I 50 anni dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori: una marcia lunga e sofferta

Elena Boghetich
26 Maggio 2020

L'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori) ha sempre rappresentato una norma di grande importanza sia per gli operatori del diritto sia per i lavoratori, a tal punto da identificare praticamente lo Statuto dei lavoratori...
I 50 anni dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori: una marcia lunga e sofferta

L'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori) ha sempre rappresentato una norma di grande importanza sia per gli operatori del diritto sia per i lavoratori, a tal punto da identificare praticamente lo Statuto dei lavoratori.

La norma elaborata nel 1970 prevedeva, come è noto, la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento del danno per il periodo dal licenziamento al ripristino del rapporto per punire le ipotesi di licenziamenti inefficaci (perché comunicato oralmente) o privi di giusta causa/giustificato motivo soggettivo od oggettivo oppure nulli (in quanto discriminatori o in violazione di divieti di legge, come nel caso del matrimonio o della maternità) [1].

Requisito oggettivo imprescindibile per l'applicazione di tale disciplina era l'appartenenza del lavoratore ad una unità produttiva, di un'impresa industriale o commerciale, che avesse più di 15 dipendenti [2].

Va considerato che, quattro anni prima, era stata prevista la necessità di giustificare il licenziamento (prima del 1966 possibile ad nutum, ex art. 2118 c.c. con preavviso, o in tronco per giusta causa, ex art. 2119 c.c.) e conseguentemente introdotta la sanzione della riassunzione o, in alternativa, del risarcimento del danno da 2.5 a 12 mensilità (art. 3 e 8 legge 15 luglio 1960, n. 604).

Dunque, nel 1970, la disciplina dei licenziamenti individuali era frutto di una successiva stratificazione di interventi legislativi: il codice civile del 1942, improntato al principio liberale della perfetta uguaglianza giuridica dei contraenti (art. 2118 c.c., regime di recesso c.d. ad nutum); la legge n. 604 del 1960, che aveva recepito le soluzioni già accolte in sede di contrattazione collettiva per l'industria (accordo interconfederale del 18 ottobre 1950, rinnovato con parziali modifiche il 29 aprile 1965), che estendeva a tutti i lavoratori il regime indennitario (risarcimento del danno tra 2,5 e 12 mensilità, in alternativa alla riassunzione, che ricostituiva ex nunc il rapporto di lavoro) e, infine, lo Statuto dei lavoratori che aveva introdotto la tutela garantistica “forte” contro i licenziamenti ingiustificati.

Il nuovo clima politico che si era venuto a creare in Italia alla fine degli anni sessanta ed il favorevole quadro economico di crescita che aveva caratterizzato quegli anni avevano portato il legislatore a superare la visione paternalistica e autoritaria del padrone per introdurre nella “fabbrica” il rigoroso rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori. Il potere del datore di lavoro di recedere dal contratto a tempo indeterminato, diritto tradizionalmente concepito come di natura potestativa, aveva, dunque, perso gradualmente il carattere discrezionale che lo contraddistingueva, lasciando margine sempre più ampio alla considerazione degli interessi materiali e morali del contraente più debole [3].

La coesistenza di regimi di c.d. tutele parallele (tutela reintegratoria riservata ai lavoratori delle grandi imprese e tutela indennitaria per i lavoratori delle piccole e medie imprese) era stata ritenuta coerente dalla Corte Costituzionale che, fin dagli anni immediatamente successivi all'approvazione dello Statuto dei lavoratori, aveva sempre ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionali sollevate riguardo la disparità di trattamento dei lavoratori collocati in diverse situazioni aziendali [4].

Subito dopo l'approvazione dello Statuto la situazione economica del paese cominciò a mutare [5] e nel corso degli anni ottanta si fecero sempre più pressanti istanze di cambiamento del regime sanzionatorio dei licenziamenti ingiustificati.

Tra queste proposte di riforma dell'art. 18 St. lav. va menzionata la proposta approvata dall'Assemblea del CNEL il 4 giugno 1985 [6] che prevedeva la limitazione della reintegrazione ai soli casi di licenziamento nullo e l'estensione a tutti i datori di lavoro della sanzione alternativa, già prevista dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966, della riassunzione o del pagamento di una penale (in misura, però, notevolmente elevata, fino ad un massimo di 36 mensilità), per tutte le altre ipotesi di illegittimità del licenziamento.

