I compensi degli amministratori sono deducibili solo se deliberati

Francesco Spina
03 Giugno 2020

Non sono deducibili per la società che li ha erogati, i compensi degli amministratori che non siano stati preventivamente deliberati. Tale indeducibilità colpisce anche i compensi che, dapprima deliberati, siano stati poi previsti, con una nuova delibera, soltanto a decorrere dal periodo d'imposta successivo...
Massima

Non sono deducibili per la società che li ha erogati, i compensi degli amministratori che non siano stati preventivamente deliberati. Tale indeducibilità colpisce anche i compensi che, dapprima deliberati, siano stati poi previsti, con una nuova delibera, soltanto a decorrere dal periodo d'imposta successivo. Inoltre, se non vi sono i presupposti per la deducibilità dei compensi agli amministratori, il fatto che, da un lato, essi non vengano dedotti dalla base imponibile societaria e, dall'altro, rappresentino redditi delle persone fisiche ai quali i compensi sono corrisposti non integra una doppia imposizione in senso giuridico, perché il presupposto della tassazione è diverso.

Il caso

Con avviso di accertamento ritualmente notificato, l'Ufficio delle Entrate contestava ad una società di capitali l'indebita deduzione di compensi amministrativi aggiuntivi.

Nell'anno 2003 in verifica, la società in questione aveva quattro consiglieri di amministrazione (che erano anche soci), e tutti e quattro erano stati nominati amministratori delegati, con un compenso di 10.000 Euro annui ciascuno.

Due dei quattro amministratori delegati avevano, invece, ricevuto nell'anno in contestazione il compenso di 40.000 Euro ciascuno, con la giustificazione che così era stato deliberato in virtù dell'attribuzione ad essi di compiti particolari.

Stante quanto detto, l'Ente Impositore recuperava a tassazione non il compenso agli amministratori delegati, ma la speciale remunerazione attribuita a due di essi, e quindi l'importo di 60.000 Euro (30.000 Euro che ciascuno dei due aveva ricevuto, in aggiunta alla retribuzione “ordinaria” degli amministratori delegati).

Il Fisco propendeva per l'indeducibilità di tali somme, in ragione del fatto che la delibera con cui erano disposti i compensi aggiuntivi di 60.000 euro previsti per alcuni amministratori, sebbene adottata nell'anno in verifica, decorreva dall'anno successivo, ovvero dal 2004.

Per contro,la società aveva erogato e dedotto i compensi aggiuntivi già dal 2003.

Tale tesi era trasfusa nell'anzidetto atto impositivo, tempestivamente impugnato presso la competente CTP e confermato sia da quest'ultimo Giudice, sia dalla CTR Veneto.

Avverso tale decisione la società di capitali proponeva ricorso per cassazione, affidandolo a sette motivi.

In particolare, la ricorrente lamentava una presunta violazione dell'art. 67 d.P.R. n. 600/1973 in materia di doppia imposizione, in quanto la stessa imposta era applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto.

Sulle predette remunerazioni, infatti, era stata applicata l'Irpef dall'amministratore, e se la società non avesse dedotto il costo, di fatto avrebbe ritassato sotto forma di Irpeg (oggi Ires) le predette somme, quali utili.

Tale motivo non era condiviso dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale respingeva il ricorso e disponeva la conferma della sentenza impugnata, con condanna della ricorrente società alle spese del giudizio.

Ad avviso dei Giudici Supremi, la mancata deduzione dei compensi da parte della società e la tassazione degli stessi in capo ai soci, non integrano una doppia imposizione giuridica, in quanto il presupposto della tassazione è diverso.

Con l'occasione la Corte ribadiva il principio in base al quale i compensi degli amministratori erano deducibili solo se deliberati, confermando altresì che la mancata deduzione del costo, a fronte della tassazione in capo all'amministratore, non configurava una doppia imposizione vietata dagli artt. 67 d.P.R. n. 600/73 e 163 del TUIR.

Difatti, sebbene il criterio di deducibilità dei compensi degli amministratori sia principio di cassa (v. art. 95 comma 5 d.P.R. n. 917/1986) che consente di dedurre solo i compensi corrisposti (v. Cass. 24003/2019 e Cass. 26431/2018), è solo con la delibera assembleare di approvazione di tali emolumenti (v. art. 109 Tuir), che si attribuisce certezza e inerenza alla componente negativa (v. Cass. 17673/2013).

In difetto di specifica delibera, non è fiscalmente deducibile il compenso erogato all'amministratore, per difetto dei requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità dell'ammontare del costo (v. Cass. 11781/2016).

