Prove di ripartenza in sicurezza tra protocolli e circolari

Andrea Ferrario
26 Maggio 2020

Uno dei primi e più frequentati temi di analisi in vista e poi in corrispondenza della “fase 2” dell'emergenza da Covid-19 e quindi anche della progressiva ripresa delle attività è stato senz'altro quello del ruolo e della valenza dei c.d. protocolli di sicurezza sul lavoro, fioriti in vari contesti e configurazioni..
I protocolli di sicurezza condivisi tra le parti sociali e la “fase 2”

Uno dei primi e più frequentati temi di analisi in vista e poi in corrispondenza della “fase 2” dell'emergenza da Covid-19 e quindi anche della progressiva ripresa delle attività è stato senz'altro quello del ruolo e della valenza dei c.d. protocolli di sicurezza sul lavoro, fioriti in vari contesti e configurazioni. Oltre ai documenti tecnici predisposti dalle diverse amministrazioni e imprese, opportunamente adattati alle singole realtà operative, gli esemplari più rilevanti di questo modello, fin da subito caratterizzati da una vocazione paranormativa, sono stati soprattutto i protocolli “generali” condivisi a livello nazionale tra le parti sociali. Ricordiamo in particolare che già all'indomani delle prime decretazioni d'urgenza (DPCM dell'11 marzo del 2020) le organizzazioni datoriali e i sindacati più rappresentativi, raccogliendo un espresso invito dell'esecutivo, mettevano congiuntamente a punto (il successivo 14 marzo) un primo elaborato contenente una dettagliata elencazione di azioni di contrasto al rischio epidemico in ambiente di lavoro. All'indomani del varo di questo primo strumento che recepiva, calandole nel contesto lavorativo, alcune tra le misure collettive di precauzione comune già contemplate nei primi atti del governo, era peraltro emersa da più parti la questione circa il concreto valore precettivo delle sue previsioni. E difatti non solo queste ultime erano frutto - a rigore - di intese espresse dall'autonomia privata, ma la loro adozione era stata promossa sulla base di una mera “raccomandazione” della Presidenza del Consiglio contenuta per di più all'interno di un atto, il DPCM, integrante una fonte normativa meramente secondaria. Il metodo della concertazione tra le parti sociali veniva ripreso anche in un momento successivo. Il 24 aprile veniva infatti varato un aggiornamento del citato protocollo di marzo che perfezionava il documento originario, raccogliendo le sottoscrizioni delle principali sigle sindacali e datoriali del Paese, unitamente a quelle dello stesso governo. Pochi giorni dopo, lo stesso protocollo, unitamente ad ulteriori due analoghi strumenti di settore (cantieri e trasporti/logistica) veniva però - questa volta - opportunamente promosso al rango di vero e proprio allegato del DPCM 26 aprile 2020 (art. 2, comma 6), ovvero del provvedimento che inaugurava formalmente la menzionata “fase 2” dell'emergenza sanitaria. In questo caso dunque, il governo non si limitava a “raccomandare”, ma faceva formalmente proprio il pacchetto di misure del protocollo ospitandolo nel corpus del dispositivo. Non solo. La stessa norma ne rafforzava vieppiù la cogenza prevedendo espressamente severe sanzioni per l'inadeguata osservanza delle misure prevenzionistiche previste e financo la sospensione temporanea dell'attività “fino al ripristino delle condizioni di sicurezza” (cfr., più recentemente, le analoghe disposizioni del D.L. n. 33 del 16 maggio 2020).

Il metodo della concertazione e i possibili riflessi sul sistema della responsabilità civile datoriale

Archiviata la fase più acuta dell'emergenza, il protocollo del 24 aprile tornerà poi in numerosi altri atti amministrativi e normativi (da ultimo con il DPCM 17 maggio 2020, con particolare riguardo alle attività produttive industriali e commerciali, con il D.L. 16 maggio 2020, n. 33 cit., nonché con il c.d. Decreto Rilancio, D.L.. 19 maggio 2020, n.34), assumendo di fatto la funzione di principale parametro delle condizioni minime di sicurezza dell'ambiente di lavoro. Nel quadro attuale non sembra dunque potersi mettere oltre in questione il carattere normativo e di valenza erga omnes delle sue disposizioni, uscite da un confronto formalmente negoziale tra le parti sociali, ma sulla spinta di una sorta di “delega” dell'esecutivo. In ogni caso, a prescindere da ciò e dunque dal dibattito (teoricamente superato quanto meno in relazione al protocollo “generale” del 24 aprile), se anche altri strumenti consimili - purché effettivamente “generali” e condivisi - che vengano eventualmente adottati in futuro a mezzo del medesimo strumento della concertazione abbiano o meno formale dignità di precetto normativo è un quesito che, quanto meno in riferimento al tema della responsabilità civile datoriale, riveste a ben vedere un rilievo quasi solo teorico.

