Il licenziamento per inidoneità lavorativa sopravvenuta ed il principio di non discriminazione del lavoratore disabile

31 Maggio 2020

In tema di licenziamento per inidoneità sopravvenuta del lavoratore l'elevazione del grado di protezione di un diritto fondamentale, indotta dalla costruzione di un sistema di tutela multi livello fondato sull'applicazione del principio di non discriminazione, si sta facendo strada nel nostro ordinamento tra difficoltà di adeguamento e forme, più o meno palesi, di resistenza al cambiamento...
Abstract

In tema di licenziamento per inidoneità sopravvenuta del lavoratore l'elevazione del grado di protezione di un diritto fondamentale, indotta dalla costruzione di un sistema di tutela multilivello fondato sull'applicazione del principio di non discriminazione, si sta facendo strada nel nostro ordinamento tra difficoltà di adeguamento e forme, più o meno palesi, di resistenza al cambiamento.

Ripetutamente viene ricordato quanto l'apertura alle fonti sovranazionali rappresenti per il giudice nazionale uno stimolo all'ampliamento delle garanzie nella tutela dei diritti fondamentali; ma l'espansione dei livelli minimi di protezione di tali diritti, oltre che porsi quale evocativa occasione di arricchimento, talvolta richiede all'interprete di superare elaborazioni giurisprudenziali che, sebbene consolidate, si rivelano improvvisamente inadeguate.

Ed è qui che le cose si complicano, il dialogo diviene meno fluido e spesso ai richiami costruttivi ed entusiastici si affiancano manifestazioni di finta accondiscendenza che, celando soluzioni interpretative in sostanziale dissenso, finiscono per disinnescare la forza espansiva delle nuove forme di tutela.

La tutela della disabilità è tutela della dignità umana. Tutti sono concordi nell'affermare quanto sia necessario garantire, anche in ambito lavorativo, una protezione del disabile dalle discriminazioni, la rimozione di ogni ostacolo al suo inserimento nel mondo del lavoro, la sua integrazione nelle organizzazioni produttive mediante una adeguata formazione, lo svolgimento dell'attività lavorativa in condizioni di parità, la valorizzazione della sua professionalità anche ai fini della progressione in carriera; più difficile accettare che questa stessa tutela antidiscriminatoria venga assicurata al lavoratore che, inizialmente abile, incorra nel corso del rapporto in una limitazione della sua capacità lavorativa.

Importante allora definire il delicato rapporto tra inidoneità al lavoro e disabilità, capire se e quando in un licenziamento motivato da una sopravvenuta inidoneità lavorativa sia consentito individuare la ragione protetta che richiede l'attivazione dei sistemi rimediali della discriminazione e trarne le dovute conseguenze; necessario poi delineare i confini e la portata dell'obbligo del datore di lavoro di provvedere ad una nuova collocazione del lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni di assegnazione nell'organizzazione produttiva preesistente.

La disciplina sovranazionale

Nell'Unione europea e nell'ordinamento internazionale la tutela della disabilità ha assunto da anni un ruolo centrale: la CDUEF (cd. Carta di Nizza) all'art. 26 stabilisce che: «L'Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità», la lotta contro le discriminazioni per disabilità è prevista dall'art. 19 TFUE; la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità - adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva dall'Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18 - all'art. 27 statuisce che gli Stati riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri.

In ambito europeo il divieto di discriminazione per disabilità ha acquisito maggiore forza giuridica grazie alla direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro ed all'elaborazione che di essa ne ha fatta la giurisprudenza della Corte di giustizia UE.

Rilevano, in particolare, tutte le pronunce in cui la CGUE ha progressivamente affinato la definizione di handicap chiarendo che la Convenzione ONU può essere invocata al fine di interpretare la direttiva 2000/78, la quale deve essere oggetto, nella maggior misura possibile, di un'interpretazione conforme a detta convenzione; sono pertanto disabili, secondo una definizione europea ormai consolidata tutti «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri» (cfr. CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42; 9 marzo 2017 Petya Milkova C-406/15, punto 36; 18 gennaio 2018, C-270/16, Ruiz Conejero).

In virtù dell'art. 27, par. 1, lett. h), della Convenzione ONU, l'esercizio del diritto al lavoro va poi garantito e favorito anche per coloro che hanno acquisito una disabilità durante l'impiego.

A partire dalla sentenza 11 luglio 2006, causa C-13/05, Chacón Navas, la Corte di Lussemburgo ha progressivamente chiarito che la nozione di handicap va intesa come quel limite, derivante da lesioni fisiche, mentali o psichiche, che ostacola la partecipazione della persona alla vita professionale; che la limitazione deve avere carattere duraturo e che in assenza di limiti temporali predefiniti è considerata duratura una situazione che «non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo» o che «possa protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona»; che il termine “handicap” utilizzato dall'art. 1 della direttiva è concettualmente diverso da quello di “malattia” per cui va esclusa un'assimilazione pura e semplice delle due nozioni; che è irrilevante se la disabilità della persona sia stata o meno certificata secondo le disposizioni del diritto nazionale ed anche se il datore di lavoro fosse o meno preventivamente a conoscenza della menomazione del lavoratore.