Altre proposte di legge si concentravano sulla modifica del criterio quantitativo-numerico (15 dipendenti nella unità produttiva) che serviva a selezionare le “grandi” imprese e proponevano l'adozione di ulteriori criteri congiunti quali il volume d'affari o l'ammontare dei beni ammortizzabili [7].

Dunque, il mutamento del quadro economico e la necessità di maggiore competitività delle imprese avevano suggerito modifiche all'art. 18 nel senso di un nuovo equilibrio tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria; inoltre, era sempre più evidente che il criterio del numero dei dipendenti non era in grado di esprimere la reale potenzialità dell'impresa e di individuare le “grandi” imprese alle quali riservare la tutela forte della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo.

Va aggiunto che, sempre alla fine degli anni ottanta, l'enorme carico di lavoro riversato nelle aule giudiziarie aveva notevolmente dilatato i tempi della giustizia e, in parte, tradito quei principi di oralità, immediatezza, concentrazione introdotti, per il processo del lavoro, nel 1973 [8] proprio al fine di rendere più efficace la disciplina del lavoro di nuovo conio. Il mancato rispetto delle ristrette cadenze temporali previste dal rito processuale lasciava per lungo tempo (anche 10 anni, tra due gradi di giudizio di merito ed uno di legittimità) le parti, in primis il lavoratore privato dell'attività da cui traeva il sostentamento, nell'incertezza del provvedimento definitivo, e determinava ingenti quote di risarcimento del danno a carico dei datori di lavoro (che rispondevano a tale titolo di tutto il periodo trascorso tra licenziamento e sentenza definitiva) [9].

Ebbene, la montagna partorì il topolino e la legge 11 maggio 1990, n. 108 introdusse limitate novità, limitandosi a fortificare il criterio quantitativo-numerico e aggiungendo al parametro dei 15 dipendenti nell'unità produttiva quello dei 60 dipendenti sul territorio nazionale [10].

L'art. 18, pertanto, salvo qualche piccolo restyling, restò immutato per oltre 40 anni.

Con le riforme del 2012 (legge 28 giugno 2012 n. 92, c.d. legge Fornero) e del 2015 (legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 e d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, c.d. Jobs Act) è stato modificato radicalmente il sistema sanzionatorio appena descritto: si è proceduto ad una destrutturazione dell'unitarietà dell'art. 18 St.lav. e all'introduzione di distinte tipologie di sanzioni, calcolate in base alla gravità del vizio.

Queste riforme non hanno inciso sui concetti di giusta causa e giustificato motivo (art. 3 della legge n. 604 del 1966), ma hanno disciplinato diversamente le conseguenze del licenziamento invalido: la reintegrazione nel posto di lavoro è rimasta per sanzionare i licenziamenti estremamente gravi (nulli, discriminatori, adottati in violazione di legge o diretti a colpire condotte in realtà insussistenti) ed è stata estesa a tutti i lavoratori (anche ai dirigenti) e a tutte le imprese, a prescindere dalla consistenza dell'organico, in modo da costituire un fermo presidio dei diritti fondamentali del lavoratore, in primis la sua dignità; in tutti gli altri casi è stata prevista una tutela indennitaria variamente graduata, nel minimo e nel massimo, non solo sulla base del numero di dipendenti dell'impresa ma anche a seconda del tipo di vizio (formale o sostanziale) del recesso e della gravità dei fatti.

Più in particolare, le legge Fornero ha modificato l'art. 18 St.lav. inserendo 4 tipologie di sanzioni: l'originaria sanzione della reintegrazione e dell'integrale risarcimento del danno (per il periodo dal licenziamento al ripristino del rapporto) è rimasta per i vizi più gravi del licenziamento, sopra ricordati (primi 3 commi); per i licenziamenti disciplinari, nei casi di “insussistenza del fatto contestato” o di previsione contrattuale collettiva di sanzioni conservative per i medesimi fatti, è stata mantenuta la sanzione reintegratoria ma l'indennità risarcitoria è limitata ad un massimo di 12 mensilità (comma 4); in tutte le altre ipotesi, ossia in caso di accertata illegittimità di un licenziamento disciplinare per difetto di proporzionalità tra condotta e sanzione, il rapporto di lavoro si risolve e si applica la tutela che ha valenza di carattere generale (comma 5) [11]; nell'ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, infine, la tutela reintegratoria si applica solamente nell'ipotesi in cui il giudice “accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” (comma 7 che rinvia ai commi 4 e 5).