Come è infatti ben noto la norma civilistica di riferimento in tema di tutela della sicurezza e salute dei lavoratori, vale a dire l'art. 2087 c.c., ha natura intrinsecamente dinamica e adattativa, rendendo parimenti alquanto mobili i correlativi confini operativi della responsabilità dei datori di lavoro. In altri termini, secondo una linea ermeneutica assurta ormai a ius receptum, l'adempimento dell'obbligo contrattuale di protezione consacrato dalla predetta norma civilistica può dirsi assolto non soltanto con l'adozione delle “…misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore …”, ma anche delle “… altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio” (Cass. civ., 6 novembre 2019, n. 28516). Ovvero ancora di quelle misure “dettate dalle buone prassi, dall'esperienza e dalla tecnica nonché dalla comune prudenza (v., ex multis, Cass. civ., 4 giugno 2019, n. 15167). In tale ottica i protocolli di sicurezza concepiti nel quadro delle relazioni industriali al più elevato livello, anche ove non dotati formalmente di forza legislativa, potranno ancora assumere nei fatti una funzione di gold standard per la verifica preventiva e post factum dell'assolvimento dei doveri datoriali di sicurezza. E ciò, non solo in riferimento a strumenti “universalistici”, ma anche con riguardo a consimili documenti settoriali, dedicati cioè a specifiche aree di rischio, purché del medesimo rango e con pari grado di diffusione ed autorevolezza. E' appena il caso di evidenziare che, naturalmente, anche ciascuna realtà organizzativa, una volta recepiti i contenuti essenziali del protocollo, potrà poi ulteriormente perfezionarli e rafforzarli, conformandoli alle proprie esigenze mediante l'adozione di ulteriori documenti di sicurezza specialistici ritagliati “su misura”.

I possibili limiti del metodo della concertazione in tema di sicurezza

Proprio in vista di questa delicata funzione e dunque del ruolo concreto che i vari protocolli “delegati” potranno verosimilmente rivestire nella prassi futura, sembra utile sottolineare anche alcune prime, possibili, criticità di questo approccio decentrato al tema della sicurezza. In primo luogo appare intanto opportuno che non si verifichi una eccessiva stratificazione o proliferazione di strumenti consimili a vocazione più o meno generale, soprattutto se affidati a soluzioni self made, microsettoriali o di categoria, territoriali, di sigla, aziendali etc. Se una tale prassi atomistica può attagliarsi al fenomeno dell'ordinaria contrattazione collettiva, ciò sembra assai meno indicato in rapporto ad un tema come quello della sicurezza che deve ispirarsi a criteri stringenti di uniformità, certezza e conoscibilità. Fermi – si ribadisce – quei necessari adattamenti di dettaglio che, all'interno di una chiara e indiscussa cornice generale, potranno comunque restare affidati ad un “secondo livello” di negoziazione. Inoltre, se pure è da salutare con favore il forte coinvolgimento di tutte le parti del sistema delle relazioni industriali, correttamente posto fin dalla prima ora al centro del sistema della sicurezza anti-covid, il vero fulcro della funzione prevenzionistica in azienda deve pur sempre restare il datore di lavoro, coadiuvato dalle strutture a ciò deputate, interne ed esterne all'impresa. In quest'accezione sembra necessario, con specifico riguardo al citato protocollo del 24 aprile 2020, meglio delineare e forse riconsiderare quel ruolo paraispettivo che - pur con una generica funzione di “aggiornamento” delle misure - sembra si voglia affidare ad apposite articolazioni sindacali su base aziendale o territoriale. Ci si riferisce in particolare a quanto previsto dal punto 13 del documento che assegna a Comitati all'uopo costituendi funzioni generali di “applicazione” e “verifica” delle regole del protocollo. Questo compito è già in larga parte assegnato a specifici organismi. E forse la presenza di un'ulteriore istanza con fumosi compiti di natura sostanzialmente ispettiva, oltre a rappresentare una possibile fonte di burocratizzazione, rischia di tradursi in un'ingerenza eccessiva rispetto al normale esercizio dei poteri organizzativi datoriali.

La tutela assicurativa sociale e la responsabilità civile datoriale da contagio COVID nei protocolli INAIL