Disposizione importante della direttiva è l'art. 5; anticipata dal ventesimo e dal ventunesimo considerando, contiene una misura specifica per la discriminazione dei disabili imponendo ai datori di lavoro di prevedere «soluzioni ragionevoli» che permettano alle persone con disabilità fisiche o mentali di godere di pari opportunità sul lavoro e quindi li obbligano ad adottare provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle stesse di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano un onere finanziario sproporzionato.

In una importante sentenza dell'11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, HK Danmark, la CGUE, sollecitata ad interpretare la nozione di «soluzioni ragionevoli», ha precisato che vi rientrano non solo le soluzioni materiali, ma anche quelle organizzative, con la conseguenza che anche la riduzione dell'orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento esigibili in funzione antidiscriminatoria.

La normativa nazionale

Il nostro ordinamento offre in materia un quadro normativo alquanto caotico e non coordinato.

Una disciplina specifica è dettata per coloro che, già invalidi, siano stati assunti in adempimento degli obblighi gravanti sui datori di lavoro pubblici e privati sulla base della l. 12 marzo 1999 n. 68 in materia di collocamento mirato dei disabili; il comma 3 dell'art. 10 di tale legge dispone una specifica procedura per il caso in cui l'aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore invalido imponga modifiche dell'organizzazione del lavoro e sancisce che il rapporto di lavoro possa essere risolto solo nel caso in cui, «anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro», si accerti «la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda».

Situazione particolare regolata dalla stessa legge è quella del lavoratore che, non essendo disabile al momento dell'assunzione, sia divenuto inidoneo a causa di infortunio o malattia professionale; in tal caso il comma 7 dell'art. 1, profilandosi un profilo di possibile imputabilità al datore di lavoro della condizione di disabilità, garantisce la conservazione del posto di lavoro, mentre il comma 4 dell'art. 4, pur non imponendo modifiche all'organizzazione del lavoro, stabilisce che l'infortunio o la malattia non possono costituire giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui sia possibile l'assegnazione a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori, con diritto alla conservazione del trattamento più favorevole delle mansioni di provenienza.

L'art. 42 del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, ha poi esteso a tutti i casi di sopravvenuta inidoneità specifica alla mansione l'obbligo di adibizione del lavoratore ad altre mansioni equivalenti, o se impossibili, inferiori.

Il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, dando attuazione alla direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ha individuato tra i fattori di rischio la condizione di handicap fisico, suscettibile di tutela giurisdizionale con specifico riferimento anche all'area della «occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento» (art. 3, comma 1, lett. b); il legislatore italiano però, omettendo di dare attuazione al disposto dell'art. 5 della direttiva 2000/78, non aveva inserito alcuna norma che sancisse l'obbligo per i datori di lavoro sia pubblici che privati di adottare «soluzioni ragionevoli» per le persone con disabilità nell'ambiente di lavoro.

A seguito della condanna dell'Italia per inadempimento - causa C-312/11 Commissione europea contro Repubblica Italiana, CG sentenza del 4 luglio 2013 – il vuoto è stato colmato con l'aggiunta al d.lgs. n. 216 del 2003 dell'art. 3-bis, ad opera del d.l. 28 giugno 2013 n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. in l. 9 agosto 2013 n. 99, secondo cui «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori».

Nei più recenti interventi modificativi della disciplina dei licenziamenti individuali le ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica sono state oggetto di specifica previsione; tuttavia, senza prestare alcuna attenzione ad esigenze definitorie che avrebbero richiesto di chiarire i rapporti tra inidoneità e disabilità, la novellazione si è limitata ai profili sanzionatori.

Il comma 7 dell'art. 18 st.lav., come modificato dalla l. 28 giugno 2012 n. 92, ha previsto l'applicazione della tutela della reintegrazione e del pagamento di un'indennità non superiore a 12 mensilità per il caso in cui si accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche, e non solo quindi, ai sensi degli art. 4, comma 4, e 10, comma 3, della l. n. 68 del 1999, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore.

L'art. 2 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 ha riconosciuto, invece, la tutela reintegratoria piena oltre che al «licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale» anche a quello illegittimo «per difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore» con analogo richiamo agli articoli della l. n. 68 del 1999.

La legge Fornero opta dunque per il termine “inidoneità” e sembra configurare una fattispecie peculiare di giustificato motivo oggettivo, mentre il Jobs Act predilige il riferimento alla “disabilità” e l'accostamento ai licenziamenti discriminatori.

L'evoluzione della giurisprudenza di legittimità

Sul fronte giurisprudenziale un primo passo verso un ampliamento della tutela del lavoratore divenuto successivamente inidoneo alle mansioni risale all'apertura fatta dalle S.U., con la sentenza 7 agosto 1998 n. 7755, alla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, comunque riconducibile alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, qualora impossibile, a mansioni inferiori.

