Procedimento in camera di consiglio

Mauro Di Marzio
27 Maggio 2020

Il tema dei procedimenti in camera di consiglio, disciplinati dagli artt. 737-742-bis c.p.c., suscita da sempre interrogativi di carattere sistematico concernenti la relazione tra essi ed il campo della giurisdizione volontaria.
Inquadramento

Il tema dei procedimenti in camera di consiglio, disciplinati dagli artt. 737-742-bis c.p.c., suscita da sempre interrogativi di carattere sistematico concernenti la relazione tra essi ed il campo della giurisdizione volontaria (v. L. Di Cola, Giurisdizione volontaria, su www.ilprocessocivile.it), relazione resa palese dall'art. 778 del codice di rito previgente, il quale si riferiva ad essa e alle «altre materie da trattare senza contraddittore», poi apparentemente recisa dal codice del 1942, che ha collocato il procedimento camerale nel titolo dedicato ai procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, ma in seguito ripristinata per effetto dell'introduzione, con la novella del 1950, dell'art. 742-bis c.p.c., che estende l'applicazione del procedimento in questione «a tutti i procedimenti in camera di consiglio, ancorché non regolati dai capi precedenti o che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone».

Al tema della relazione tra procedimenti in camera di consiglio e volontaria giurisdizione si riconnette quello della catalogazione e del raggruppamento di detti procedimenti, la cui applicazione si è nel corso del tempo ampiamente dilatata, con l'introduzione di nuove ipotesi largamente eterogenee, sì da rendere difficoltosa, se non velleitaria, l'individuazione di un tratto unificante tra di essi o, almeno, con riguardo a categorie omogenee di procedimenti. Basti considerare, solo per cenni e senza alcuna pretesa di completezza, che il procedimento camerale trova applicazione con riguardo alla modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, alla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, alla dichiarazione di adottabilità, al ricorso contro il rifiuto d'iscrizione nel registro elle imprese, a taluni procedimenti dinanzi al garante della privacy, ad una pluralità di procedimenti in materia di immigrazione e protezione internazionale, al procedimento disciplinare notarile e ad altri procedimenti concernenti ordini, al rifiuto del conservatore di cancellazione di ipoteca.

Sarà sufficiente qui dire, lasciando in disparte l'ampio dibattito dottrinale, che le regole sul procedimento camerale trovano applicazione sia in caso di procedimenti unilaterali, effettivamente riconducibili all'ambito della volontaria giurisdizione, sia in caso di procedimenti bilaterali o plurilaterali vertenti su diritti e indubbiamente connotati in senso contenzioso. A questo riguardo, come è stato detto, la giurisdizione camerale, sorta come attività di amministrazione del diritto affidata ad organi giurisdizionali, caratterizzata, sotto il profilo strutturale, dalla revocabilità e dalla modificabilità e, sotto quello funzionale, dal non incidere su diritti, è finita col divenire, per le scelte compiute dal legislatore, come un contenitore neutro, che può assicurare, da un lato, la speditezza e la concentrazione del procedimento ed essere, dall'altro, rispettosa dei limiti imposti all'incidenza della forma procedimentale dalla natura della controversia che in quanto relativa a diritti o status gode di apposite garanzie costituzionali (Cass. civ., Sez. Un., 19 giugno 1996, n. 5629).

In generale, il procedimento camerale si connota per il fatto di non svolgersi in pubblica udienza, nonché per una marcata deformalizzazione rispetto al procedimento ordinario di cognizione. Si tratta cioè di uno strumento semplice ed elastico, che non contempla predeterminate scansioni processuali, né espressi meccanismi preclusivi o decadenziali, e che riconosce ampi poteri di direzione del procedimento, anche sul piano istruttorio, al giudice, cui compete di disporre l'assunzione di informazioni anche in via officiosa.

La decisione ha forma di decreto motivato, di regola reclamabile, oltre che revocabile e modificabile e, come tale, non idoneo ad acquistare autorità di giudicato.

Forma della domanda e del provvedimento

Il procedimento si introduce con ricorso, che deve possedere i requisiti previsti dall'art. 125 c.p.c. La competenza territoriale è inderogabile, ex art. 28 c.p.c., ma l'incompetenza deve essere eccepita entro la prima udienza (Cass. civ., 2 aprile 2012, n. 5257; Cass. civ., 31 luglio 2019, n. 20661; Cass. civ., 7 luglio 2017, n. 28711).

Il ricorso va notificato alla controparte nel termine fissato dal giudice, termine ordinatorio che può essere prorogato su richiesta formulata prima della scadenza (Cass. civ., 16 ottobre 2019, n. 26267; in sede di impugnazione regolata dal rito camerale v. Cass. civ., 11 settembre 2014, n. 19203).