La questione giuridica

La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire sein tema di società di capitali, l'indeducibilità dei compensi corrisposti agli amministratori in assenza di previa delibera assembleare, comporti o meno una violazione del principio di divieto di doppia imposizione.

Le soluzioni

Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituti coinvolti.

A mente degli artt. 2364, comma 1, n. 3 e 2389 c.c., con delibera assembleare all'atto di nomina dei soggetti preposti alle funzioni gestorie o con successiva deliberazione assembleare (v. Tribunale di Roma, sent. n. 3422/2017), è stabilito il compenso spettante all'amministratore per l'attività espletata all'interno della persona giuridica.

Il contratto di amministratore di società è previsto a titolo oneroso, mentre l'eventuale gratuità deve risultare da un'apposita previsione dello statuto o del contatto di amministrazione (v. Cass. 24139/2018).

Laddove lo statuto societario rechi una clausola statutaria che preveda la gratuità dell'incarico, all'amministratore non sarà dovuto alcun compenso (v. Cass. 285/2019).

In ordine al rapporto di lavoro che si instaura fra società ed amministratori, il Giudice di Legittimità sostiene che esso non sia riconducibile, né alla subordinazione né, tantomeno, alla collaborazione coordinata e continuativa (v. Cass. 1545/2017).

Il comma 3 del citato art. 2389 c.c. afferma che l'assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche, ossia presidente, vice-presidente, amministratore delegato.

Ancora, a livello giurisprudenziale si rilevato possibile attribuire agli amministratori compensi aggiuntivi.

Invero, laddove l'amministratore dovesse svolgere particolari incarichi rispetto ad altri componenti del consiglio di amministrazione, è ammessa la possibilità che lo stesso benefici di una speciale remunerazione, a condizione che dette cariche esulino dal normale rapporto di amministrazione, ossia dal potere di gestione della società, il cui limite deve individuarsi nell'oggetto sociale (v. Cass. 28148/2018, Cass. 11023/2000 e Trib. Palermo, 26.05.2000).

Ed ancora, l'amministratore può essere anche un dipendente della società.

Ne fa eccezione l'ipotesi di l'amministratore unico: in quest'ultimo caso si ritiene che questi non possa essere, al contempo, dipendente della persona giuridica in quanto a tale situazione nessuno potrebbe esercitare i poteri spettanti al datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato.

Per l'effetto, nessun divieto opera laddove l'amministratore dipendente, sia componente del consiglio, sottoposto alle direttive ed ai controlli del consiglio stesso.

Per ciò che attiene alla deducibilità di tali compensi, a mente del comma 5 dell'art. 95 Tuir essi sono deducibili nell'esercizio in cui sono corrisposti.

Sebbene il citato art. 95 si riferisca ai - soli - soggetti IRES, il criterio di “cassa” è applicabile anche agli amministratori delle società di persone in forza del rinvio di cui all'art. 56, comma 1 del TUIR (laddove corrisposti acconti, essi andranno dedotti nell'anno di corresponsione).

La deducibilità per cassa risponde all'esigenza di assicurare una corrispondenza tra il periodo d'imposta in cui la società deduce il costo e quello in cui l'amministratore assoggetta a tassazione il compenso quanto ad esigenze di “cautela fiscale”.

Qualora, infatti, si adottasse il criterio di competenza, la società potrebbe stanziare a bilancio il costo dell'amministratore senza mai sostenerlo; di converso, per quest'ultimo non si configurerebbe mai alcun reddito, in quanto vigerebbe il principio di cassa.

Dal lato dell'amministratore, i compensi amministrativi assumono la qualifica di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente,ex art. 50 Tuir.

Ne consegue che agli stessi, trova applicazione il principio di cassa allargata (v. Cass. 20033/2017) ai sensi dell'art. 51, comma 1, del T.U.I.R., in ragione del quale, i compensi percepiti dall'amministratore entro il 12 gennaio dell'anno successivo a quello di riferimento, sono deducibili dalla società nel periodo d'imposta di riferimento, in ossequio al principio di cassa “allargato”.

Anche per il soggetto erogante è applicabile il criterio di “cassa allargata”, con riferimento alla deduzione dei costi, come già ammesso per i datori di lavoro subordinato (v. Agenzia delle Entrate, Circ. 18.6.2001 n. 57).