La Suprema Corte, ispirandosi ai principi costituzionali ed a quelli dell'interpretazione del contratto secondo buona fede, individua nella nuova collocazione un limite alla legittimità del recesso conseguente alla ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, a condizione però che la diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.

Nel bilanciamento di opposti interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32,3 6, 41 Cost.), quale quello connesso alla conservazione del posto di lavoro e quello connesso alla libertà di iniziativa economica, si esclude che si possa pretendere dal datore di lavoro di ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, procedendo a modifiche della sua struttura organizzativa o ad alterare la sua organizzazione aziendale.

La giurisprudenza successiva si consolida sostanzialmente su questa linea (v. Cass. 28 ottobre 2008 n. 25883; Cass. 7 marzo 2005 n. 4827; Cass. 7 gennaio 2005 n. 239; Cass 22 agosto 2003 n. 12362), ed anche nelle decisioni più ispirate l'esercizio dell'attività economica privata, garantito dall'art. 41 Cost., viene ritenuto insindacabile dall'autorità giurisdizionale nei suoi aspetti tecnici, per cui si richiede al datore di lavoro di accertare che il lavoratore non possa essere addetto a mansioni diverse e di pari livello, ma non di farlo disponendo trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell'organigramma aziendale (Cass. 10 marzo 2015 n. 4757 e Cass 13 ottobre 2009 n. 21710); si esclude anche che egli sia tenuto ad adottare particolari misure tecniche per porsi in condizione di cooperare all'accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità, andando oltre il dovere di sicurezza imposto dalla legge (Cass. 6 dicembre 2017 n. 29250 e Cass. 2 luglio 2009 n. 15500).

In decisioni dello stesso tenore si afferma che il datore di lavoro non è tenuto ad ampliamenti di organico o ad innovazioni strutturali (Cass. 30 agosto 2000 n. 11427); si estende la verifica dell'impossibilità di assegnare mansioni non equivalenti, nel solo caso in cui il lavoratore abbia - sia pure senza forme rituali - manifestato la sua disponibilità ad accettarle (Cass. 5 agosto 2000 n. 10339); si impongono al lavoratore oneri di allegazione, circa la volontà di essere assegnato ad attività diverse e la propria idoneità fisica allo svolgimento delle medesime (Cass. 29 maggio 2003 n. 8665 e Cass. 15 novembre 2002 n. 16141), ed oneri di contestazione (Cass. 5 marzo 2003 n. 3245).

(Segue) L'avvento della discriminazione

Vero punto di svolta nella giurisprudenza di legittimità è invece Cass. 19 marzo 2018 n. 6798 ove, per la prima volta, si squarcia il velo che inspiegabilmente nascondeva i collegamenti tra la tutela antidiscriminatoria della disabilità e quella del lavoratore licenziato per sopravvenuta inidoneità al lavoro.

La decisione, coraggiosamente, colloca il licenziamento di un lavoratore divenuto inidoneo, perché affetto da una bronco-pneumopatia cronica e da dermatite da contatto, nel campo di applicazione della direttiva 78/2000/CE, ritenendo configurabile sia il presupposto oggettivo della attinenza della controversia alle condizioni di lavoro (nella specie il licenziamento), sia il fattore soggettivo protetto dall'art. 1 della direttiva, essendosi il lavoratore venuto a trovare in una situazione di infermità di lunga durata che non ne consentiva la esposizione alle polveri presenti sul luogo di lavoro, rendendolo inidoneo alle mansioni di saldatore e manutentore meccanico.

Si precisa così che la nozione di «handicap» ai sensi della direttiva non è ricavabile dal diritto interno, ma unicamente dal diritto eurounitario, come interpretato dalla CGUE che ha riservato a se tale ruolo definitorio; che tale nozione «presuppone la presenza di una limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche di lunga durata, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.»; che l'espressione «disabili» utilizzata nella direttiva deve essere interpretata nel senso che essa comprende tutte le persone affette da un «handicap».

Dall'inerenza della fattispecie alla direttiva la S.C. ne fa conseguire la vincolatività del suo art. 5, e ciò nonostante l'inapplicabilità ratione temporis dell'-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, richiamandosi all'obbligo di interpretazione conforme che vincola il giudice nazionale anche prima che una direttiva sia stata recepita nell'ordinamento interno (tra le tante, si veda CGUE, sentenza 4 luglio 2006, Adelener, C-212/04).

Affermata la sussistenza dell'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, la Corte ha confermato la sentenza di merito che, ritenute esigibili dal datore di lavoro, in quanto modifiche ragionevoli, sia lo spostamento del lavoratore dalla cementeria al reparto officina, immutate le mansioni di saldatore, sia la regolare e più accurata rimozione delle polveri nel luogo di lavoro, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato in assenza di tali accomodamenti.

Aperta la via, ci si sarebbe aspettati una sequenza di decisioni conformi ed uno sviluppo dell'elaborazione sul fronte della discriminazione; invece, a successive pronunce che hanno apertamente seguito la nuova impostazione, se ne sono affiancate altre dissonanti che, seppure non in palese contrasto, ne hanno ridimensionato di fatto le potenzialità applicative.