La condivisione di un quadro standardizzato di linee guida nazionali anti contagio rappresenta, come vedremo, un decisivo contributo per una più stabile definizione del perimetro della responsabilità datoriale all'interno del nuovo e assai aggravato scenario di rischio sostenuto dall'epidemia da Covid-19. L'inedita scala di questa emergenza sanitaria e la natura subdola e ancora solo in parte conosciuta di questo agente patogeno, lasciano tuttavia ancora aperti possibili spiragli problematici e di discussione. Il profilo generalizzato e ubiquitario del rischio epidemico, la sua dinamica (si pensi alla questione dell'immunizzazione o al fenomeno ancora sommerso dei soggetti asintomatici), la prolungata fase di latenza della malattia, possono infatti mettere in forte tensione i comuni criteri di ricostruzione eziologica, rendendo a dir poco difficoltosa, se non a volte del tutto aleatoria, la procedura di tracciamento del meccanismo di contagio. E, per quanto in particolare riguarda il nostro tema, rendendo in astratto e al di fuori dei casi limite, quanto mai critica la prova causale di un'effettiva nocività dell'ambiente di lavoro e potenzialmente problematica quella - liberatoria - di pertinenza della parte datoriale. Sul versante dei lavoratori, si è fatto principalmente carico di questa oggettiva e forse insormontabile difficoltà e delle sue possibili ricadute sociali il sistema della tutela assicurativa sociale, ricorrendo, pur nel quadro dei principi di causalità, a laschi e benevoli criteri presuntivi estesi, oltre che ovviamente alle professioni sanitarie, all'ampia platea di attività che comportano un costante contatto con il pubblico (cfr. Circolare INAIL n. 13 del 3 aprile 2020 cit.). È appena il caso di evidenziare che nel parallelo, ma affatto diverso campo della tutela civile, e dunque in rapporto ai possibili riflessi operativi ulteriori (danno differenziale e complementare, rivalse degli Istituti, operatività delle garanzie RCO, ecc.) ci si dovrà all'evidenza avvalere di un ben diverso approccio. Soccorreranno in questo contesto i consueti, rigorosi, criteri di indagine (epidemiologici, clinici, anamnestici e circostanziali) della scienza medico legale. E dovranno soprattutto riprendere pieno vigore gli imprescindibili principi del dolo e della colpa civile necessariamente sottesi all'eventuale affermazione di una responsabilità dell'imprenditore. Pertanto, questa volta nella prospettiva datoriale, una piena compliance alle misure precauzionali contenute nei protocolli o nelle linee guida nazionali, pur nello sfuggente contesto dianzi descritto, rappresenterà un presupposto di fatto senz'altro dirimente nello scrutinio circa il compiuto adempimento degli obblighi di sicurezza. Tale assunto, riecheggiato anche nella legislazione dell'emergenza, dovrebbe dunque allontanare o quanto meno ridimensionare quello spettro di un'espansione insostenibile della responsabilità datoriale da più parti agitato alla vigilia della ripresa dell'attività produttiva e nelle sue prime fasi. Il relativamente benevolo approccio dell'assicuratore sociale rispetto all'ipotesi di “infortunio Covid”, ha infatti fondato il diffuso timore di un possibile allentamento generalizzato - anche - delle regole di imputazione civilistiche, con l'esposizione delle imprese e dell'intero mondo produttivo ad una grandezza del tutto inusitata e insostenibile di rischio potenziale. E con il connesso rischio dell'introduzione strisciante, complice l'emergenza pandemica, di una dottrina oggettivistica della responsabilità. Sul punto, mediante una procedura piuttosto inusuale, è dunque intervenuta ancora INAIL, chiarendo formalmente anche con una propria circolare (la n. 22 del 20 maggio 2020) ciò che doveva peraltro apparire già fuori discussione: «Non possono, perciò, confondersi i presupposti per l'erogazione di un indennizzo Inail … con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative. In questi, infatti, oltre alla già citata rigorosa prova del nesso di causalità, occorre anche quella dell'imputabilità quantomeno a titolo di colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro. Il riconoscimento cioè del diritto alle prestazioni da parte dell'Istituto non può assumere rilievo per sostenere l'accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell'onere della prova a carico del Pubblico Ministero. Così come neanche in sede civile l'ammissione a tutela assicurativa di un evento di contagio potrebbe rilevare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l'accertamento della colpa di quest'ultimo nella determinazione dell'evento».

La puntuale, quanto inconsueta sortita dell'assicuratore sociale, evidentemente intesa a placare il clima di allarme che più in generale circonda il tema della sicurezza in tempi di coronavirus, suggerisce forse l'opportunità, ove non l'urgenza, di un intervento più organico e meditato del legislatore. La portata dei problemi posti dalla pandemia da Covid-19 fonda infatti l'esigenza di un quadro chiaro e univoco di riferimenti che non può più essere interamente delegato ad istanze amministrative o ad altri corpi sociali.

Conclusioni

Resta poi in ogni caso sullo sfondo, quale ipotetico ed ulteriore esito della dimensione straordinaria e in parte inafferrabile del nuovo rischio epidemico, la possibile persistenza di casi di irriducibile incertezza (“ipotesi in cui l'identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica”, così come si esprime INAIL nella propria circolare del 3 aprile cit.) suscettibili di incrinare in concreto la complessiva efficienza e funzionalità del sistema risarcitorio.

In questa prospettiva è dunque tutt'altro da escludere che rispetto ad una simile sfida epocale e all'ineludibile esigenza di contenere in termini sostenibili la responsabilità datoriale, si possa assistere di fatto ad un parziale e forse inevitabile arretramento della tutela civile e dello stesso principio del ristoro integrale del danno alla persona a vantaggio di un ruolo centrale e universalistico del meccanismo assicurativo sociale. Occorreranno tuttavia, in tale ultimo contesto, soluzioni operative di grande equilibrio e rigore, tali da non convertire questo esito in un ingiustificato sacrificio del credito di sicurezza e dei diritti risarcitori dei lavoratori.

Solo la prassi successiva potrà però restituirci una risposta più definitiva e appagante e suggerirci eventualmente gli opportuni rimedi.

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