nel caso esaminato dalla Corte di appello di Milano, tuttavia, le mansioni svolte dal ricorrente non risultavano mutate, sicché verrebbe a mancare uno dei presupposti per l'applicazione dell'art. 2103 c.c., ossia l'effettivo esercizio dello ius variandi datoriale.
Sebbene in una decisione abbastanza distante nel tempo (n. 6083 del 1997), la Corte di cassazione ha affermato che la retribuzione è riducibile per accordo tra le parti, tenuto conto che l'art. 2103 c.c. vieta al datore di mutare in peius le mansioni del lavoratore e, conseguentemente, il trattamento retributivo, sicché tale norma non opererebbe ove non sia intervenuto alcun mutamento. In tale occasione la Corte ha richiamato un proprio precedente nel quale la stessa aveva sottolineato come la diminuzione del complessivo trattamento retributivo, subito dal lavoratore in conseguenza di una diversa organizzazione dell'impresa, non trovava ostacolo nelle disposizioni dell'art. 2103 c.c., “le quali operano nel diverso ambito dell'immodificabilità in peius delle mansioni del lavoratore, con garanzia di collegamento funzionale fra le mansioni stesse e la retribuzione" (Cass. n. 1189 del 1985). Si è sottolineato, inoltre, che l'art. 2103 c.c. sarebbe inderogabile solo ove, nel corso del rapporto, il datore modificasse unilateralmente la retribuzione attribuita ab origine al dipendente, potendo invece le parti concordare, sia all'inizio del rapporto, sia durante il suo svolgimento, patti relativi alla revisione della retribuzione in relazione a particolari circostanze (ad. es. situazione di crisi economica dell'azienda). La Corte ha ritenuto valiti tali accordi sebbene ad una condizione: essi non avrebbero dovuto violare il principio della retribuzione minima e adeguata (Cass. n. 3143 del 1971).
Il collegamento della modificabilità del trattamento retributivo percepito dal lavoratore e l'art. 36 Cost. è, dunque, palmare. Una retribuzione “proporzionata” garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata” e un trattamento economico “sufficiente” dà diritto ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. L'assenza nell'ordinamento italiano di interventi legislativi sia in materia di efficacia erga omnes dei contratti collettivi, sia di salario minimo legale, ha determinato l'intervento di supplenza della giurisprudenza nella definizione del c.d. “salario minimo costituzionale”, con riferimento – quale parametro – ai minimi tabellari stabiliti in sede di contrattazione collettiva (Cass. n. 4620 del 2020). La garanzia dell'art. 36 Cost. è posta in riferimento al trattamento economico globale, con una nozione di “minimo costituzionale” comprensiva solo di paga base, indennità di contingenza e tredicesima mensilità, con esclusione degli emolumenti collegati a particolari caratteristiche della prestazione o a particolari qualità personali del lavoratore (sebbene sul punto la giurisprudenza non abbia sempre assunto una posizione omogenea).
La giurisprudenza più recente, tuttavia, ha sostenuto che il principio di irriducibilità della retribuzione non potrebbe tollerare eccezioni, neppure sulla base di un accordo tra datore e lavoratore, se non nei casi in cui la riduzione sia giustificata dal venire meno di presupposti qualitativi e/o quantitativi della prestazione, e dunque ove lo ius variandi sia legittimamente esercitato. (Cass. n. 20310 del 2008, Cass. n. 1421 del 2007).
Ad ogni modo, potrebbe discutersi circa la rivendibilità nel nostro ordinamento un principio assoluto di irriducibilità della retribuzione. Tale principio è legato alla facoltà concessa al datore di variare le mansioni del prestatore: laddove quest'ultimo venga assegnato ad incarichi diversi (ed inferiori), dovrà conservare la medesima retribuzione. Ne conseguirebbe che, ove non si verifichi tale modifica in peius, le parti potrebbero raggiungere validamente un accordo modificativo delle modalità di svolgimento del rapporto ed, eventualmente, anche una riduzione del precedente trattamento retributivo (Cass. n. 9473 del 1983), purché non in violazione dei principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione ex art. 36 Cost.