La disciplina sostanziale è stata distinta da quella formale e, pertanto, in presenza di vizi meramente formali del licenziamento, si applica una sanzione indennitaria (art. 18, comma 6).

La riforma del 2015 ha introdotto una nuova disciplina che si aggiunge a quella preesistente e che si applica ai contratti di lavoro stipulati successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo (7 marzo 2015). Sono previste differenti sanzioni rapportate ad un livello differente di gravità: la tutela reintegratoria piena (art. 2) - identica a quella prevista dai primi tre commi dell'art. 18 (novellato nel 2012) e dall'originario art. 18 - per i casi di licenziamento nullo o verbale; la tutela reintegratoria con risarcimento limitato, per i casi di assenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo determinati dall'insussistenza del fatto contestato (art. 3, comma 2); la tutela indennitaria, di carattere generale, per tutte le ipotesi di licenziamento invalido nelle quali non si applica la reintegra (art. 3, comma 1); la tutela dimezzata in ipotesi di vizi di forma (art. 4).

Ebbene, è interessante notare come la crisi energetica del 1973, le difficoltà del mercato del lavoro dovute alla trasformazione del sistema industriale e alle innovazioni tecnologiche degli anni ottanta avevano condotto un così autorevole organo consultivo quale il CNEL ad elaborare una riforma dell'art. 18 St. lav. che prevedeva un nuovo e diverso equilibrio tra tutela reintegratoria (da circoscrivere ai licenziamenti nulli) e tutela indennitaria (da applicare nella generalità degli altri casi, con importi anche sino a 36 mensilità). Parallelamente, il legislatore del XXI secolo, di fronte ad aggressivi macro-fenomeni economici e culturali quali la globalizzazione del mercato del lavoro e la digitalizzazione dell'impresa, che impongono alle aziende – pena la loro sopravvivenza - di inseguire senza sosta nuovi modelli di innovazione e di competititivà, ha optato per la medesima soluzione, riservando la tutela forte della reintegrazione per i licenziamenti più gravi e articolando la tutela indennitaria quale regime di carattere generale.

Dunque, la manutenzione dell'art. 18 St.lav. del 2015 non è giunta inaspettata.

Volendo aggiungere qualche elemento di miglioramento dell'attuale assetto normativo si rileva che il sistema dovrebbe essere perfezionato con l'introduzione di un corretto criterio di selezione delle imprese al fine di graduare con equità il risarcimento del danno (posto che il sopravvissuto criterio quantitativo-numerico delle dimensioni dell'organico non è in grado di intercettare la reale potenzialità economica delle imprese di fronte ad una massiccia informatizzazione delle stesse e rischia di accentuare sempre di più la disparità di trattamento che sussiste tra lavoratori appartenenti a imprese con un organico inferiore o superiore ai 15 dipendenti, anche a parità di gravità della condotta datoriale).

E proprio in ordine alle modalità di calcolo dell'indennità che il giudice deve applicare ove ritenga illegittimo il licenziamento possono essere esposte alcune, ultime, riflessioni.

Come sottolineato, il testo originario dell'art. 18 St.lav. prevedeva la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro e dell'integrale risarcimento del danno per tutti i casi di licenziamento ritenuto illegittimo: erano accomunati nella stessa sanzione sia i vizi formali sia qualunque vizio sostanziale del recesso datoriale. Il giudice del lavoro non era, pertanto, sollecitato a scandagliare e soppesare le cause di giustificato motivo o di giusta causa che sorreggevano il licenziamento, in quanto era sufficiente che il lavoratore deducesse fondatamente, nel suo ricorso giudiziale, la violazione di un requisito formale dell'atto di recesso perché ottenesse la reintegrazione nel posto di lavoro.