Il tribunale, ai sensi dell'art. 50-bis, u.c., c.p.c., giudica in composizione collegiale, salvo che la legge (e molti sono i casi, basti pensare a numerosi interventi del giudice in materia successoria: v. M. Di Marzio, Apposizione e rimozione di sigilli e Eredità giacente su www.ilprocessocivile.it) non disponga altrimenti.

Il provvedimento con cui il procedimento si chiude ha normalmente forma di decreto motivato (ma v. p. es. l'art. 750 c.p.c., in tema di cauzione imposta all'erede ecc., che prevede l'ordinanza), sicché la motivazione può essere sintetica.

In evidenza

In materia di equa riparazione, p. es., è stato detto che la sufficienza della motivazione del decreto va valutata in coerenza con il tipo del provvedimento (benché esso abbia natura sostanziale di sentenza) e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare: ciò implica che l'onere motivazionale deve ritenersi adempiuto qualora si accerti che il giudice ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, esplicitando le ragioni del suo convincimento (Cass. civ., 27 settembre 2006, n. 21020).

La disciplina sulle spese di lite si applica in caso di decreto pronunciato in un contesto di contrapposizione di interessi (per il governo delle spese nel procedimento di reclamo v. infra), non invece se il procedimento abbia natura volontaria, come, ad es., quello avverso il rifiuto del Conservatore dei registri immobiliari (oggi Agenzia del territorio) di eseguire una trascrizione (Cass. civ., 28 gennaio 2011, n. 2095). Così, nel procedimento camerale previsto dall'art. 2192 c.c., nel quale il tribunale provvede su reclamo avverso il decreto emesso dal giudice del registro, benché esso sia destinato a concludersi con un decreto non direttamente incidente su posizioni di diritto soggettivo, ma volto alla gestione di un pubblico registro a tutela di interessi generali, è legittima la condanna al pagamento delle spese processuali, pronunciata in favore di colui il quale, partecipando al procedimento in forza di interessi giuridicamente qualificati, le abbia anticipate e tale condanna ben può fondarsi sulla soccombenza processuale dei controinteressati, o del ricorrente nei confronti di questi ultimi, nel contrasto delle rispettive posizioni soggettive (Cass. civ., 23 febbraio 2012, n. 2757).

In caso di liquidazione delle spese operata a fronte di un decreto di volontaria giurisdizione è ammesso il ricorso straordinario per cassazione (Cass. civ., 28 gennaio 2011, n. 2095; Cass. civ., 20 settembre 2015, n. 15131).

Procedimento

Il presidente nomina tra i componenti del collegio un relatore, che riferisce in camera di consiglio. Se deve essere sentito il pubblico ministero, gli atti gli vanno comunicati. Peraltro (è stato detto in caso di controversia sulla infrazionabilità delle unità poderali, da trattarsi con il rito camerale) la mancata partecipazione del pubblico ministero al giudizio di primo grado ne determina la nullità ai sensi dell'art. 158 c.p.c., con la conseguenza che, se tale nullità è denunciata in appello in base all'art. 161 c.p.c., non può il giudice del gravame rimettere gli atti al primo giudice, ma, dichiarata la nullità, deve decidere la causa nel merito dopo aver disposto che al giudizio di impugnazione partecipi il pubblico ministero (Cass. civ., 22 luglio 2009, n. 17161).

La disciplina del procedimento cautelare non reca disposizioni specificamente dettate a regolare il suo dipanarsi e, in particolare, lo svolgimento della fase di trattazione e di quella istruttoria, rimettendo al giudice la direzione del procedimento medesimo, secondo le esigenze del caso, ferma comunque la necessità di instaurazione del contraddittorio nei confronti degli interessati. Così, nel giudizio camerale di opposizione che lo straniero promuova avverso il decreto prefettizio di espulsione emesso dopo l'entrata in vigore della l. 30 luglio 2002, n. 189, pur non essendo richiesta l'audizione personale del ricorrente, entrambe le parti hanno diritto, in ossequio al principio del contraddittorio, di essere tempestivamente avvertite dalla cancelleria, tramite avviso, dell'udienza in camera di consiglio fissata per la trattazione del ricorso (Cass. civ., 22 febbraio 2006, n. 3841).