In piena adesione al nuovo corso Cass. 21 maggio 2019 n. 13649 ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un dipendente - dichiarato inidoneo alle mansioni di autista, adibito inizialmente a compiti di aiuto meccanico compatibili con il suo stato di salute e successivamente licenziato per aver rifiutato le mansioni di addetto alle pulizie, con riduzione dell'orario - sul rilievo che la prima assegnazione costituisse adempimento dell'obbligo di adozione di accorgimenti ragionevoli, esigibili alla stregua di una interpretazione del diritto nazionale conforme agli obiettivi posti dall'art. 5 della Dir. 2000/78/CE.

Cass. 12 novembre 2019 n. 29289 ha invece respinto la censura volta a contestare l'assimilabilità dell'inidoneità fisica del lavoratore all'ipotesi della disabilità pur in assenza di un accertamento ex l n. 68 del 1999, evidenziando che la nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere ricostruita in conformità al contenuto della direttiva n. 78/2000/CE, quindi quale limitazione risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

Di contro, in Cass. 5 aprile 2018 n. 8419 e in Cass. 3 agosto 2018 n. 20497 si ignora completamente la problematica degli accomodamenti ragionevoli e della tutela della disabilità e, richiamata la precedente giurisprudenza che richiedeva la previa verifica della possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, compatibile con il suo stato di salute, purché utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore, si esclude che con riferimento all'onere del repêchage del lavoratore in mansioni compatibili, sia configurabile un obbligo di alterazione dell'organizzazione tecnico produttiva, con modifica dell'organigramma aziendale, al fine di consentire l'inserimento del lavoratore divenuto inidoneo.

Cass. 26 ottobre 2018 n. 27243, poi, in una fattispecie già soggetta all'art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, richiamata la giurisprudenza europea sulla tutela della posizione lavorativa del disabile, ha ritenuto che il criterio di ragionevolezza nell'adozione delle misure organizzative incontri un limite costituito dall'inviolabilità in peius (art. 2103 c.c.) delle posizioni lavorative degli altri prestatori di lavoro, sulle cui mansioni ed altre condizioni di lavoro (ad esempio, ambiente e luogo di lavoro, orario e tempi di lavoro) non sarebbe possibile incidere negativamente.

Corretta la premessa in diritto, qualche perplessità suscita l'interpretazione che ne viene data: alla necessità di bilanciare la tutela degli interessi coinvolti, tutti costituzionalmente rilevanti (artt. 4, 32, 36 Cost. da un lato e 41 dall'altro) consegue, secondo la Corte, che l'assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all'attuale attività, ad attività diverse – nella specie un operaio addetto al preconfezionamento in un'industria casearia divenuto ipovedente - possa essere rifiutata legittimamente dall'imprenditore se comporti oneri organizzativi eccessivi e, in particolare, se da essa derivi, a carico di singoli colleghi dell'invalido, la privazione o l'apprezzabile modificazione delle modalità di svolgimento della loro prestazione lavorativa con una alterazione della predisposta organizzazione aziendale.

In sintesi, si riconduce anche l'interpretazione dell'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 agli stessi criteri che secondo la precedente giurisprudenza individuavano un limite alla ricollocazione del lavoratore disabile «nell'organizzazione interna dell'impresa e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell'impresa stessa (cfr. già Corte Cost. n. 78 del 1958, Corte Cost. n. 316 del 1990, Corte Cost. n. 356 del 1993) nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisita» ed, escludendo a priori che il datore di lavoro sia tenuto a rendere disponibile una posizione lavorativa compatibile già coperta, si finisce per annullare la portata innovativa dell'obbligo degli «adattamenti ragionevoli» introdotto a far data dall'entrata in vigore del d.l. n. 76 del 2013.

Analoghe valutazioni sono espresse da Cass. 7 marzo 2019 n. 6678 e da Cass. 10 luglio 2019 n. 18556, secondo cui costituisce una indebita ingerenza nell'insindacabile valutazione rimessa al datore di lavoro, e tutelata dall'art. 41 Cost., la pretesa di una diversa organizzazione del lavoro che determini un aggravamento della posizione degli altri addetti al reparto per la maggiore gravosità dei turni di lavoro su postazioni più impegnative ed il conseguente maggior rischio a loro carico.

Cass. 28 ottobre 2019 n. 27502, nel porsi il problema dell'applicabilità al licenziamento per inidoneità sopravvenuta del lavoratore dell'obbligo della previa verifica della possibilità da parte del datore di lavoro di adottare degli accomodamenti ragionevoli, afferma che non ogni situazione di infermità fisica che renda il lavoratore inidoneo alle mansioni risulta ex se riconducibile alla nozione di disabilità sicché, ai fini dell'accertamento dell'obbligo, posto a carico del datore di lavoro dall'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare la limitazione risultante dalle proprie menomazioni fisiche, mentali e psichiche durature e il fatto che tale limitazione, in interazione con barriere di diversa natura, si traduca in un ostacolo alla propria partecipazione, piena ed effettiva, alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori; in difetto di tale allegazione ha quindi rigettato il ricorso.