Per ciò che attiene alla deducibilità del compenso corrisposto all'amministratore, unanime giurisprudenza di legittimità subordina la deduzione della posta passiva, all'esistenza di una espressa previsione statutaria (v. Cass. 14113/2019) o ad un'apposita delibera assembleare (v. Cass. 11779/2016, Cass. 5349/2014, Cass. 5349/2013).

Ciò premesso e tornando al caso in premessa, l'Agenzia delle Entrate riteneva indeducibili i compensi aggiuntivi che una società di capitali aveva corrisposto ad alcuni membri del consiglio di amministrazione.

Più specificamente, la società ricorrente aveva nominato amministratori delegati tutti i suoi quattro consiglieri di amministrazione, riconoscendo delle remunerazioni aggiuntive a due dei quattro amministratori delegati, per ragioni legate ai particolari incarichi ricoperti da questi. Tale speciale remunerazione era stata deliberata con decorrenza dall'anno 2004, ma era stata comunque riconosciuta agli individuati amministratori per l'anno 2003.

L'atto impositivo che ne discendeva, era impugnato presso il competente Giudice tributario e dallo stesso confermato sia in primo, sia in secondo grado.

Avverso tale decisione la società di capitali interponeva Ricorso per Cassazione affidandolo a sette motivi, tra cui spicca la violazione del divieto di doppia imposizione.

La tesi della ricorrente società non era accolta dalla Suprema Corte di Cassazione, che rigettava il ricorso.

Osservazioni

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, riteneva che l'assenza di deliberazione fosse sufficiente per dirimere la questione della deducibilità del costo sostenuto, indipendentemente dalla contestazione, sollevata in contenzioso, della possibilità o meno di nominare tutti i consiglieri di una società anche amministratori delegati e, quindi, della corretta interpretazione degli artt. 2381 e 2389 c.c..

I compensi corrisposti agli amministratori non sono deducibili, quindi, se non previamente deliberati (v. Cass. 5349/2014), atteso che la specifica delibera assembleare costituisce la fonte dell'obbligazione patrimoniale (v. Cass. 21953/2015).

Ancora, con la pronunzia in disamina, la S.C. prende posizione su una presunta ed eventuale violazione del divieto di doppia imposizione, che potrebbe verificarsi laddove il compenso erogato dalla società, non sia riconosciuto fiscalmente deducibile.

Difatti, laddove la società dovesse erogare dei compensi ad amministratori persone fisiche, che li hanno tassati, allora la persona giuridica erogante dovrebbe poter dedurre quelle somme, pena una doppia imposizione.

Di avviso opposto il Giudice di Legittimità.

A tal fine la S.C., citando una sua precedente pronuncia (v. Cass. 33217/2018) nega la violazione del divieto di doppia imposizione, affermando che “…in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l'operatività del divieto di doppia imposizione, previsto dall'art. 67 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto. Tale condizione non si verifica in caso di duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, quale quella che si realizza, in caso di partecipazione al capitale di una società commerciale, con la tassazione del reddito sia ai fini dell'IRPEG, quale utile della società, sia ai fini dell'IRPEF, quale provento dei soci, attesa la diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti a base delle due diverse imposizioni.”(v. Cass. 4400/2020, Cass. 19687/2011 e Cass. 8351/2002).

In breve, stante un diverso presupposto di tassazione giuridica, a detta della Suprema Corte non si verifica alcuna - vietata - doppia imposizione.

Nel caso di specie, pertanto, era legittimo il disconoscimento, da parte dell'Amministrazione finanziaria, della deduzione operata dalla S.p.A.

Conclusioni

Con la sentenza in commento, i Giudici della V Sez. prendono posizione sui compensi agli amministratori e sull'inesistente doppia imposizione, laddove al compenso erogato agli amministratori di società, non dovesse corrispondere la deducibilità fiscale delle somme corrisposte.

A sommesso avviso di chi scrive, il ragionamento della Corte, sebbene ineccepibile dal punto di vista giuridico e formale, appare criticabile dal lato economico e sostanziale.

Difatti, seppur la doppia imposizione giuridica è stata dichiarata non sussistente poiché sussiste un presupposto giuridico differente tra utile societario e proventi della persona fisica, oggetto di differenti forme di tassazione, è evidente la presenza di doppia imposizione economica.

Bene avrebbe fatto, nel caso in parola, la Corte a supplire alla lacuna normativa, ad esempio focalizzando la sua attenzione sulla piena inerenza ed afferenza della componente negativa o sulla irrilevanza fiscale delle erogazioni all'amministratore, in difetto di delibera assembleare.

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