La fase istruttoria è dunque deformalizzata, sicché, in mancanza della denuncia di precise e concrete menomazioni della difesa sotto il profilo del rispetto del principio del contraddittorio, è inammissibile la censura genericamente accampata dal ricorrente con riferimento alla presunta violazione delle norme sul modo di deduzione della prova testimoniale (art. 244 c.p.c.), sulla prestazione del giuramento (art. 251 c.p.c.) e sulle modalità di interrogazione del testimone (artt. 253 e 231 c.p.c.) (Cass. civ., 9 giugno 2005, n. 12173).

Competono inoltre al giudice poteri officiosi più incisivi di quelli dettati per il procedimento ordinario. In tema di equa riparazione, ad es., il giudice, anche in considerazione della specifica disciplina della materia, non può addebitare alla mancata produzione documentale, da parte dell'istante, degli atti della causa presupposta il mancato accertamento della violazione della ragionevole durata del processo: difatti, in coerenza con il modello procedimentale, di cui agli artt. 737 ss. c.p.c., prescelto dal legislatore, spetta al giudice verificare, in concreto e con riguardo alla singola fattispecie, se vi sia stata violazione del termine ragionevole di durata (Cass. civ., 26 luglio 2011, n. 16367). Più in generale, «non è dubbio che il giudice è svincolato dalle iniziative istruttorie delle parti e può procedere con poteri inquisitori, che si estrinsecano attraverso l'assunzione di informazioni, indipendentemente dal comportamento o dalle istanze di parte … E, in questo contesto, può anche decidere senza necessità di ricorrere ad altre fonti di prova. Ma, ove egli ritenga, nel suo prudente apprezzamento, insufficienti, ai fini probatori, le informazioni assunte, e necessario ricorrere alle fonti di prova disciplinate dal codice di rito, non può sostituirsi alla parte, esercitandone i poteri di allegazione, di deduzione ed eccezione ad essa spettanti» (Cass. civ., 28 luglio 2004, n. 14200).

In evidenza

Il potere attribuito al giudice dall'art. 738 c.p.c. di assumere informazioni è dunque «assai più ampio di quello previsto dall'art. 213 c.p.c., perché non ha esclusivamente come destinatario una p.a., ma può essere indirizzato nei confronti di qualsiasi soggetto pubblico e privato in grado di fornire elementi affidabili e postula che le risposte possano essere fornite con qualunque mezzo di comunicazione, compresi quelli tecnologicamente più avanzati» (Corte cost., 26 febbraio 2002, n. 35).

Tuttavia, il potere riconosciuto al giudice dall'art. 738, comma 2, c.p.c. costituisce oggetto di una mera facoltà e non di un obbligo, sicché il suo mancato esercizio non determina l'inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento camerale ed è incensurabile in cassazione (Cass. civ., 25 novembre 2011, n. 24965). È stato tuttavia affermato che il giudice deve esercitare poteri officiosi anche mediante l'applicazione estensiva ed analogica delle disposizioni del processo di cognizione, sicché è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio richiedendo i necessari chiarimenti (ex art. 183, comma 4, c.p.c.) e, se del caso, assumendo sommarie informazioni da soggetti terzi (ex art. 738, comma 3, c.p.c.), sempreché tale modalità di acquisizione di elementi di giudizio non sia impiegata per supplire all'onere probatorio o con finalità meramente esplorative (Cass. civ., 4 marzo 2015, n. 4412).

Il reclamo

Il reclamo è regolato dall'art. 739 c.p.c. il quale distingue tra decreti del giudice tutelare e decreti del tribunale, gli uni reclamabili al tribunale, gli altri alla corte d'appello. Non sono invece reclamabili, salvo non sia diversamente disposto, i decreti della corte d'appello e quelli del tribunale resi in sede di reclamo (ma, a tal riguardo, si deve aggiungere che la non reclamabilità dei decreti camerali può comportare, ove si tratti di provvedimenti decisori e definitivi, l'ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost.: v. p. es. ex multis Cass. civ., 7 maggio 2019, n. 12018, in tema di decreto pronunciato dalla corte d'appello in sede di reclamo avverso il provvedimento del tribunale in materia di modifica delle condizioni della separazione personale concernenti l'affidamento dei figli ed il rapporto con essi, ovvero la revisione delle condizioni inerenti ai rapporti patrimoniali fra i coniugi ed il mantenimento della prole).

La norma non si pronuncia espressamente sulla reclamabilità dei provvedimenti del tribunale in composizione monocratica; quantunque l'art. 739, comma 1, c.p.c. si riferisca soltanto ai decreti del giudice tutelare ed a quelli emessi dal tribunale in camera di consiglio, è tuttavia senz'altro da ritenere che siano anch'essi reclamabili. Sulla controvertibile questione dell'identificazione del giudice competente per il reclamo la S.C. ritiene che, in applicazione dell'art. 739, comma 1, norma comune alla generalità dei provvedimenti emessi in camera di consiglio, esso spetti alla corte d'appello (Cass. civ.,6 agosto 2010, n. 18427; Cass. civ.,19 agosto 2010, n. 18737; Cass. civ.,29 ottobre 2010, n. 22153).