Da ultimo Cass. 19 dicembre 2019 n. 34132 ha cassato con rinvio una decisione di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per inidoneità sopravvenuta di una guardia giurata, stante la possibilità per la datrice di lavoro, in presenza di dipendenti che svolgevamo mansioni omogenee e fungibili, di individuare tra le posizioni esistenti una diversa mansione compatibile con le mutate condizioni di salute del lavoratore, che gli consentisse di lavorare solo nel turno diurno ed in postazioni non richiedenti prolungate posizioni in piedi, ed ha onerato il giudice del rinvio della valutazione della proporzionalità e della non eccessività delle indicate misure di adattamento, sia rispetto all'organizzazione aziendale sia con riguardo agli altri lavoratori.

Sebbene in difformità con il parere del PG, che aveva chiesto il rigetto del ricorso, la S.C. in questo caso ha, comunque, superato la presunta intangibilità dell'organizzazione del lavoro impressa dal datore di lavoro e riconosciuto la possibilità che tra gli accomodamenti ragionevoli rientrino modifiche di tale struttura organizzativa, ed anche che le stesse vadano ad incidere sulla posizione degli altri dipendenti, seppure subordinatamente alla verifica della proporzionalità e non eccessiva onerosità di tali soluzioni, secondo la condivisibile conclusione che spetti al giudice valutare, di volta in volta, se l'obbligo imposto dall'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 sia stato violato o assolto.

(Segue) I profili sanzionatori e gli oneri processuali

In riferimento al sistema rimediale, per le fattispecie rientranti nell'art. 18 st.lav., vecchia formulazione, alla qualificazione del licenziamento per inidoneità sopravvenuta come ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguiva a seconda del requisito dimensionale l'applicazione del regime della tutela reale o quello della tutela obbligatoria (ex multis in Cass. 28 ottobre 2008 n. 25833; Cass. 2 luglio 2009 n. 15500; Cass. 29 marzo 2010 n. 7531).

Con l'avvento della legge Fornero, per Cass. 30 novembre 2015 n. 24377; Cass. 4 ottobre 2016 n. 19774; Cass. 21 luglio 2017 n. 18020 e Cass. 22 ottobre 2018 n. 26675, confermata la qualificazione come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la violazione dell'obbligo datoriale di adibire il lavoratore a possibili mansioni alternative, cui lo stesso sia idoneo, compatibili con il suo stato di salute, integra un'ipotesi di difetto di giustificazione del licenziamento da sanzionare, senza alcuna discrezionalità del giudice, con la tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 7, primo alinea, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1 della l. n. 92 del 2012, che, per le ipotesi specifiche di ingiustificato motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica e psichica del lavoratore, richiama il comma 4 dello stesso articolo, senza alcuna possibilità di far ricorso alla tutela indennitaria forte di cui al quinto comma richiamata dalla seconda parte dello stesso comma 7.

Anche per Cass. 18 novembre 2019 n. 29893 trova applicazione la tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 7, novellato, seppure, sembrerebbe, quale conseguenza della violazione in generale dell'obbligo di repêchage da ricondurre, secondo la più recente giurisprudenza (cfr. Cass. 2 maggio 2018 n. 10435; Cass. 12 dicembre 2018 n. 32159; Cass. 11 novembre 2019 n. 29102), alla verifica del requisito della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento», di cui all'art. 18, comma 7, secondo alinea, quale presupposto della legittimità del recesso, unitamente alle ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa.

Cass. 12 dicembre 2018 n. 32158 ribadisce, invece, che un licenziamento per motivo oggettivo in violazione dell'obbligo datoriale di adibire il lavoratore inidoneo a mansioni alternative è qualificabile come ingiustificato e che ad esso trova applicazione la tutela reintegratoria attenuata in virtù del richiamo di cui al comma 7 cit., prima parte, in coerenza «con il successivo sviluppo della legislazione in materia di tutele operanti in caso di licenziamenti intimati rispetto a contratti di lavoro stipulati successivamente al 7 marzo 2015 e difformi dal modello legale, visto che il d.lgs. 7 marzo 2015 n. 23 (art. 2, comma 1) ha previsto nell'ipotesi di "difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore" la tutela reintegratoria piena».

Le questioni ancora aperte

Nonostante il cospicuo intervento chiarificatore della CGUE, permangono nella giurisprudenza nazionale non poche incertezze che finiscono per condizionare l'esito finale delle decisioni; aspetti ancora da approfondire sono: 1) il rapporto tra inidoneità e disabilità; 2) la natura discriminatoria del licenziamento del disabile; 3) l'estensione ed i limiti degli accomodamenti ragionevoli; 4) la tutela applicabile al licenziamento del lavoratore inidoneo.

(Segue) Inidoneità e disabilità: due termini a confronto

Preliminare chiarire se lo specifico e rafforzato sistema di protezione del lavoratore disabile, che trova la sua norma cardine nell'obbligo di adottare soluzioni ragionevoli alternative, debba trovare applicazione in ogni caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità; innegabile invece che vada applicato in caso di licenziamento di un lavoratore disabile, sia che disabile lo sia stato ab initio sia che lo sia diventato nel corso del rapporto.