Con riferimento ai dirigenti, prendendo come riferimento il CCNL applicato nel settore Industria, si constata come le parti sociali abbiano fissato un “trattamento minimo complessivo garantito”, al quale deve uniformarsi il trattamento economico annuo lordo, con previsione di uno specifico meccanismo di adeguamento (art. 3, comma 4, CCNL). A tale “porzione stabile” della retribuzione, se ne aggiunge una “variabile”, connessa con il raggiungimento di obbiettivi/risultati aziendali, sulla base di MBO (Management By Objectives) predisposti dalle medesime aziende. Al fine di determinare l'effettivo trattamento economico, vengono tenuti in conto anche eventuali fringe benefits aventi natura retributiva.
Laddove il datore ed il dirigente stipulino un patto di riduzione della retribuzione, senza un mutamento della prestazione svolta dal secondo, dovrebbe considerarsi quale “porzione” del trattamento retributivo sia state interessata.
Discutibile sarebbe l'affermazione di una inderogabilità - e dunque indisponibilità da parte del titolare - del diritto alla percezione di una determinata retribuzione di risultato, una volta che questo sia stato raggiunto dal dirigente. Tale porzione “variabile”, si evidenzia, non è negozialmente considerata nella verifica della corrispondenza del trattamento economico a quello minimo garantito (TMCG).
Qualche dubbio potrebbe sorgere, invece, ove il contratto applicato al dirigente preveda un trattamento minimo garantito: potrebbe esso qualificarsi come “minimo costituzionale”, con conseguente applicazione dell'art. 2113, comma 1, c.c.? La questione non è evidentemente di poco conto.
La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha negli anni tenuto conto dei minimi tabellari fissati nei CCNL applicati – ovvero applicabili- al singolo rapporto, ma l'esito non è stato sempre “positivo” per il lavoratore. Le disposizioni negoziali, infatti, fungono da mero parametro orientativo per il giudice (Cass. n. 20452 del 2018), il quale non è dalle stesse vincolato, potendo ritenere il trattamento economico previsto nel singolo caso sproporzionato/insufficiente anche se coincidente con i “minimi convenzionali”, ovvero conforme al dettato costituzionale sebbene al di sotto di tali soglie (Cass. n. 10260 del 2001).
Nonostante le osservazioni sopra riportate, non sembrerebbe oggi potersi escludere l'applicabilità dell'art. 2113 c.c.: la giurisprudenza ha evidenziato come il criterio fondamentale per l'individuazione dell'area dei diritti indisponibili da parte del lavoratore è correlato alla ratio legis cui si ispira suddetto articolo, consistente nella tutela della parte più debole del rapporto di lavoro, la cui posizione è generalmente disciplinata con norme inderogabili, salvo una previsione espressa in senso contrario (Cass. n. 1965 del 1990). In questa prospettiva si è ritenuto riduttivo il riconoscimento di diritti indisponibili soltanto in relazione alla lesione di diritti fondamentali della persona, conseguendone l'esclusione di tutela per una ampia gamma di diritti. Relativamente a quelli derivanti dalla contrattazione collettiva, si è precisato che la libertà negoziale delle parti è limitata alle disposizioni qualificate dalla stessa fonte come derogabili, non rilevando invece il contenuto meramente patrimoniale del diritto. L'art. 2113 c.c., dunque, è applicabile alle rinunce o transazioni aventi ad oggetto qualsiasi diritto di natura retributiva del lavoratore, indipendentemente dal parametro costituzionale dell'art. 36 Cost., fatta eccezione per i trattamenti economici derivanti da pattuizioni individuali (Cass., n. 27940 del 2017).
Per approfondire: C. Ponterio, Il lavoro per un'esistenza libera e dignitosa: art. 36 Cost. e salario minimo legale, in Quest. Giust, 2019, 4, pp. 19 ss. G. Pera, La giusta retribuzione dell'art. 36 della Costituzione, in Scritti di Giuseppe Pera, Giuffrè Editore, Milano, 2007, I, 3 ss. A. Di Francesco, La dirigenza privata. Le trasformazioni della professionalità dirigenziale nell'attuale sistema dell'impresa, Jovene, Napoli, 2006.
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