Le riforme del 2012 e del 2015, modulando diversi regimi di sanzione anche in ragione della natura, formale o sostanziale, del vizio del licenziamento, hanno imposto ai giudici di affinare le loro capacità e sensibilità, dovendosi discettare non solo di regolarità formale del recesso o al più di proporzionalità della sanzione all'infrazione disciplinare, ma anche confrontarsi con concetti complessi come “insussistenza del fatto contestato” [12] e “manifesta insussistenza” delle ragioni organizzative e produttive del licenziamento [13].

Quindi, la destrutturazione dell'unitarietà dell'art. 18 St.lav. in diverse tipologie di tutela ha, da un lato, richiesto una più raffinata capacità di analisi e, dall'altro, ha ampliato l'ambito di discrezionalità del giudice, discrezionalità - che va usata (e, in realtà, è abitualmente usata) secondo prudente apprezzamento - che, nel rispetto dei parametri posti dal legislatore, è l'unico modo che consente di cogliere le peculiarità che ogni recesso presenta.

Con riguardo ai parametri posti dal legislatore, va ricordato il recente intervento della Corte costituzionale [14] che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015 nella versione originale e nel testo novellato dal decreto legge 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. decreto Dignità, convertito con modificazioni dalla legge n. 96 del 2018) nella parte in cui collegava l'indennità per il licenziamento illegittimo unicamente ad un mero automatismo agganciato all'anzianità di servizio del lavoratore. La Corte, dopo aver rilevato che la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro non riceve copertura di rango costituzionale, ha indicato al giudice i criteri da considerare nel calcolo dell'indennità prevista quale regime generale per l'ingiustificatezza dei licenziamenti, richiamando innanzitutto l'anzianità di servizio nonché gli altri parametri desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (e dunque dell'art. 8 della legge n. 604 del 1966 e dell'art. 18, comma 5, St. lav., ossia numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'impresa, comportamento e condizioni delle parti).

Si tratta di indicazioni che potranno rivelarsi preziose per la nuova sfida interpretativa posta dall'art. 2 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 e concernente le nuove categorie di lavoratori (le collaborazioni continuative, prevalentemente personali ed etero-organizzate) posto che l'applicabilità in via generale della disciplina del lavoro subordinato ai collaboratori etero-organizzati non può escludere “situazioni in cui l'applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile” con le collaborazioni etero-organizzate “che per definizione non sono comprese nell'ambito dell'art. 2094 cod. civ.” [15].

Note

[1] Il risarcimento non poteva essere inferiore a 5 mensilità della retribuzione globale di fatto (a prescindere dal momento in cui interveniva la decisione giudiziale, che normalmente veniva ottenuta in tempi più ampi di 5 mesi); spettava, altresì, il versamento dei contributi previdenziali dal giorno del licenziamento alla data di effettivo ripristino del rapporto di lavoro.

[2] In specie, 15 dipendenti nell'unità produttiva o nel medesimo ambito comunale oppure 5 dipendenti per le unità produttive delle imprese agricole (art. 35 St. lav.).

[3] Cfr. P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1984, p. 269; F. Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1985, p. 252.

[4] Cfr. sentenze n. 55/1974; n. 152/1975; n. 189/1975; n. 2/1986; per la Cassazione, la teoria delle c.d. tutele parallele è stata confermata dalle Sezioni Unite n. 6068/1983. La Corte Costituzionale aveva ravvisato la razionalità della disciplina differenziata nell'opportunità di non gravare di oneri eccessivi le piccole imprese, nel criterio della fiduciarietà del rapporto di lavoro e nella esigenza di evitare “tensioni da reintegra” nei ristretti ambienti di lavoro.

[5] Già nel 1973 vi era stata la c.d. crisi energetica, con il brusco aumento del prezzo del petrolio; il modello di impresa fordista appariva ormai anacronistico e le aziende – sotto la spinta di una evoluzione tecnologica che aveva rivoluzionato i cicli produttivi ed accentuato il decentramento produttivo e una più duttile suddivisione del lavoro – si orientavano verso nuovi modelli di competitività.

[6] Il documento è stato pubblicato a cura del CNEL con il titolo “Osservazioni e proposte sulla revisione della legislazione sul rapporto di lavoro”, Roma, 1985, relatore il consigliere Mengoni.

