Marketplace: uso del marchio altrui nello stoccaggio di beni contraffatti

27 Maggio 2020

Un soggetto che conservi per conto di un terzo prodotti che violano un diritto di marchio, senza essere a conoscenza di tale violazione, si deve ritenere che non stocchi tali prodotti ai fini della loro offerta o della loro immissione in commercio ai sensi delle succitate disposizioni, qualora non persegua essa stessa dette finalità.
Massima

Un soggetto che conservi per conto di un terzo prodotti che violano un diritto di marchio, senza essere a conoscenza di tale violazione, si deve ritenere che non stocchi tali prodotti ai fini della loro offerta o della loro immissione in commercio ai sensi delle succitate disposizioni, qualora non persegua essa stessa dette finalità.

Il caso

La società di diritto tedesco Coty Germany, nota società distributrice di prodotti cosmetici e profumi, è licenziataria del marchio “DAVIDOFF” nel territorio dell'Unione Europea. Nell'ambito dell'attività di monitoraggio del mercato svolta da Coty Germany, un suo “mistery-shopper” ha inoltrato per suo conto un ordine per un flacone di profumo “Davidoff Hot Water”, tramite il sito Internet www.amazon.de, nella sezione “Amazon-Marketplace” (ossia il mercato di terze parti di Amazon).

Attraverso il “Marketplace” di Amazon, soggetti terzi offrono in vendita e commercializzano i propri prodotti aderendo al programma “Amazon-Logistic”, nell'ambito del quale i prodotti sono conservati presso centri logistici appartenenti a società del gruppo Amazon, per essere poi spediti agli acquirenti finali.

Il flacone di profumo “Davidoff Hot Water” acquistato dal “mistery-shopper” di Coty Germany è risultato – una volta consegnato da Amazon – contraffatto.

Coty Germany, dunque, ha deciso di avviare un'azione nei confronti di alcune società del gruppo Amazon per violazione dei diritti di esclusiva sul marchio “DAVIDOFF”. Nello specifico, Coty Germany ha chiesto che ad Amazon venisse ordinato di astenersi dallo stoccare o spedire, o far stoccare o far spedire, in Germania, profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water” ai fini della loro immissione in commercio (eventualmente da parte di terzi), se tali prodotti non fossero stati immessi in commercio nell'Unione europea con il suo consenso (risultando – quindi – contraffatti).

Il Landgericht München (Tribunale del Land di Monaco) ha respinto in primo grado l'azione proposta da Coty Germany. Quest'ultima è risultata soccombente anche in secondo grado;l'Oberlandesgericht München (Tribunale superiore del Land di Monaco), infatti, ha rilevato in particolare che i) la società Amazon Services Europe non avesse né stoccato né spedito i prodotti in questione, e che ii) la società Amazon FC Graben non avesse fatto alcun uso del marchio “Davidoff hot Water”, non avendo effettuato alcuno stoccaggio dei profumi allo scopo di offrirli o di immetterli in commercio, bensì semplicemente conservato tali prodotti per conto della venditrice e di altri venditori terzi. Il giudice d'appello, quindi,ha concluso che nessuna violazione potesse essere ascritta alle società del gruppo Amazon,e che di conseguenza non si potesse imporre loro alcun comando inibitorio rispetto ai profumi contestati.

CotyGermany ha così proposto ricorso per cassazione (“revision”) dinanzi alla Bundesgerichtshof (Corte Federale di Giustizia tedesca).

La Suprema Corte tedesca ha rilevato che l'esito dell'impugnazione, là dove Coty Germany contestava la valutazione del giudice d'appello secondo cui Amazon non era responsabile come autore della violazione di un diritto di marchio, dipendeva dall'interpretazione dell'art. 9, paragrafo 2, lett. b), del Regolamento (CE) n. 207/2009 e dell'art. 9, paragrafo 3, lett. b), del Regolamento (UE) n. 1001/2017.

In tale contesto, la Suprema Corte tedesca ha deciso di sospendere il procedimento, e ha rinviato la causa alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, affinché venisse stabilito se – ai sensi delle citate disposizioni – una società che conservi in un magazzino, per conto di un terzo, prodotti che violino un diritto di marchio ponga in essere essa stessa un “uso” del marchio, anche laddove non sia a conoscenza della natura contraffattoria dei beni oggetto della transazione e solamente il terzo intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti.

Le questioni

Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea si è trovata a dover nuovamente affrontare – pronunciandosi in via pregiudiziale, e fornendo dunque un'interpretazione vincolante non solo per il giudice del rinvio, ma per ciascun giudice nazionale (nell'ambito dell'Unione Europea) – la questione dell'interpretazione della nozione di “uso” del marchio altrui, indagandone la portata.

