Non è incostituzionale la disciplina sull'opposizione alla revoca del patrocinio a spese dello Stato
28 Maggio 2020
Massima
È inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 e dell'art. 15 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, nella parte in cui, in tema di revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, prevedono l'inderogabile competenza monocratica del «capo» dell'ufficio giudiziario cui appartiene il «magistrato» che ha adottato il provvedimento opposto, anche ove quest'ultimo sia un giudice collegiale, attesa l'ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali, specie ove le aporie complessive del sistema normativo implichino valutazioni sistematiche demandate al legislatore. Il caso
Il giudice delegato della Corte d'appello di Torino ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 e dell'art. 15 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, nella parte in cui, in tema di revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, prevedono l'inderogabile competenza monocratica del «capo» dell'ufficio giudiziario cui appartiene il «magistrato» che ha adottato il provvedimento opposto, anche ove quest'ultimo sia un giudice collegiale. Il giudice rimettente è stato investito dell'opposizione contro un decreto di revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato in favore di un richiedente protezione internazionale, emesso, a seguito del rigetto per manifesta infondatezza del gravame proposto, dalla stessa Corte d'appello in composizione collegiale. In particolare, a fronte del rigetto del ricorso proposto avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale e umanitaria emesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, l'appellante era stato ammesso dal locale Consiglio dell'ordine degli avvocati al patrocinio a spese dello Stato per proporre impugnazione. Il giudizio di gravame era stato definito con sentenza di rigetto e, con decreto in pari data, era stata revocata l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell'art. 136, comma 2, del d.P.R. n. 115/2002, per avere il beneficiario agito quanto meno con colpa grave. Contro quest'ultimo provvedimento veniva proposta opposizione ai sensi dell'art. 170 del d.P.R. n. 115/2002, la cui decisione era demandata, in conformità all'art. 15 del d.lgs. n. 150/2011, al capo dell'ufficio. La questione
In estrema sintesi, il giudice a quo denuncia l'irragionevolezza di un sistema nel quale il riesame del provvedimento di un giudice collegiale avente ad oggetto la revoca del patrocinio a spese dello Stato è demandato alla cognizione di un giudice monocratico; irragionevolezza tanto più evidente per i provvedimenti di revoca dell'ammissione al patrocinio per avere la parte agito o resistito in giudizio per mala fede o colpa grave, involgendo il relativo sindacato valutazioni che dovrebbero essere demandate al giudice dell'impugnazione della decisione di merito e che, in ogni caso, finirebbero con il sovrapporsi con quelle a quest'ultimo rimesse. Le soluzioni giuridiche
La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione sollevata dal giudice a quo, poiché implica valutazioni sistematiche rientranti nella discrezionalità del legislatore, discrezionalità, che è, peraltro, particolarmente ampia in materia processuale. A tale conclusione il Giudice delle leggi perviene dopo aver compiuto un interessante excursus sull'evoluzione nel tempo della disciplina sul patrocinio a spese dello Stato, a partire dal R.d. 30 dicembre 1923, n. 3282 (Approvazione del testo di legge sul gratuito patrocinio) sino ad arrivare all'attuale assetto previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, Testo A).
Inoltre, il Giudice delle leggi sottolinea come, una volta introdotto l'indicato testo unico, si è registrato nella giurisprudenza costituzionale il graduale passaggio da un'impostazione che privilegiava la natura non strettamente giurisdizionale dei provvedimenti del giudice in tema di patrocinio a spese dello Stato (Corte cost.,sent.,28 gennaio 2005, n. 52), ad un'impostazione più recente, che ne ha delineato la natura giurisdizionale (Corte cost., ord.,11 febbraio 2016, n. 128 e Corte cost., sent.,6 marzo 2019, n. 35), in quanto, nel decidere sulla spettanza o meno del patrocinio a spese dello Stato, il giudice accerta la sussistenza di un diritto, peraltro dotato di fondamento costituzionale. Da ultimo, la natura pienamente giurisdizionale di questi provvedimenti – e segnatamente del decreto di revoca del beneficio – è stata affermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. civ., Sez.Un., sent., 20 febbraio 2020, n. 4315), che ha composto il contrasto di giurisprudenza insorto in ordine alla possibilità – affermata da alcune pronunce, ma negata da altre – per lo stesso giudice di legittimità, di emettere il decreto di revoca del patrocinio a spese dello Stato nei giudizi civili, ricorrendo i presupposti dell'art. 136 del d.P.R. n. 115/2002.