[7] Cfr. il disegno di legge del senatore Giugni presentato sia il 17.10.1985, con il n. 1537, sia nella successiva legislatura, il 24 luglio 1987, con il n. 305 che prevedeva la selezione delle tutele (reintegratoria o indennitaria) in base al requisito occupazionale e al concorrente riferimento al volume di affari dell'impresa; il disegno di legge dell'onorevole Ghezzi dell'11 dicembre 1988, n. 2324, che affiancava al numero dei dipendenti il criterio dell'ammontare dei beni ammortizzabili.

[8] Cfr. legge 11 agosto 1973, n. 533.

[9] Periodo dilatato altresì da un'impugnativa del licenziamento spesso effettuata dal lavoratore non in prossimità del licenziamento bensì nell'arco della prescrizione quinquennale. Su questo aspetto, è successivamente intervenuto l'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183 che ha previsto un doppio sistema di decadenze per tutti i casi di invalidità del licenziamento e per ulteriori ipotesi (illegittimità del termine apposto ad un contratto a tempo determinato, art. 2112 c.c., datore di lavoro fittizio).

[10] La soglia dimensionale venne individuata, alternativamente, in 15 dipendenti nella stessa unità produttiva (o nello stesso ambito comunale) ovvero in 60 a livello nazionale. Pertanto, per i datori di lavoro che avevano un numero di dipendenti fino a 15 dipendenti in una o più sedi collocate nello stesso comune ovvero fino a 60 sull'intero territorio nazionale trovava applicazione la tutela obbligatoria, mentre per i datori di lavoro che avevano almeno 16 dipendenti nella stessa unità produttiva (o nello stesso comune) ovvero almeno 61 sul territorio nazionale, trovava applicazione la tutela reale. Il legislatore, inoltre, dimostrò una particolare sensibilità per le attività dei datori di lavoro, non imprenditori, senza fine di lucro che perseguivano determinate finalità: vennero, dunque, attratti alla tutela forte tutti i datori di lavoro non imprenditori che superavano i requisiti dimensionali dei 15 o dei 60 dipendenti, ma rimanevano nell'area della tutela obbligatoria i datori di lavoro anche di grandi dimensioni che perseguivano finalità tali da connotare specificamente l'attività aziendali ossia le attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione e di religione e di culto (le c.d. organizzazioni di tendenza. Sulla costituzionalità di tale esclusione, cfr. Corte Cost. n. 189/1975; Corte cost. n. 2/1986).

[11] In ordine al carattere generale della tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, cfr., ex multis, Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017. Un corollario della nuova struttura sanzionatoria è che può dirsi venuto meno il principio di stabilità del posto di lavoro, nel senso che anche per i lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti non sempre e non necessariamente ad un licenziamento invalido corrisponde la reintegra nel posto di lavoro e il pieno risarcimento del danno. Ciò ha una rilevante ricaduta sulla decorrenza dei termini di prescrizione per i crediti derivanti dal rapporto di lavoro, in quanto una volta che sia venuta meno la stabilità reale come principio di carattere generale, tutti i crediti di lavoro non potranno che decorrere dalla data della cessazione del rapporto di lavoro.

[12] La giurisprudenza ha precisato che il comma 4 dell'art. 18 include l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità (Cass. n. 11322/2018), disponendo così la reintegrazione per condotte prive dei caratteri dell'antigiuridicità (Cass. n. 18418/2016). Con riguardo ai contratti collettivi ed alle sanzioni conservative dagli stessi predisposte, la giurisprudenza ha precisato che l'interpretazione estensiva di clausole contrattuali è consentita solo ove risulti la “inadeguatezza per difetto” dell'espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà e che solo ove il fatto contestato ed accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell'art. 18 novellato (Cass. n. 12365/2019; Cass. n. 31839/2019).

[13] La giurisprudenza è giunta a chiarire che la sussistenza di questo requisito concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (c.d. repechage). Fermo l'onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 della legge n. 604 del 1966, la “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso (Cass. n. 10435/2018; Cass. n. 32159/2018; Cass. n. 29102/2019).

[14] Corte cost. n. 194/2018.

[15] Cass. n. 1663/2020.

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