La normativa applicabile ai marchi dell'Unione Europea (art. 9, paragrafo 2, lettera b), del Regolamento (CE) n. 207/2009, la cui sostanza è ripresa all'art. 9, paragrafo 3, lettera b), del Regolamento (UE) n. 1001/2017) permette – alle condizioni in essa previste – al titolare di un marchio UE di fare un uso esclusivo dello stesso, e di vietare, quindi,a qualsiasi terzo,salvo proprio consenso, di usare il medesimo nell'ambito della propria attività economica. Tra le modalità d'uso del marchio riservate al suo titolare, la normativa include – in un elenco non tassativo – l'offerta dei prodotti, la loro immissione in commercio oppure il loro “stoccaggio a tali fini”. Ed è proprio a quest'ultimo proposito che è stato chiesto l'intervento della Corte, che ha dovuto determinare se l'operazione di stoccaggio posta in essere da parte di Amazon (che – stando alla decisione di rinvio – si è limitata al deposito in magazzino dei flaconi di profumo contestati, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio né avendo alcuna intenzione in tal senso) potesse rientrare nella nozione di “uso” prevista dalla normativa.

Sebbene non sia stata oggetto della domanda pregiudiziale sottoposta dal giudice del rinvio alla Corte, un'ulteriore questione – che merita, per le ragioni che vedremo, di essere evidenziata – è stata sollevata da parte di Coty Germany nelle difese svolte nell'ambito del procedimento. Quest'ultima ha infatti chiesto alla Corte se – in caso di risposta in senso negativo alla domanda pregiudiziale del giudice del rinvio – la condotta di Amazon potesse comunque rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 14, paragrafo 1, della Direttiva (CE) 2000/31(e, quindi, se sussistesse una responsabilità in capo a Amazon per la sua qualità di Internet service provider), e – se la condotta di Amazon non fosse rilevante neppure sotto questo profilo – se un tale gestore dovesse essere considerato un “autore della violazione” ai sensi dell'art. 11, prima frase, della Direttiva (CE) 2004/48.

Le soluzioni giuridiche

Con riferimento al primo aspetto, la Corte sviluppa il proprio ragionamento premettendo che nessuna definizione della nozione di “uso” viene fornita dalla normativa applicabile (i.e., né dal Regolamento (CE) n. 207/2009 né dal Regolamento (UE) n. 1001/2017); per questo motivo, procede richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali che tracciano il sentiero lungo il quale muoversi per poter fornire una risposta nel caso concreto.

Innanzitutto, la Corte ricorda che ““usare” implica un comportamento attivo e un controllo, diretto o indiretto, sull'atto che costituisce l'uso” (v. CGUE, 3 marzo 2016, “Daimler”, C‑179/15, punti 39 e 40; nonché CGUE, 25 luglio 2018, “Mitsubishi”, C‑129/17, punto 38); del resto, se non vi fosse alcun controllo, diretto o indiretto, il terzo non potrebbe di certo conformarsi al divieto d'uso imposto dal titolare del marchio. Inoltre, prosegue la Corte, il livello minimo per poter considerare una condotta attiva in questo senso da parte del terzo è che quest'ultimo impieghi il marchio altrui – quantomeno – nella propria comunicazione commerciale (punto 39 della decisione in commento).

La Corte distingue poi i casi di: i) un operatore economico che importi o rimetta ad un depositario merci recanti un marchio altrui ai fini della loro commercializzazione, e ii) un depositario che fornisca un mero servizio di deposito per tali prodotti. Se nel primo caso, dice la Corte, è configurabile un “uso” del marchio di cui non si è titolari, nel secondo – al contrario – ciò non si verifica (v. CGUE, 16 luglio 2015, “TOP Logistics e a.”, C‑379/14, punti 42 e 45).

La Corte fa infine appello al principio – determinante nel caso di specie – secondo cui “il fatto di creare le condizioni tecniche necessarie per l'uso di un segno e di essere remunerati per tale servizio non significa che chi rende tale servizio usi egli stesso il segno” (v. CGUE, 23 marzo 2010, “Google France e Google”, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 57; nonché CGUE, 15 dicembre 2011, “Frisdranken Industrie Winters”, C‑119/10, punto 29).

