L'irrispettoso rifiuto del lavoratore al cambio turno legittima l'adozione della massima sanzione espulsiva

Paolo Patrizio
01 Giugno 2020

L'accertamento della gravità delle infrazioni poste a base di un licenziamento (e quindi pure della "gravità" dell'insubordinazione), in quanto necessariamente mediata dalla valutazione delle risultanze di causa, si risolve in un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità...
Massime

La sussistenza dell'infrazione contestata, sussumibile, anche per espressa previsione collettiva, sotto la specie della giusta causa di recesso ("grave insubordinazione"), (è) integrata dalla condotta del lavoratore che, volontariamente e senza alcuna giustificazione, ha rifiutato le direttive aziendali (cfr., in argomento, Cass. n. 19689 del 2003), così, nella sostanza, contestando i poteri datoriali; nello specifico, il dipendente si è sottratto all'indicazione datoriale, giustificata da esigenze organizzative, di un cambio turno (che avrebbe determinato, secondo l'accertamento contenuto in sentenza, solo una variazione della squadra di lavoro e del relativo capogruppo e non anche dell'orario di lavoro).

L'accertamento della gravità delle infrazioni poste a base di un licenziamento (e quindi pure della "gravità" dell'insubordinazione), in quanto necessariamente mediata dalla valutazione delle risultanze di causa, si risolve in un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità in termini di violazione di legge se non con la specifica denuncia di un contrasto tra il giudizio in tal senso espresso dal giudice di merito (di gravità, appunto) ed i principi dell'ordinamento quali delineati dalla giurisdizione di legittimità o gli "standard" valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, con i principi medesimi, a comporre il diritto vivente (v. Cass. n. 25743 del 2007; Cass. n. 4369 del 2009).

Il controllo che è richiesto al giudice di merito, investito della domanda di invalidazione d'un licenziamento disciplinare (attiene): in primo luogo, la verifica della riconducibilità astratta della condotta contestata sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso; quindi, all'esito, positivo, di tale delibazione, l'apprezzamento, in concreto, della gravità dell'addebito, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento soggettivo dell'agente (in argomento, ex plurimis,

Cass. n.

5019 del 2011

).

Il caso

Il caso in esame trae origine dal ricorso promosso da un operaio avverso il licenziamento disciplinare intimatogli dalla società datrice di lavoro per «grave insubordinazione», in seguito al rifiuto volontario espresso dal dipendente in merito al cambio del turno di lavoro propostogli dalla datrice.

Sia in primo grado che in sede di appello, le doglianze del lavoratore venivano respinte, avendo i giudici di merito riconosciuto la sussistenza della giusta causa di licenziamento nel comportamento contestato al lavoratore, integrato dal rifiuto volontario ed ingiustificato di sottoporsi alle direttive aziendali e manifestato con modalità del tutto irrispettosa del datore di lavoro stesso.

La causa veniva, dunque, portata all'attenzione della Suprema Corte, lamentando il ricorrente la violazione degli artt. 2119 c.c., nonché degli artt. 9 e 10, titolo VII CCNL Metalmeccanici ed il vizio di motivazione per l'errata qualificazione dell'insubordinazione come grave e la conseguente sproporzione tra il fatto addebitato e la sanzione espulsiva irrogata.

La soluzione giuridica

La Suprema Corte, dopo aver sottolineato come “ …l'accertamento della gravità delle infrazioni poste a base di un licenziamento (e quindi pure della «gravità» dell'insubordinazione), in quanto necessariamente mediata dalla valutazione delle risultanze di causa, si risolve in un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità in termini di violazione di legge se non con la specifica denuncia di un contrasto tra il giudizio in tal senso espresso dal giudice di merito (di gravità, appunto) ed i principi dell'ordinamento quali delineati dalla giurisdizione di legittimità o gli «standard» valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, con i principi medesimi, a comporre il diritto vivente… ” ha respinto il ricorso del lavoratore.

La Cassazione, infatti, ha evidenziato come, nel caso in esame, i Giudici di merito avessero correttamente accertato la sussistenza dell'infrazione contestata dalla datrice di lavoro e riconducibile, anche per espressa previsione collettiva, al genus della giusta causa di recesso ed, in particolare, alla species della grave insubordinazione, avendo il lavoratore, volontariamente e senza alcuna giustificazione, rifiutato, in modo irrispettoso, le direttive aziendali (che peraltro avrebbero determinato solo una variazione della squadra di lavoro e del relativo capogruppo e non anche dell'orario di lavoro) così, di fatto, determinando una chiara ipotesi di inammissibile contestazione dei poteri datoriali.

Per gli Ermellini, dunque, la Corte territoriale aveva correttamente adempiuto al procedimento di verifica della legittimità del licenziamento disciplinare, in quanto, dopo aver provveduto ad accertare l'astratta riconducibilità della condotta contestata sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, aveva giustamente valorizzato la gravità dell'addebito con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui era stato posto in essere, dando conto delle modalità oggettive di manifestazione del rifiuto (espresso in modo irrispettoso), dell'elemento soggettivo (evidenziato attraverso il riferimento al disinteresse, da parte del dipendente, di ricercare un compromesso con il suo datore) ed infine finanche della intensità dell'elemento volitivo di sottrazione al comando datoriale.

Osservazioni

La pronuncia in commento ci consente di condensare, in pochi passaggi, alcuni spunti di riflessione sull'istituto del licenziamento disciplinare per insubordinazione e sulle concrete condotte che connotano e giustificano il ricorso a tale forma di sanzione espulsiva, con specifico riferimento, in questa sede, al fenomeno del cambio turno ed alla sussistenza di un correlato diritto di legittimo rifiuto del dipendente coinvolto.