Resta fermo che, anche nel campo dell'identificazione della disciplina del reclamo, occorre verificare di volta in volta l'esistenza di specifiche disposizioni processuali concernenti lo specifico procedimento camerale del quale ci si debba occupare. Ad es., l'art. 720-bis, comma 2,c.p.c., prevede espressamente che contro i decreti del giudice tutelare «in materia di amministrazione di sostegno» il reclamo sia proposto non dinanzi al tribunale, bensì alla corte d'appello, disposizione che, pertanto, prevale, avendo carattere speciale, su quella generale risultante dall'art. 739 c.p.c. e art. 45 disp. att. c.c. Con il citato art. 720-bis, comma 2, c.p.c. che nella sua chiarezza è insuscettibile di una diversa interpretazione, il legislatore ha inteso concentrare presso la corte d'appello le impugnazioni avverso i provvedimenti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno, senza necessità di dover indagare sulla natura (decisoria o ordinatoria) dei relativi provvedimenti, diversamente da quanto accade ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, rispetto al quale viene in rilievo la diversa tematica riguardante l'interpretazione dell'art. 111 c.c., comma 7, in relazione all'art. 720-bis c.p.c., comma 3 (Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32409).

Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di 10 giorni dalla comunicazione del decreto, si è dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione si è dato in confronto di più parti.

Per la determinazione del termine di impugnazione occorre dunque distinguere tra procedimenti unilaterali e procedimenti bilaterali o plurilaterali. I provvedimenti emanati in camera di consiglio sono cioè impugnabili mediante reclamo da proporsi nel termine perentorio di dieci giorni decorrente dalla notificazione, o nel termine di cui all'art. 327 c.p.c., in mancanza di notificazione, quando il procedimento richiede la presenza necessaria di più parti, ovvero decorrente dalla comunicazione quando il provvedimento è dato nei confronti di una sola parte (Cass. civ., 26 luglio 1989, n. 3505, che ha cassato il decreto della corte d'appello con cui era stato dichiarato inammissibile il reclamo proposto, in procedimento plurilaterale, oltre il termine di dieci giorni dalla comunicazione del dispositivo del decreto del tribunale da parte della cancelleria, ma non oltre dieci giorni dalla notifica successivamente intervenuta).

In evidenza

Nei procedimenti in camera di consiglio che si svolgono nei confronti di più parti, dunque, ed anche in quelli contenziosi assoggettati per legge al rito camerale, è la notificazione del decreto effettuata ad istanza di parte e non la comunicazione del cancelliere a far decorrere, tanto per il destinatario della notifica quanto per il notificante, il termine di dieci giorni per la proposizione del reclamo ai sensi dell'art. 739, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., 25 settembre 2017, n. 22314).

Poiché il reclamo si introduce con ricorso, la tempestività va verificata in relazione alla data del suo deposito, e non a quella della sua successiva notificazione, all'esito del decreto di fissazione dell'udienza. Quanto alla questione degli effetti dell'omessa (o inesistente) notificazione del ricorso per reclamo pur tempestivamente depositato, occorre anzitutto rammentare il dictum, di portata generale, di Cass. civ., Sez. Un. 30 luglio 2008, n. 20604, secondo cui, nel rito del lavoro l'appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia avvenuta. Va poi precisato che Cass. civ., Sez. Un., 12 marzo 2014, n. 5700, ha raggiunto l'opposta conclusione con riguardo al caso del ricorso per equa riparazione, secondo il modello processuale previgente, e dunque in un'ipotesi di rito camerale: ma ciò ha fatto valorizzando la distinzione tra detto procedimento e quelli di impugnazione, o anche di opposizione a decreto ingiuntivo, i quali presuppongono dall'altro lato la legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un confine temporale rigorosamente predefinito e ragionevolmente breve, di un provvedimento giudiziario già emesso. Di guisa che il reclamo camerale, attesa la sua natura impugnatoria, sembra dover essere sottoposto alla regola secondo cui l'omessa o inesistente notificazione del ricorso con il pedissequo decreto di fissazione dell'udienza determina l'improcedibilità del medesimo (ma, per l'affermazione del principio secondo cui nel procedimento camerale di modifica delle condizioni di divorzio, il reclamo proposto alla corte di appello, avverso il provvedimento reso dal tribunale, non è improcedibile se sia stata omessa, nel termine assegnato dal giudice e non prorogato anteriormente alla sua scadenza, la notificazione del ricorso con l'unito decreto di fissazione dell'udienza, poiché alla parte può essere concesso un nuovo termine, ex art. 291 c.p.c., per la rinotifica, v. Cass. civ., 14 ottobre 2014, n. 21669, che si rifà appunto alla citata sentenza delle Sezioni Unite del 2014, senza avvedersi che essa non si riferisce ai procedimenti di natura spiccatamente impugnatoria).