Inidoneità e disabilità coincidono? Non si può non convenire sul fatto che la nozione di disabilità abbia ormai una matrice europea e che pertanto non sia possibile prescindere dall'interpretazione che di tale nozione ha fornito la Corte di giustizia UE.

Ebbene, è tempo di prendere atto che tale definizione risulta talmente ampia da consentire di lasciare fuori dal suo cono d'ombra solo quelle situazioni che non solo classificabili come menomazioni, che non incidono sulla capacità lavorativa e che abbiano natura temporanea; la Corte non pone alcun limite soglia in termini di percentuale di invalidità né richiede che la menomazione debba essere qualificata come malattia, persino l'obesità va tutelata se determina una mobilità ridotta o l'insorgenza di patologie che impediscono o rendono difficoltoso l'esercizio di un'attività professionale (in CGUE sentenze 18 gennaio 2018, C-270/16, Ruiz Conejero e 18 dicembre 2014, FOA, C‑354/13).

Né è consentito restringere il campo della disabilità rilevante in ambito lavorativo alle menomazioni che incidono sulla capacità lavorativa generica e non su quella specifica; al lavoratore viene infatti riconosciuto il diritto a non essere discriminato in riferimento al lavoro che in quel momento sta svolgendo, che ha il diritto di mantenere e di continuare a svolgere in una condizione di pari opportunità con gli altri lavoratori.

(Segue) Il licenziamento del disabile tra discriminazione e carenza di giustificato motivo oggettivo

Delineato l'ambito di operatività della nozione di disabilità è evidente che, salvo limitate eccezioni, nella quasi totalità dei casi un licenziamento per sopravvenuta inidoneità al lavoro è un licenziamento di un soggetto disabile e che, se tanto risulta accertato, ad esso non può che trovare applicazione la corrispondente disciplina, ed in particolare l'obbligo della previa verifica delle soluzioni ragionevoli.

Forse non è più possibile sorvolare sul fatto che la violazione di tale obbligo rende il licenziamento discriminatorio per disabilità, con tutte le conseguenze in termini di tutela applicabile: la motivazione del recesso si fonda sull'impossibilità del lavoratore disabile di proseguire il lavoro a causa della sua duratura menomazione, rispetto alla quale il datore di lavoro era obbligato ad adottare quegli accomodamenti ragionevoli che gli avrebbero consentito di aver ugualmente accesso alle mansioni o ad altre compatibili.

La discriminazione sussiste sia laddove non siano stati adottati gli accomodamenti ragionevoli sia nel caso in cui tale inidoneità costituisca un mero pretesto in quanto non effettivamente esistente.

La Corte di giustizia proprio in tema di disabilità ed anche di discriminazione per motivi razziali (vedi CGUE sentenze 17 luglio 2008, C- 303/06, Coleman e 16 luglio 2015, C83/14, Chez), ha chiarito che non rileva l'appartenenza del soggetto al gruppo discriminato bensì il collegamento tra il trattamento meno favorevole subito dalla persona e il fattore discriminatorio, dal momento che la tutela antidiscriminatoria opera a prescindere dal fatto che il soggetto discriminato sia effettivamente portatore del fattore protetto.

La discriminazione, poi, è di natura diretta, in quanto la persona subisce un trattamento sfavorevole in ragione di una sua particolare caratteristica che costituisce il fattore discriminante protetto; la situazione di disabilità impone al datore di lavoro di rimuovere entro i limiti della ragionevolezza e proporzionalità gli ostacoli che impediscono alla persona di lavorare in situazione di parità con gli altri lavoratori, se viola tale obbligo attua una discriminazione.

Permane, invece, nell'ambito del licenziamento illegittimo per carenza di un giustificato motivo oggettivo solo quello intimato in presenza di una inidoneità non riconducibile alla disabilità perché di natura temporanea o non qualificabile come menomazione (si pensi al caso della modella che aumenti di peso); rileva inoltre che il licenziamento per inidoneità sopravvenuta non esaurisce le ipotesi di discriminazione per disabilità ben potendo la discriminazione per tale ragione manifestarsi indipendentemente dalla inidoneità al lavoro ma in conseguenza di altre caratteristiche del soggetto disabile.

(Segue) L'individuazione degli “accomodamenti ragionevoli”

Come innanzi descritto la giurisprudenza precedente individuava un limite all'obbligo di repêchage del lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni di assegnazione nel principio della intangibilità dell'autonomia organizzativa dell'imprenditore e delle posizioni ricoperte dagli altri lavoratori; difficile sostenere, come invece già avvenuto nei precedenti giurisprudenziali citati, che quello stesso limite operi ancora, e negli stessi termini, rispetto ai vincoli che derivano dall'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003.

Il “mantra” dell'insindacabilità delle scelte inerenti l'assetto imprenditoriale, considerato sinora il limite principale all'obbligo di ricollocazione del lavoratore divenuto inidoneo, va necessariamente rivisto, sempre seguendo la bussola della giurisprudenza europea.