Partendo, dunque, dal primo profilo appena evidenziato, è noto come, in tema di licenziamento disciplinare per giusta causa, la nozione di insubordinazione sia, prima facie, immediatamente riconducibile alla tipica condotta di chi rifiuti di ottemperare ad una direttiva o ad un ordine datoriale, giustificato e legittimo, di svolgere una diversa attività o un diverso compito.

Senonché, la giurisprudenza ha sin da subito evidenziato come la nozione di insubordinazione non possa essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione del quadro dell'organizzazione aziendale, non potendo di norma il lavoratore, in mancanza di un eventuale avallo giudiziario, conseguibile anche in via d'urgenza, rifiutarsi aprioristicamente di eseguire la prestazione richiesta, essendo egli tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall'imprenditore, in ossequio alle previsioni di cui agli artt. 2086 e 2104 c.c.

Ed allora, essendo necessario operare sempre un giusto contemperamento tra l'interesse datoriale al regolare funzionamento dell'organizzazione produttiva e la pretesa del dipendente alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro, per operare una corretta individuazione della condotta integrante gli estremi dell'insubordinazione il vero dato rilevante non potrà che essere l'aggancio al sinallagma contrattuale.

Analizzando l'intensa produzione giurisprudenziale, infatti, è possibile evincere come il processo di verifica della casistica dell'insubordinazione del lavoratore sia raramente lineare, posto che non ogni litigio e non ogni mancanza di rispetto del lavoratore nei confronti dei superiori gerarchici integra un'ipotesi di insubordinazione.

È quindi necessaria un'indagine specifica sul tenore e il significato delle frasi pronunciate, delle condotte poste in essere e del contesto in cui i fatti si sono svolti, per verificare, in concreto, se il comportamento disciplinarmente contestato al dipendente possa davvero integrare un'ipotesi di insubordinazione nella misura in cui comporti una contestazione del potere gerarchico tale da minare il regolare svolgimento dell'attività lavorativa.

Come correttamente osservato dalla Corte nella pronuncia in commento, allora, l'indagine giudiziale in tal senso condotta dovrà essere particolarmente intensa, comportando, il procedimento di valutazione della legittimità del licenziamento disciplinare, una prima verifica finalizzata ad accertare l'astratta riconducibilità del comportamento contestato sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso; ed una seconda indagine volta ad analizzare la gravità dell'addebito con riferimento alle particolari circostanze e condizioni del caso, alle modalità oggettive di manifestazione del medesimo, alla sussistenza dell'elemento soggettivo ed alla intensità dell'elemento volitivo del dipendente di contestare e sottrarsi al comando datoriale.

Ed allora è proprio in tale contesto che si inserisce e viene in autonomo rilievo il secondo profilo in commento, relativo al rifiuto del cambio turno da parte del lavoratore ed alla sua rilevanza ai fini integrativi di una valida ipotesi di condotta insubordinatoria.

Senonché, prima di ogni altra considerazione, va sin da subito evidenziato come, nel nostro ordinamento, solo con riferimento al rapporto di lavoro part time sia espressamente previsto un divieto, per il datore di lavoro, di variare unilateralmente la collocazione temporale dell'attività lavorativa dei dipendenti, essendo ritenuto prevalente, per tali lavoratori, l'interesse alla programmabilità del tempo libero, anche in vista dello svolgimento di un'ulteriore attività lavorativa.

In tale ipotesi è, infatti, richiesto un apposito accordo con il lavoratore part time, a meno che lo stesso non abbia già prestato il suo consenso firmando le cosiddette clausole elastiche richiamate all'interno del contratto di lavoro e consentite dalla fonte pattizia, che consentono l'aumento o la variazione (in questo caso si parla di clausole flessibili) dell'orario lavorativo.

Nell'ipotesi, invece, in cui il contratto sia a tempo pieno, la variazione dell'orario da parte dell'imprenditore è libera, non ricorrendo l'esigenza di tutelare il superiore interesse del lavoratore alla gestione del tempo libero per svolgere una differente attività e, dunque, pienamente riespandendosi il diritto datoriale alla migliore organizzazione dell'attività lavorativa aziendale, quale corollario delle previsioni codicistiche e costituzionali sulla libertà di iniziativa economica.

Tuttavia, il dato che il datore di lavoro abbia il potere di variare unilateralmente l'orario, nei confronti del dipendente full time, non implica che questo potere risulti illimitato e/o che possa essere esercitato in modo arbitrario, dovendo in ogni caso rispondere a delle esigenze organizzative, tecniche o produttive dell'impresa ed essendo comunque tenuto il datore di lavoro, nelle sue scelte, al rispetto dei criteri della buona fede e della correttezza, che valgono come regola generale nell'esecuzione del contratto, in uno all'osservanza del diritto al riposo, alla salute, alla sicurezza ed alla dignità dei lavoratori.

Ed allora, facendo corretta applicazione delle osservazioni sin qui condensate, nella pronuncia in commento la Suprema Corte ha correttamente respinto le doglianze del lavoratore, riconoscendo “la sussistenza dell'infrazione contestata, sussumibile, anche per espressa previsione collettiva, sotto la specie della giusta causa di recesso ("grave insubordinazione"), integrata dalla condotta del lavoratore che, volontariamente e senza alcuna giustificazione, ha rifiutato le direttive aziendali (cfr., in argomento, Cass. n. 19689 del 2003), così, nella sostanza, contestando i poteri datoriali; nello specifico, il dipendente si è sottratto all'indicazione datoriale, giustificata da esigenze organizzative, di un cambio turno (che avrebbe determinato, secondo l'accertamento contenuto in sentenza, solo una variazione della squadra di lavoro e del relativo capogruppo e non anche dell'orario di lavoro)”.