In secondo luogo, la Corte richiama quanto previsto dalla normativa di riferimento (i.e., art. 9, paragrafo 2, lettera b), del Regolamento (CE) n. 207/2009 e art. 9, paragrafo 3, lettera b), del Regolamento (UE) n. 1001/2017) secondo cui, in particolare, lo “stoccaggio” rileverebbe – ai fini di un potenziale potere escludente esercitato dal titolare del marchio – solo se effettuato “ai fini” dell'offerta e/o dell'immissione in commercio dei prodotti contraddistinti dal marchio di cui si contesta la violazione.

Alla luce di quanto sopra, la Corte tira dunque le fila e conclude ritenendo che solo laddove l'operatore economico che esegue il magazzinaggio persegua in prima persona le finalità a cui fanno espressamente riferimento le disposizioni sopra citate, allora la sua attività può essere considerata quale “uso” del marchio altrui.

Amazon, nel caso di specie, non può quindi essere considerata responsabile per l'illecito di contraffazione del marchio “DAVIDOFF”.

Per quanto riguarda invece la questione sollevata da Coty Germany relativa a una possibile responsabilità di Amazon in qualità di Internet service provider, la Corte – appellandosi al principio secondo cui la stessa deve conoscere solo le questioni oggetto della decisione di rinvio del giudice nazionale (v. CGUE, 3 settembre 2015, A2A, C89/14, punto 44) – non si esprime.

Osservazioni

Sebbene la decisione in commento possa rappresentare un importante precedente nell'indagine della portata del potere escludente del titolare di un marchio (la Corte ha infatti circoscritto il perimetro di responsabilità – quantomeno rispetto all'illecito di contraffazione – dei gestori di piattaforme online di intermediazione in relazione alla compravendita di beni contraffatti), è altrettanto vero che la Corte ha lasciato scoperti alcuni – non secondari – aspetti.

Innanzitutto, la Corte non ha indagato – né individuato – quali debbano essere i criteri per valutare se l'attività di una piattaforma online possa considerarsi “uso” del marchio altrui, e quando – al contrario – no. Infatti, come detto sopra, il giudice del rinvio ha circoscritto la condotta di Amazon al mero immagazzinaggio dei beni contraffatti, e la Corte ha preso in considerazione esclusivamente questa specifica attività.

Tuttavia, nell'ipotesi di un maggiore coinvolgimento da parte di Amazon (così come di una qualsivoglia altra piattaforma online), non può escludersi che una tale condotta possa – invece – considerarsi “uso” ai sensi delle norme citate sopra, ricadendo quindi nel divieto che il titolare del marchio potrà legittimamente opporre.

Inoltre, la Corte non ha affrontato la questione della responsabilità di Amazon alla luce del suo ruolo di Internet service provider; la decisione prende infatti in considerazione solamente la sua condotta in qualità di diretto “contraffattore”.

Si tratta di un profilo che – se approfondito – avrebbe avuto ricadute pratiche di notevole interesse. Infatti, la decisione avrebbe potuto offrire nuovi e importanti chiarimenti e rilevanti spunti di riflessione sulla valutazione della legittimità – o meno – delle condotte tenute dall'hosting provider, delineando in questo senso ulteriori criteri utili al fine di definire quando lo stesso possa essere considerato hosting provider attivo (e quindi responsabile per le violazioni commesse dagli utenti che fruiscono del servizio) oppure – al contrario – come hosting provider passivo (e quindi esente da responsabilità). A questo proposito, la decisione lascia scoperto anche l'ulteriore aspetto di quali misure il giudice (nazionale) è legittimato a prevedere a carico dell'hosting provider attivo; infatti, la Corte avrebbe potuto seguire l'orientamento – che prende le mosse dal noto caso “Facebook”, deciso sempre dalla CGUE il 3 ottobre 2019 (C-18/18) – secondo cui ad un prestatore di servizi di hosting può essere ingiunto di rimuovere contenuti identici e equivalenti che riproducano nella sostanza il contenuto qualificato illecito.

A “discolpa” del limitato intervento della Corte nel caso in esame ribadiamo che – come correttamente osservato al punto 51 della decisione in commento – la ragione è da individuarsi nel perimetro circoscritto della decisione di rinvio, che non prendeva posizione su nessuno di questi aspetti e restringeva il campo della valutazione della Corte ai soli profili di uso contraffattorio da parte di Amazon del marchio “DAVIDOFF” di Coty Germany.

Conclusioni

In conclusione, la decisione in commento lascia le porte aperte a future decisioni che – tenendo conto dei profili non indagati dalla Corte nel caso di specie – riconoscano una responsabilità in capo alle piattaforme online, alla luce di una valutazione effettuata caso per caso della natura dell'attività svolta.

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