La Corte costituzionale si sofferma, poi, ad analizzare il giudizio di opposizione al decreto di revoca del patrocinio a spese dello Stato.
Il t.u. non contempla alcuna disposizione che individui espressamente lo strumento processuale che ha l'interessato per contestare la legittimità del decreto di revoca. L'unica norma sull'impugnazione del decreto di revoca è contenuta nell'art. 113 d.P.R. n. 115/2002, che, però, riguarda solo la revoca del beneficio in materia penale e solo uno dei casi, tra quelli catalogati dal precedente art. 112, comma 1,d.P.R. n. 115/2002 in cui la revoca è possibile. In materia civile, invece, in mancanza di un'espressa disposizione, ha supplito la giurisprudenza, che, tuttavia, non ha ritenuto di ricavare dall'art. 113 d.P.R. n. 115/2002 una regola simmetrica e analoga. La giurisprudenza ha, invece, affermato l'applicabilità dell'art. 170 d.P.R. n. 115/2002, che ha previsto e disciplinato ‒ fino a quando non è stato sostituito dall'art. 34, comma 17, lettera a), d.lgs. n. 150/2011 – l'opposizione avverso il decreto di pagamento emesso a favore dell'ausiliario del magistrato. Nella nuova e vigente formulazione dell'art. 170 d.P.R. n. 115/2002 è previsto un mero rinvio: «[l]'opposizione è disciplinata dall'articolo 15 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150». Il riconoscimento della natura giurisdizionale del decreto di revoca del patrocinio a spese dello Stato comporta che il procedimento di opposizione di primo (e unico) grado è a struttura bifasica eventuale e a contraddittorio differito. L'opposizione non introduce un giudizio di impugnazione, ma apre una fase in prosecuzione nell'unico grado con la costituzione del contraddittorio tra l'opponente, che contesta la legittimità della revoca del patrocinio, e l'opposto (amministrazione della giustizia). L'art. 15 d.lgs. n. 150/2011 («Dell'opposizione a decreto di pagamento di spese di giustizia») è inserito tra le disposizioni che disciplinano le controversie regolate dal rito sommario di cognizione di cui al Capo III, che accorpa plurimi modelli processuali (articoli da 14 a 30d.lgs. n. 150/2011), ai quali si applicano anche le disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito sommario di cognizione, richiamate dal precedente art. 3d.lgs. n. 150/2011. Ora, l'art. 15d.lgs. n. 150/2011, pur avendo una struttura simile a quella del precedente art. 14 d.P.R. n. 115/2002 («Delle controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato»), non prevede la collegialità. La norma contiene una regola specifica e più puntuale: il ricorso è proposto al capo dell'ufficio giudiziario – presidente del tribunale o presidente della corte d'appello ‒ cui appartiene il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato (art. 15, comma 2d.lgs. n. 150/2011).
Tirando le fila del discorso, la Corte costituzionale, pur riconoscendo come «singolare» l'attribuzione, a opera dell'art. 15 del d.lgs. n. 150/2011, a un giudice monocratico della cognizione su opposizioni contro provvedimenti, aventi natura giurisdizionale, pronunciati da un giudice in composizione collegiale, ritiene, tuttavia, che si tratti di questione esclusa dal suo sindacato, poiché implica valutazioni sistematiche rientranti nella discrezionalità del legislatore; valutazione particolarmente ampia giacchè si versa nell'alveo della disciplina della disciplina processuale (Corte cost., sent., n. 81/2017; Corte cost., ord., n. 122/2016 e Corte cost., ord.,n. 270/2012), nella cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate.
Inoltre – conclude la Corte – una pronuncia di accoglimento richiederebbe di indicare in modo puntuale il collegio che, a seconda del giudice collegiale (non solo civile, ma anche penale e amministrativo) che ha emesso il provvedimento impugnato di revoca del patrocinio, sarebbe competente a decidere dell'opposizione ai sensi degli artt. 170 d.P.R. n. 115/2002 e 15 del d.lgs. n. 150/2011. Un intervento di tale portata, che implica un pur auspicabile riordino del sistema normativo, è demandato alle valutazioni e scelte del legislatore.
Infine, una pronuncia additiva sarebbe, comunque, inidonea a ricondurre a piena coerenza il sistema, poiché la collegialità finirebbe con il divenire una regola non generale bensì asimmetrica, in quanto operante, o no, in ragione della composizione monocratica o collegiale del giudice che ha emesso il decreto impugnato; la quale potrebbe anche essere, in ipotesi, controversa e sub iudice. Osservazioni
La sentenza in rassegna consente di svolgere delle riflessioni sull'opposizione alla revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel giudizio civile.