L'obbligo di adottare gli accomodamenti ragionevoli richiede al datore di lavoro uno sforzo aggiuntivo, un quid pluris significativo: anche la modifica dell'assetto organizzativo dell'azienda, per intervenire in maniera costruttiva al fine di eliminare gli ostacoli all'espletamento dell'attività lavorativa del disabile, può rientrare in tale obbligo con un unico limite, quello che l'adempimento non gli richieda un onere sproporzionato.

Il datore di lavoro non potrà dunque limitarsi ad individuare un posto idoneo e disponibile ma è tenuto ad attivarsi per rendere una posizione lavorativa idonea e disponibile; l'accomodamento richiede quindi un'iniziativa propositiva.

Il 20° considerando della direttiva indica a titolo esemplificativo come possibili provvedimenti la sistemazione dei locali e delle attrezzature, l'adattamento dei ritmi di lavoro, la fornitura di mezzi di lavoro idonei, la ripartizione dei compiti, la formazione e l'inquadramento dei lavoratori; l'elencazione non è tassativa, ma è indicativa, in quanto consente di pretendere tutto quello che risulti ragionevole nell'ambito di un contesto produttivo.

Neanche è più sostenibile che la ricollocazione debba avvenire a costo zero, nel senso che non vada intaccato “l'equilibrio finanziario” dell'impresa; un onere economico infatti può e deve essere sostenuto, se si richiede che non sia eccessivo e sproporzionato implicitamente si ammette che un esborso vi debba comunque essere.

Il 21° considerando della direttiva specifica che «per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni»; il che equivale a dire che se per eventuali accorgimenti tecnici sono previste forme di finanziamento pubblico il datore di lavoro non può pretestuosamente ignorarle ma è tenuto ad assumere tutte le iniziative possibili per ottenerle.

Anche il dogma della posizione degli altri lavoratori va rivisto; indubbiamente non sono ammissibili interventi che incidano negativamente sulle prerogative e sui diritti dei colleghi del disabile, ma tutto quanto rientri nell'alveo dei provvedimenti organizzativi legittimi certamente potrà essere attuato, e preteso, se finalizzato a permettere al lavoratore in condizione svantaggiata di mantenere il suo posto di lavoro.

Il trasferimento da un reparto ad un altro nell'ambito della stessa unità produttiva, un mutamento di mansioni che non determini demansionamento, una ridistribuzione degli orari e dei turni di lavoro nel rispetto dei limiti legali e contrattuali; sono tutti accomodamenti praticabili, a maggior ragione dopo la riscrittura dell'art. 2103 c.c. che consente al datore di lavoro di esercitare legittimamente lo ius variandi nell'ambito della stessa qualifica, tale alleggerimento dei vincoli agevola il datore di lavoro ma ne amplia anche gli oneri in sede di verifica delle alternative al licenziamento, specie del lavoratore disabile.

È chiaro che ogni misura andrà valutata caso per caso, sia sotto il profilo della ragionevolezza che di quello della proporzionalità, in relazione alla situazione specifica del lavoratore disabile ed al contesto organizzativo in cui va inserita la sua prestazione, e che tale valutazione non può che essere demandata al giudice che verificherà di volta in volta, con un accertamento di fatto, l'adempimento o meno dell'obbligo della previa verifica delle soluzioni ragionevoli a cui è subordinata la legittimità del licenziamento.

(Segue) Le tutele applicabili in caso di licenziamento per inidoneità sopravvenuta

Dalla ritenuta natura discriminatoria del licenziamento del disabile dovrebbe poi conseguire l'applicazione del corrispondente regime della nullità del licenziamento che comporta, nelle fattispecie rientranti ratione temporis nel regime di cui all'art. 18 st. lav., novellato ex l. n. 92 del 2012, il diritto alla tutela reintegratoria piena di cui al comma 2, a prescindere dal numero di dipendenti, con diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra.

Al contrario, come innanzi visto, la giurisprudenza riconosce anche al disabile discriminato da un licenziamento intimato senza la previa verifica degli accomodamenti ragionevoli il diritto alla tutela reintegratoria attenuata di cui al quarto comma, richiamato dal comma 7, che, a stretto rigore secondo l'interpretazione qui sostenuta, dovrebbe essere riservata alle residuali ipotesi di licenziamento per inidoneità sopravvenuta non qualificabile come disabilità; non una norma inutiliter data, quindi, ma solo, una norma destinata ad avere applicazione in quei pochi casi di licenziamento di un soggetto inidoneo ma non disabile.

Un ridimensionamento delle differenze di tutela conseguenti alla qualificazione si dovrebbe avere per i cd “nuovi assunti” nell'area di operatività del Jobs Act, in quanto l'art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015, all'ultimo comma, ha esteso la tutela reintegratoria piena prevista per i licenziamenti discriminatori nulli e orali anche a quelli in cui il difetto di giustificazione attiene ad un motivo consistente nella disabilità fisica o psichica; da notare che in questo testo viene utilizzata la nozione “disabilità” e non quella “inidoneità”.