Nulla dice l'art. 739 c.p.c. in ordine alla configurazione del procedimento. Al riguardo la S.C. ha affermato che nel rito camerale, adottato dal legislatore in determinate materie, anche quando trattasi di procedimenti concernenti l'interesse dei minori e, quindi, comportanti indiscussi poteri d'ufficio, al giudizio di secondo grado nascente dal reclamo

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è applicabile, pur in difetto di un espresso richiamo all' art. 342 c.p.c., il principio della specificità dei motivi di impugnazione, da tale norma sancito per il giudizio di appello, non essendo bastevole neppure la mera riproposizione delle questioni già affrontate e risolte dal primo giudice, dovendo invece tale forma di gravame contenere specifiche critiche al provvedimento impugnato ed esporre le ragioni per le quali se ne chiede la riforma. Il reclamo, infatti, costituisce un mezzo di impugnazione, ancorché devolutivo e come tale ha per oggetto la revisione della decisione di primo grado, nei limiti del devolutum e delle censure formulate (Cass. civ., 14 dicembre 2018, n. 32525, che richiama Cass. civ., n. 6671/2006; Cass. civ., n. 4719/2008; Cass. civ., n. 3924/2012).

È nullo il decreto camerale che ha definito il giudizio di reclamo prima della celebrazione dell'udienza di discussione (Cass. civ., 29 marzo 2018, n. 7875).

Quanto alle spese, occorre dire che in sede di reclamo esse vanno sempre liquidate. È cioè legittima la condanna alle spese giudiziali nel procedimento promosso in sede di reclamo, ex art. 739 c.p.c., avverso provvedimento reso in camera di consiglio, atteso che ivi si profila comunque un conflitto tra parte impugnante e parte destinataria del reclamo, la cui soluzione implica una soccombenza che resta sottoposta alle regole dettate dagli artt. 91 e ss. c.p.c. e che, inoltre, se lo sviluppo del procedimento nella fase di impugnazione non può ovviamente conferire al procedimento stesso carattere contenzioso in senso proprio, si deve tuttavia riconoscere che in tale fase le posizioni delle parti con riguardo al provvedimento dato assumono un rilievo formale autonomo, che dà fondamento alla applicazione estensiva dell'art. 91 c.p.c. (Cass. civ., 28 novembre 2017, n. 28331).

Efficacia e revocabilità dei provvedimenti

I decreti, ai sensi dell'art. 741 c.p.c., acquistano efficacia quando sono decorsi i termini per il reclamo, ma se vi sono ragioni d'urgenza, il giudice può tuttavia disporre che il decreto abbia efficacia immediata.

I decreti possono essere inoltre in ogni tempo modificati o revocati, secondo l'art. 742 c.p.c., ma restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca.

La revoca, che può riguardare tanto il provvedimento negativo che quello positivo, segue ad un procedimento sovrapponibile a quello precedentemente svolto, e destinato a concludersi con un decreto che sostituisce quello precedente, anche nell'ipotesi in cui esso finisca in realtà per riaffermare il contenuto del precedente decreto, ove la domanda di revoca venga disattesa.

Ovviamente la revoca riguarda i provvedimenti volontari, ossia quelli che non hanno attitudine ad acquistare autorità di giudicato, e che, come tale, sono immodificabili. Non possono ritenersi revocabili, dunque, i provvedimenti decisori su diritti, adottati al termine di procedimenti camerali contenziosi.

La competenza alla revoca spetta al giudice che ha emesso il provvedimento.

Riferimenti
  • Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964;
  • Arieta, Procedimento camerale, in Dig. disc. priv. sez. civ., XIV, Torino 1996;
  • Civinini, I procedimenti in camera di consiglio, Torino 1994;
  • Fazzalari, Giurisdizione volontaria, in Enc. Dir., XIX, Milano 1970, 330;
  • Jannuzzi-Lorefice, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2006;
  • Micheli, Camera di consiglio (diritto processuale civile), in Enc. Dir., V, Milano 1959, 981.

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