Il caso dal quale origina la questione di legittimità costituzionale è certamente singolare, in quanto un provvedimento emesso dal Collegio (la revoca da parte della Corte d'Appello dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato) viene sottoposto al vaglio di un giudice singolo (a ciò delegato dal capo dell'ufficio).
Questo è l'effetto dell'applicazione dell'art. 15 d.lgs. n. 150/2011 che, come detto, regola la materia in forza del richiamo operato dall'art. 170 d.P.R. n. 115/2002.
Ora, a ben vedere, la disciplina vigente – censurata dal giudice rimettente – ha una sua ragionevolezza, sebbene, a tutta prima, possa apparire illogica.
Innanzitutto, attribuire ad un giudice singolo di sindacare la legittimità del provvedimento di revoca, ancorchè emesso da un giudice collegiale, dovrebbe, almeno in linea di principio, garantire una maggiore celerità nella definizione della questione controversa.
Inoltre, non ha ragion d'essere il pericolo – paventato dal giudice rimettente – di una sovrapposizione di valutazioni tra quelle del giudice (singolo), chiamato a pronunciarsi sulla legittimità della revoca del beneficio, e quelle del giudice del merito (eventualmente anche collegiale). Nel primo caso, infatti, la res litigiosa è costituita dalla revoca del beneficio; l'oggetto del giudizio (il cosiddetto “thema decidendum”) consiste proprio nel verificare se il potere di revoca sia stato esercitato legittimamente o meno, al ricorrere di uno dei casi previsti dall'art. 136 d.P.R. n. 115/2002 (modifiche delle condizioni reddituali rilevanti; insussistenza ab origine dei presupposti per l'ammissione; mala fede o colpa grave dell'interessato). Nel secondo caso, invece, la res litigiosa è altra e l'esercizio del potere di revoca ex art. 136 d.P.R. n. 115/2002 “sta fuori” dal processo, nel senso che avviene in assenza di contraddittorio e finanche in assenza di un'istanza di parte. Ciò, del resto, è ben spiegato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza in commento, laddove si evidenzia il rapporto che intercorre tra la “revoca” dell'ammissione e il giudizio successivo di opposizione (rapporto che, per certi versi, richiama quello tra decreto ingiuntivo e quello ex artt. 645 ss. c.p.c.). La “revoca” è un provvedimento giurisdizionale emesso in assenza di contraddittorio. La fase eventuale che si instaura successivamente all'opposizione vede la costituzione del contraddittorio tra l'opponente, che contesta la legittimità della revoca del patrocinio, e l'opposto (amministrazione della giustizia). Il rapporto così delineato tra la fase della revoca (in assenza di contraddittorio) e quella successiva ed eventuale dell'opposizione (a contraddittorio differito) consente di mettere bene a fuoco la fattispecie in esame, sgombrando il campo da equivoci e non pertinenti richiami all'istituto delle impugnazioni. In quest'ottica si comprende, dunque, come possa ritenersi compatibile con il nostro ordinamento una disciplina – che, lo si ripete, nulla ha a che vedere con quella delle impugnazioni – in base alla quale un provvedimento emesso in assenza di contraddittorio (eventualmente anche da un giudice collegiale) possa essere sottoposto al vaglio di un giudice singolo, in una fase successiva, nel contraddittorio tra le parti.
Resta, indubbiamente, il fatto che né l'art. 170 d.P.R. n. 115/2002 (“Opposizione al decreto di pagamento”) né il richiamato art. 15 d.lgs. n. 150/2011 (“Dell'opposizione a decreto di pagamento di spese di giustizia”) contengono una regolamentazione ad hoc dell'opposizione alla revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel processo civile. Ciò a differenza di quanto è previsto per il processo penale. L'art. 113 d.P.R. n. 115/2002 stabilisce, infatti, che, nel processo penale, il decreto che decide sulla richiesta di revoca (sia pure limitatamente all'ipotesi di cui alla lett. d) dell'art. 112, comma 1) d.P.R. n. 115/2002 è impugnabile con ricorso per cassazione. Sono difficilmente comprensibili le ragioni giustificatrici di un siffatto “strabismo” normativo. La sentenza in commento – nella quale è fatto cenno ad un “auspicabile riordino del sistema normativo” – potrebbe essere uno spunto per un intervento organico e coordinato anche sul versante della revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato e dei conseguenti rimedi apprestati alla parte interessata.
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