La qualificazione non ha invece delle ricadute significative sul riparto degli oneri di allegazione e prova.

Secondo l'attuale giurisprudenza anche al licenziamento del lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica devono trovare applicazione le regole che attendono al riparto degli oneri in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sicché il lavoratore ha l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd repêchage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (cfr. Cass. 13 giugno 2016 n. 12101; Cass. 11 ottobre 2016 n. 20436; Cass. 5 gennaio 2017 n. 160; Cass. 20 ottobre 2017 n. 24882), ed in cui andrebbero quindi inclusi anche gli oneri di allegazione e prova in tema di accomodamenti ragionevoli.

In particolare Cass. 26 luglio 2017 n. 18506 ha precisato che in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni originarie, la richiesta di quest'ultimo di assegnazione a mansioni diverse, comporta, per il datore di lavoro, l'obbligo di adibizione del prestatore di lavoro ad altre posizioni di utile collocazione compatibili con le condizioni di salute del lavoratore, ovvero l'onere di provare la indisponibilità di tali posizioni, senza che tale onere sia in alcun modo condizionato dalla previa allegazione, da parte del lavoratore, di posizioni specifiche esistenti in azienda, posizioni che il prestatore di lavoro non è tenuto a conoscere e che potrebbero, in ipotesi, anche essere estranee alla sua sfera di conoscibilità.

Ebbene, in tema di licenziamento discriminatorio si afferma che «in forza dell'attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso.» (da Cass. 27 settembre 2018 n. 23338).

Ne consegue che spetterà al lavoratore provare la discriminazione e quindi la sussistenza della condizione di disabilità ed il collegamento causale con il licenziamento, quasi sempre evincibile già dalla motivazione stessa del licenziamento, mentre incomberà al datore di lavoro la prova dell'inesistenza o inutilità di ragionevoli accomodamenti o la loro impraticabilità per irragionevolezza o sproporzione.

Quindi l'onere di allegazione da parte del lavoratore in merito agli accorgimenti tecnici dovrebbe essere limitato ad aspetti generali connessi alla sua disabilità, nel senso che lo si potrebbe onerare dell'indicazione delle tipologie di soluzioni compatibili ed idonee rispetto alle menomazioni da cui è affetto e di cui ha approfondita conoscenza, anche al fine di contenere la prova a carico della parte datoriale, ma non di altro, perché certamente egli non sarebbe in grado di specificare quali siano gli accomodamenti più appropriati rispetto all'organizzazione produttiva, che spetta invece al datore dedurre, seppure in termini negativi.

È chiaro che se delle allegazioni specifiche venissero comunque effettuate dal lavoratore le stesse andrebbero a condizionare gli oneri di contestazione e prova del datore di lavoro e ad agevolare l'accertamento di fatto del giudice.

In conclusione

L'obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, imposto al datore di lavoro dall'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori, costituisce una clausola generale che condiziona e rafforza gli obblighi di repêchage già validi per ogni ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, delimitando il potere datoriale di esercitare legittimamente il diritto di recesso nei confronti di un lavoratore che sia motivato in ragione della sua disabilità.

In caso di licenziamento di un lavoratore divenuto disabile nel corso del rapporto si impone una verifica ulteriore: il datore di lavoro è obbligato non solo a dedurre e provare l'impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra postazione lavorativa, ma anche di essersi invano attivato nel fare quanto ragionevolmente possibile per assegnare al dipendente una diversa mansione adeguata al suo compromesso stato di salute.

I confini della impossibilità sopravvenuta della prestazione vanno conseguentemente ristretti in misura proporzionale all'ampliamento delle posizioni professionali assegnabili al lavoratore disabile, da individuarsi tenendo conto dei ragionevoli accomodamenti che il datore di lavoro è obbligato ad adottare; va in sintesi ridimensionato l'ambito entro il quale il potere datoriale di recesso del lavoratore inidoneo può essere esercitato.

La violazione dell'obbligo inficia il licenziamento, che si colloca nell'area della discriminazione, con tutte le conseguenze in tema di regime sanzionatorio applicabile.

Guida all'approfondimento

Bonardi, L'inidoneità sopravvenuta al lavoro e l'obbligo di adottare soluzioni ragionevoli in un'innovativa decisione della Cassazione, in Questione Giustizia trimestrale, fascicolo 3/2018;

Giubboni, Disabilità, sopravvenuta inidoneità, licenziamento, in Riv. Giur. Lav., 2016, II, p. 621;

Lanzara, Sopravvenuta inabilità fisica al lavoro: i ragionevoli accomodamenti dell'impresa e il limite dell'intangibilità della posizione dei colleghi, in il Giuslavorista.it del 6 aprile 2020;

Silvestri, Il licenziamento del lavoratore disabile: una procedura speciale per una soluzione estrema, in Lav. Giur., 2017, 11, p. 978;

Tarquini, Cassazione, il licenziamento per inidoneità sopravvenuta del lavoratore divenuto inabile alle mansioni e i ragionevoli accomodamenti, in Questione Giustizia trimestrale, fascicolo 4/2019.

Sommario